La mente temporale

Carocci, 2009
21 Comments

Tra le chiarissime pagine di questo notevole saggio, notevole per respiro e densità, troviamo una definizione la cui verità si mostra nell’opera stessa; pertanto, se è vero, infatti, che «il fenomenologo è colui che osserva la realtà e il divenire con occhi spalancati, con un atteggiamento in cui si mescolano meraviglia, candore e gioia per la scoperta di un mondo nuovo, come se apparisse per la prima volta agli occhi della mente»1, allora Biuso stesso è l’incarnazione di questa definizione, giacché al metodo fenomenologico si richiama ed attiene, mostrando con le sue parole la gioia della conoscenza, la meraviglia che conduce al filosofare, il tutto visto con gli occhi della mente, ossia, stando al testo, con gli occhi fluenti della temporalità, la quale, offrendoci il mondo, proprio per questa ‘apertura’ permette di scoprircelo sempre rinnovato.

Il procedere di Biuso è fedele alle premesse: una spirale che ripete spesso i risultati raggiunti alla luce delle nuove argomentazioni, aggiungendovi sempre qualcosa, in un linguaggio chiaro e in un andamento mai pedante, capace di far scorgere l’essenza di svariate teorie anche quando solo accennate nel breve spazio di un paio di pagine.

Il saggio si divide in quattro capitoli. Il primo titola: Una storia della mente, e non si tratta di una tra le tante storiografie più o meno esaurienti, più o meno didattiche o noiose dell’anima o della mente; piuttosto è quella che potremmo definire una visita guidata, neanche troppo rigorosamente cronologica, attraverso alcuni temi e problemi emersi lungo i secoli nella storia del pensiero. Perché se è vero che la filosofia della mente «non può presumere di fare tabula rasa di una tradizione millenaria fuori dalla quale essa non ha, semplicemente, senso»2, è altrettanto vero, seguendo la visione schopenhaueriana e che Mazzarella fa propria aggiungendo un accento sull’Oggi, «l’umano non è riducibile esclusivamente a storicità, la quale assume il suo significato più proprio, e naturalmente prezioso, solo se coniugata alle sue radici non storiche»3.

Prova ne sia che nelle ultime pagine di questo primo capitolo comincia ad emergere chiaramente la prospettiva di Biuso, in un ambito, dunque, già spiccatamente teoretico e non più storico.

La seconda parte ha nome Il corpo dentro il mondo, ad indicare già da questo la costitutiva coappartenenza di mente e mondo, come già sapeva Heidegger e come ha mostrato Francisco Varela. Quindi giungiamo al capitolo più esteso, ossia Decifrare il tempo, in cui è racchiuso il cuore pulsante del saggio, dove tra le altre preziose analisi troviamo un’ampia trattazione del tempo in tutte le sue forme e più precisamente: il tempo cosmico, fisico, convenzione, sociale, psicologico, somatico, genetico, antropologico e infine il tempo-mente. Conclude il saggio il capitolo Intelligenze artificiali, ibridazione, finitudine temporale, dove la possibilità di valicare gli attuali limiti umani è collocata all’interno della struttura umana stessa, nella consapevolezza che oltre il corpo non si può mai andare.

Il disegno appena tracciato è volutamente breve e per accenni, in quanto tale articolazione è solo lo sfondo, o per meglio dire la cornice entro cui il pensiero di Biuso si snoda in maniera affatto unitaria. L’intero volume, ebbene, si configura come un tentativo informato e ben argomentato per veicolare «il concetto fondamentale – la cronosemantica»4 di cui è intessuto ogni passo, per un versante o per un altro, dell’intero saggio. A tale unitarietà fa da riscontro l’intenzione di andare oltre ogni forma di dualismo (mente/corpo, mente/mondo, soggetto/oggetto, natura/cultura), ma non per far prevalere l’uno o l’altro termine della coppia, come accade nei monismi, bensì per pensare l’interezza che sta prima di ogni frammentazione e di tutti i tentativi di ricondurre all’uno a posteriori. A questo riguardo, una similitudine indicativa e che ricorre più volte è quella che assimila la mente e il cervello alla maniera di comportarsi della luce: «Mente e cervello non sono in contrapposizione poiché costituiscono lo stesso processo osservato a due diversi livelli di funzionamento, percezione, spiegazione, in modo analogo a quanto avviene con la luce che può essere descritta in maniera sia corpuscolare sia ondulatoria»5.

