Della natura umana

DeriveApprodi, 2005
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Quando si chiude l’ultima pagina di Della Natura Umana. Invariante biologico e potere politico1 (DeriveApprodi, 2005) si può solo essere d’accordo con Paolo Virno: «La discussione avvenuta a Eindhoven provoca un senso di disagio abbastanza duraturo da risultare istruttivo. E’ questo, forse il suo pregio maggiore. […] si prova una duplice e concomitante insoddisfazione»2.

La prima ed unica volta che Noam Chomsky e Michel Foucault si incontrarono per un confronto fu nel 1971 in Olanda, per l’appunto a Eindhoven. Il testo è proprio la trascrizione di quel dialogo che fu pure filmato e mandato in onda per la televisione. La discussione tratta di due scottanti problemi: la nozione di natura umana e la politica; quest’ultima intesa da un lato come analisi dell’effettivo “potere politico” e, dall’altro, come costruzione di una società più “giusta”. Per quanto natura e politica umana siano, nel testo, concetti legati indissolubilmente, in questa recensione mi soffermerò solamente sul primo.

La natura umana è per Chomsky una nozione fondamentale: l’uomo possiede per via innata delle facoltà, caratteristiche, schemi o principi organizzativi (qualsiasi termine indica la stessa cosa) che guidano il suo comportamento sociale, intellettuale e individuale. Lo studio della mente umana portato avanti dalla scienze cognitive (le quali, in quegli anni, erano da poco entrate seriamente nel dibattito filosofico) mira, per l’illustre linguista, proprio alla conoscenza di tali principi innati ed autoregolativi. L’uomo possiede, allora, un invariante biologico che lo rende uguale a tutti gli altri uomini, appartenenti a tutte le epoche storiche: «[…] ritengo che da un punto di vista biologico e antropologico, la natura dell’intelligenza umana certamente non sia cambiata in modo sostanziale dall’uomo di Cro-Magnon in poi»3.

Per Foucault, tutto l’opposto: «[…] ho difficoltà ad accettare che tali regolarità siano legate alla mente o alla natura umana come condizioni di esistenza: […] mi sembra che occorre risituarle all’interno delle altre pratiche umane, economiche, tecniche, politiche, sociologiche che servono da condizione di formazione, comparsa e da modello»4. L’uomo di Foucault è, secondo una sua famosa formula, “un’invenzione recente”: non è l’uomo biologico, non è l’uomo che vive, parla e produce, bensì è l’uomo che «si rappresenta la sua vita, il suo lavoro e il suo linguaggio»5; è l’uomo sempre condizionato, in tutte le sue azioni e manifestazioni, dall’epoca storica in cui vive e dal contesto che lo circonda. In pratica, è l’uomo delle scienze umane.

Chomsky espone la nozione di natura umana attraverso la sua concezione del linguaggio (ma, molto probabilmente, identifica i due termini). Quest’ultimo è non solo innato ma, come afferma la sua rivoluzionaria tesi della “grammatica generativa”, è creativo: ogni essere umano fa un utilizzo infinito – infinito nelle sue possibilità – di mezzi finiti – cioè limitati numericamente e nelle potenzialità. I mezzi altro non sono che quella serie di “schematismi” innati già citati; ciò in cui ogni uomo è diverso dall’altro è l’uso che ne fa. Tale “creatività”, però, non è (almeno così sembra nel leggere le affermazioni di Chomsky) condizionata storicamente, bensì è del tutto libera ed incondizionata.

Foucault, d’altro canto, ribadisce che Chomsy sbaglia nel porre i principi normativi (i mezzi finiti) del linguaggio o delle azioni umane nella mente individuale: «Gli schemi e le strutture su cui si innesta la variazione creativa hanno un origine sovrapersonale. E sovrapersonale, per Foucault, vuol dire storica»6. La natura umana (se proprio bisogna utilizzare tale termine) è, quindi, non un concetto scientifico o un invariante biologico, bensì solamente un «indicatore epistemologico»7, ossia una nozione utilizzata in modo diverso e vario dagli studiosi a seconda delle “rivoluzioni scientifiche” e delle epoche storiche.

Il dialogo tra i due filosofi è interessantissimo, ma spesso stereotipato. Emerge una incomunicabilità di fondo, quasi come se i due parlassero (per restare in tema) lingue diverse. In effetti, è proprio così: da una parte, quella di Chomsky, vi è la Natura umana in tutta la sua novità, invariabilità ed oggettività; dall’altra parte, quella di Foucault, vi è la Cultura umana, in tutta la sua potenza, complessità e storia.

I tre saggi che accompagnano la lettura del dialogo, sono interessanti ed illuminanti: il primo è di Diego Marconi, quasi totalmente a favore di Chomsky; il secondo è di Stefano Catucci, a favore di Foucault; il terzo, citato all’inizio, è di Paolo Virno, d’accordo e contrario allo stesso tempo ad entrambe le posizioni. Molte sono le critiche che questi autori pongono ai due filosofi.

Una sola, però, mi sembra la critica fondamentale e comune: la naturalizzazione della coscienza, il concetto di natura umana, non implica l’irrilevanza delle varie rappresentazioni e produzioni della cultura; e viceversa: la dimensione storica dell’uomo non esclude una sua dimensione naturale. Le strutture mentali innate si intersecano indissolubilmente con le strutture e rappresentazioni mentali apprese e costruite durante la nostra vita.

Già nel 1911, Edmund Husserl polemizzava nel suo famoso scritto La filosofia come scienza rigorosa contro i due titani della ricerca scientifica: il naturalismo e lo storicismo, contrapponendo ad essi la fenomenologia come unica filosofia scientifica. Sulla scorta del suo insegnamento, forse oggi troppo escludente e privo di alcun tentativo di “compromesso”, e dopo più di trent’anni dal dialogo tra Chomsky e Foucault, possiamo e dobbiamo renderci conto che Natura e Cultura sono due dimensioni diverse ma complementari nell’essere umano.

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