«Antropologia computazionale» e «Mente, corpo e società nel naturalismo forte»

«Nuova civiltà delle macchine», a. 24, n. 2/2006
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Ad unire le posizioni di Alberto Giovanni Biuso (Filosofia della mente, Catania) e Sandro Nannini (Filosofia teoretica, Siena) è – probabilmente – soltanto la numerazione delle pagine: nel numero 2/aprile-giugno 2006 (anno XXIV) della rivista trimestrale Nuova Civiltà delle Macchine compare la seconda parte del tema Mente e Natura, discusso per l’occasione da vari autori. In particolare da pag. 93 a pag. 111 compare il saggio “Antropologia computazionale. Per una pratica non riduzionistica dell’Intelligenza Artificiale” firmato da Biuso, mentre segue da pag. 112 a pag. 128 il saggio di Nannini che titola “Mente, corpo e società nel naturalismo forte”.

È mia intenzione illustrare il contenuto dei due saggi e, confrontandoli, avere un’occasione per rilevare come essi rappresentino due modi distanti di concepire, sì, il mentale, ma ancor di più, in realtà, la nozione di scienza.
Nel suo saggio, Biuso argomenta a favore dell’irriducibilità dello statuto della mente umana e della centralità della corporeità in una antropologia «computazionale». L’essere umano è, infatti, tanto «tecnico» quanto «olistico»: la natura dell’uomo fa sì che egli crei una cultura intorno a sé dalla quale non può prescindere e per mezzo della quale può vivere nell’ambiente naturale. Proprio per questo non si può fisicalisticamente ricondurre l’essere umano ad una pura materialità (indagata appunto dalla fisica); al contrario, l’approccio deve essere necessariamente olistico, in modo tale da considerare i diversi livelli di realtà che costituiscono l’uomo. L’approccio olistico si applica integrando i seguenti livelli, che Biuso individua: le leggi della fisica, la struttura chimico-molecolare, i processi biologici, l’identità psichica, le relazioni sociali e le Weltanschauungen della cultura.

Se si tengono separate le analisi di tali livelli, avvisa Biuso, non si potrà costruire una reale antropologia. L’ipotesi, poi, di costruire delle intelligenze artificiali andrebbe abbandonata del tutto se non si tenesse in debito conto non solo tale antropologia ma soprattutto il ruolo del corpo. I limiti maggiori del progetto I. A. consistono propriamente, secondo Biuso, nel sottovalutare tanto il corpo, nella sua natura intenzionale, quanto l’ambiente, e nel fraintendere i ruoli tanto delle emozioni quanto del linguaggio nel costituirsi della realtà culturale umana, l’humus dell’homo. In realtà per Biuso un vero progetto dell’I. A. dovrebbe trasformarsi in Antropologia Computazionale: è l’uomo, infatti, che – evoluzionisticamente «tecnico» – è destinato ad assumere su di sé il peso dello sviluppo delle sue stesse tecniche, ad evolversi, in quanto cybernetic organism, introducendo «nel proprio essere biologico degli elementi artificiali» (p. 103). Deve essere dunque l’antropologia a diventare «computazionale» e non l’intelligenza a diventare artificiale. L’ultimo ostacolo per una comprensione dell’umano risiede nel tempo. Se il corpo è il centro gravitazionale delle esperienze e della vita, allora è nella sua finitudine che va cercato il carattere costitutivo dell’anthropos, come ha fatto Heidegger. La temporalità, che scandisce l’esser-ci, dà senso al vissuto.

Come si pone tale antropologia nei confronti della scienza? I parametri delle scienze naturali divengono «troppo rigidi e in questo caso inadeguati» (p. 94) per comprendere la mente: secondo Biuso, il riduzionismo metodologico non implica l’accettazione di un riduzionismo ontologico; la realtà è infatti più ampia dei modi umani di comprenderla e spiegarla.
Al contrario, il saggio di Nannini suffraga l’ipotesi «naturalista» o «fisicalista» secondo cui è auspicabile proprio una riduzione ontologica, oltre che un «monismo metodologico» degno di un empirista logico (tutte le scienze, umane e naturali, condividono gli stessi criteri di validità scientifica). Dopo averne chiarito alcuni punti fondamentali, tale naturalismo viene applicato alle scienze sociali. Il naturalismo è «una dottrina che presuppone una concezione scientifica del mondo d’ispirazione analitica o post-analitica» (p. 113) e che per questo dovrebbe rifiutare ogni assunto metafisico, a fortiori un’ontologia. Secondo Nannini, invece, un’ontologia filosofica analitica è possibile, anzi necessaria soprattutto per delineare le condizioni d’esistenza, l’emergenza o l’implementazione degli stati fisici e mentali. Precisa Nannini che «conviene considerare le distinzioni tra i vari sensi di ‘esistere’ come trasversali rispetto ai vari livelli d’analisi e quindi da essi indipendenti» (p. 115): ciò significa che si presentano due modi di rapportarsi dei livelli d’analisi, l’emergenza e l’implementazione. Secondo Nannini ogni emergentista si rivelerebbe dualista perché ogni entità “emergente” da un livello sottostante è considerata da esso ontologicamente indipendente. Per spiegare i rapporti tra due distinti livelli, al naturalista non rimane dunque che la via dell’implementazione. Essa è una «ridescrizione di parti» (p. 116) dell’entità del livello “inferiore” in un linguaggio diverso.