Cronosemantica non significa altro che la mente è sostanziata dai significati; o, per dirla con una formula meno breve, essa è la funzione ove il tempo diviene consapevole di se stesso e s’impregna di significati, intendendo ‘impregnarsi’ alla lettera, ossia rendersi pregna. L’indagine così puntuale, è il caso di dirlo, del tempo mostra che tutti i tempi presi in esame sono possibili a partire dalla costitutiva temporalità della mente. La portata temporale pare assimilabile al termine tecnico fluviale, per cui dalla sorgente che si nutre dell’acqua celeste si giunge alla foce del tempo antropologico in cui «la complessità delle forme temporali trova una prima sintesi»6, prima di sfociare nel mare della temporalità mentale, la forma del tempo che Biuso indaga e che dice essere intessuta di tutte quelle che ha esposto «ma si colloca nella dimensione specifica della coscienza poiché la mente è nella sua più propria natura tempo consapevole di se stesso, del proprio rimanere nella memoria, del suo passare come finitudine, del suo orizzonte di possibilità aperta al futuro, del suo esserci nel presente»7.

In questa definizione della mente, chiara quanto mai, sono due gli aspetti da rimarcare: il primo è la corporeità, la quale mostra tutta la propria gloria e potenza, ma anche decadenza, intrecciandosi strettamente al tema della memoria e dei ricordi. Il corpo conserva tutti i ricordi, è la memoria stessa fattasi carne, prova vivente che la mente non è localizzata in qualche organo o parte specifici del corpo, ma è diffusa in tutto questo corpo stesso. Tuttavia, se questo è vero, se cioè il corpo è l’incarnazione della mente allargata, che si connette con l’infosfera, la teriosfera e la teosfera, v’è da considerare il risvolto della medaglia, ossia l’aspetto per cui il corpo è il limite del percepibile, dove questo limite è costituito da ciò che la funzione ‘mente’ può conoscere; tra le tante, tutte coerenti, definizioni che Biuso dà della mente troviamo infatti questa: «si potrebbe dire che la mente rappresenta una sorta di forma a priori della corporeità che consente di scorgere nel mondo fisico solo il fenomeno, ciò che di questo mondo serve alla sopravvivenza del corpo umano, mentre ogni elemento che non sia funzionale alla scopo rimane una sorta di noumeno invisibile o almeno non visto»8.

L’altro aspetto cui accennavo è che questo fluire temporale può trovare talvolta dei momenti di tale pienezza ed intensità come se fosse tutto presente e l’attimo condensasse il tempo in una parvenza di eternità. Nonostante e al di là di qualunque definizione neurologica, è il déjà vu a costituire tale pienezza, tale intreccio di passato e presente, «come se il dolore e la gioia cominciassero ad apparire così potenti da essere superiori al tempo stesso, quindi eterni»9; Biuso precisa che non si tratterebbe dell’eternità intesa come infinita durata temporale, così come intesa dal cristianesimo e dalla modernità; bensì è un’eternità atemporale, posta fuori dal tempo, in cui la pienezza trasborda e l’attimo si vuole eterno; da questa potenza dirompente ne viene il senso del ‘presente’: «che anche un solo istante di vita ci regali il desiderio che l’attimo diventi eterno (non trascorrendo né ritornando), conferma che il presente è appunto tale, cioè un dono fatto di pienezza ontologica»10. È il mito del Faust che si compie, con l’essenziale differenza, si badi bene, che la dannazione è mutata in benedizione; di contro al faustiano protrarsi infinito delle esperienze (ossia del tempo), qui è l’istante reso assoluto atemporalmente, con la conseguenza che l’ente si è ‘perfezionato’. È il tempo che non ha più tempo per sé; è l’irrompere della perfectio, con la quale, si potrebbe obiettare a Biuso, si sconfina, territorialmente, nell’ambito della spazialità. È il tempo in estasi.

Tornando più da presso al testo, da questa plenitudo credo sia opportuno ritornare alla prima forma del tempo, ossia il tempo cosmico, caratteristico delle civiltà antiche. In questo scorcio si svela pure la concezione greca, la cui analisi del tempo «si presenta estremamente ricca, differenziata e tuttavia assai coerente»11. Biuso ci mostra l’affascinante prospettiva secondo cui all’origine della mitologia v’è un fenomeno sconcertante, ossia quel movimento ad X (non a caso l’iniziale di χρονος) che compie la Terra ogni 25.920 anni: la precessione degli equinozi. L’inclinazione dell’asse terrestre, com’è noto, produce tale moto e fa sì che l’equatore celeste e l’eclittica non coincidano. Da questa discrepanza, secondo gli antichi, da questo «uscire dai cardini del Tempo»12 deriva ogni distruzione ed ogni male.