Il realismo scientifico che il naturalista deve accettare comporta però il «relativismo cognitivo» in base al quale le scienze non offrirebbero «descrizioni e spiegazioni, a differenti livelli d’analisi, di un’unica e medesima realtà indipendente dal soggetto conoscente» (p. 120). Tale inconveniente non può essere risolto, secondo Nannini, né dall’idealismo trascendentale di Husserl, né dal pluralismo ontologico, né dall’idealismo (oggettivo e soggettivo) né dal monismo neutrale; ma soltanto dal materialismo. Riprendendo il pensiero di filosofi come Reichenbach, Quine e Dennett, Nannini introduce a tal proposito delle categorie di esistenza distinte in illata, abstracta e ficta. I primi sono entità la cui esistenza è empiricamente determinata ed indipendente da qualsiasi sua descrizione; i secondi sono costrutti teorici ontologicamente dipendenti da illata; i ficta sono invece pure illusioni, entità non esistenti punto. Ebbene, per il naturalista materialista le realtà mentali sono dunque abstracta, esistenti solo in modo dipendente rispetto agli illata, gli stati fisici del cervello. E «i valori morali, i principi giuridici, i criteri estetici, le norme linguistiche ecc.», insieme al libero arbitrio, sono puri ficta, illusioni che non possono essere causa di alcunché: il nulla non causa nulla» (p. 126). Applicato alle scienze sociali, il discorso di Nannini conduce a precisare che «non il valore o la norma è ciò che influenza il comportamento, bensì il fatto che tale valore o tale norma è l’oggetto interno di qualche atto mentale» (p. 126) che, essendo implementato in uno stato cerebrale, possiede capacità causale.

Qual è dunque il rapporto tra naturalismo e scienza? Afferma laconico Nannini: «se qualcosa è oggetto di scienza pur non essendo fisicamente implementabile, allora esso è sicuramente un fictum, per definizione non esistente» (p. 124). In questo modo, la rigidità dei parametri che Biuso lamenta sembra consolidata da Nannini.

Biuso è d’accordo con Nannini nel pensare che le attuali proposte teoriche della filosofia della mente non sono altro che rivisitazioni in chiave moderna delle più antiche formulazioni filosofiche dei problemi sul mentale (Platone, Aristotele, Democrito), Nannini dal canto suo ammette che anche i ficta potrebbero essere ammessi nel novero delle entità scientificamente analizzabili e che in linea di principio potrebbero esserci entità che, seppur reali, sfuggono alla scienza; ma pare plausibile ritenere che i due pensatori italiani divergano così tanto nel modo di concepire la mente – per Biuso un’entità che intesse i diversi livelli della realtà umana (tanto cerebrale quanto temporale), per Nannini un’entità fittizia rispetto agli stati cerebrali ma in grado di influenzare i comportamenti – perché essi coltivano due divergenti aspettative rispetto a ciò che debba promettere la scienza: nel caso di Biuso un ampliamento dell’orizzonte epistemico per includervi il senso della mente fornito dai vari aspetti della complessità umana, nel caso di Nannini una rigida chiusura dinnanzi ai problemi posti dal fenomeno mentale per ricondurli entro i parametri dell’empirismo dei primi decenni del Novecento.
Calza, in conclusione, la riflessione di Davide Sparti – condotta nel suo “Filosofia delle Scienze Sociali” in N. Vassallo (a cura di), Filosofie delle Scienze, Einaudi 2003 – a proposito della distinzione tra scienze sociali e scienze naturali. Sparti riprende Rorty e afferma che contraddistingue le prime un atteggiamento «ermeneutico», le seconde uno «epistemologico»; nel senso che le scienze sociali rintracciano i nessi vitali tra gli individui, mentre le scienze “dure” riconducono ogni movimento naturale ad un vocabolario consolidato e rigoroso. Ebbene, applicando il discorso alla scienza in generale esso si rivela prezioso: in fondo, da un lato Biuso difende la possibilità da parte della scienza di comprendere (ermeneuticamente), per mezzo di una conversazione aperta col vocabolario della complessità, i vissuti husserliani che attraversano – intessendole – tutte le sfere dell’esistenza; dall’altro Nannini difende la capacità della scienza di controllare (epistemologicamente) la realtà acquisita, consolidata ed esperita, per mezzo di linguaggi rigorosi ed entro paradigmi kuhniani ben definiti. Entrambi pensano un rapporto tra vissuti e paradigmi che probabilmente va difeso da ambo i fronti.

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