L’analisi greca delle caratteristiche del tempo è così descritta13: 1) nessuna distinzione tra ontologia, antropologia, etica; 2) eternità non come durata infinita, ma intesa fuori dal tempo; 3) contrapposizione ed al contempo legame (in Platone) tra il tempo-χρονος, che sostituisce gli enti con altri in un processo senza fine, e il tempo-Aιων, immobile, perfetto, archetipico; 4) il legame aristotelico tra il tempo interiore e il movimento universale; 5) duplicità della visione gnostica del tempo come gabbia del divenire e come «riscatto che altro non è se non un ritorno alle ragioni ultime della propria esistenza, libera dal tempo poiché in realtà lo precede».

Oltre queste analisi, forse, non è possibile andare se non nella direzione olistica per cui nessuna sfaccettatura deve essere esclusa, ma anzi percorrendo la strada filosofica deve esserne accettata ed accertata la compresenza verificando tali assunti nel contesto ibridativo che pur connaturandoci si è ancor più affermato nella nostra epoca. Per tale motivo, infatti, la filosofia della mente può rivelarsi filosofia in senso pieno ed integrale e la domanda fondamentale, anche a fronte dell’intelligenza artificiale, rimane quella socratica. La conoscenza di sé, in senso lato, in quanto in quel ‘sé’ è compreso l’essere umano, non può prescindere dalla finitudine dataci dall’ineliminabile corporeità. Molto probabilmente, dunque, Biuso ha ragione nel dire che quello che egli propone di chiamare GED, ossia ‘Grande essere digitale’ e che rappresenta «la forma nella quale […] i corpi e le intelligenze si fonderanno in una connessione continua di memoria operativa, database conservativi e comunicazioni in tempo reale»14, che tale GED, perciò, non sarà costituito da robot divenuti coscienti o dal realizzarsi degli obiettivi di quella che viene chiamata ipotesi dell’Intelligenza Artificiale forte; piuttosto esso sarà costituito «da quella fusione di biologico e protesico che l’umanità è da sempre»15.

Il pensiero di Biuso, dunque, approda ad una visione sostanzialmente aperta e molteplice dell’identità umana, partendo da un approccio fenomenologico che tuttavia si riserva di criticare Husserl per la poca attenzione prestata al corpo, il quale è invece «lo spazio fisico e fenomenologico nel quale la mente e il tempo si toccano nel punto esatto del ricordo»16; identità che però non consente di procedere oltre e deve essere presa, per parafrasare un motto husserliano, come si dà ma anche soltanto nei limiti in cui si dà. L’essere umano è dunque sospeso tra il desiderio irraggiungibile dell’oltrepassare il tempo e la consapevolezza della propria finitudine; nonostante la sua radice, l’ibridazione, secondo Biuso, non si deve mai collocare nella hybris che nega l’essenzialità del corpo e con ciò la finitudine; il cyborg è e sarà anch’esso, o meglio anche lui stritolato dal platonico Mulino del Tempo, fosse solo perché il cyborg siamo noi, crocevia di natura e cultura, da sempre ibridati.

La famosa definizione del Timeo (37 d) che vede il tempo come «immagine mobile dell’eternità» è sciolta da Biuso nei seguenti termini: «il tempo come susseguirsi di istanti – χρονος – è un riflesso inevitabile e dinamico del tempo come stabilità – Aιων»17. In questa duplice natura del tempo si colloca la vita dell’uomo, incapace di coniugare inizio e fine, perché incapace di cogliere il tempo come stabilità. Eppure è questa per Biuso (e, modestamente e per quanto valga, per me anche se forse in senso diverso rispetto all’autore) la filosofia: «lasciare che il Sé pulsi di ciò che lo intesse, la forza dell’Aιων, del Tempo»18. In questo pulsare, a mio avviso, è la stabilità del Tempo oltre il tempo, ove si spalanca la simultaneità19, l’immagine immobile del disfacimento dei corpi che non vivono più20.

21 responses to “La mente temporale

  1. Ti ringrazio di avermi citato in una recensione così bella. Talmente bella che scampi il rischio di rovinarla proprio per avermi citato!

  2. La ringrazio, caro Cateno, per questa recensione puntuale, acuta, critica, capace di cogliere quella "duplice natura del tempo" alla quale il libro fa costante riferimento ma che lei è stato in grado di sciogliere con grande chiarezza.

  3. Caro Cateno, complimenti davvero!

    Ti chiedo un favore: potresti approfondire qui nei commenti (o sul forum, se preferisci) la differenza tra hybris e ibridazione di cui parla il Prof. e a cui tu hai accennato?

    Grazie!

  4. Caro Giofilo,

    approfitto della tua domanda per scrivere ancora qualche riga in più.

    Un accenno importante alla hybris viene fatto nel contesto dell'analisi della temporalità orfico-pitagorica. Il Tempo e la Necessità sono strettamente legati, dacché quest'ultima circonda l'universo; il Tempo stesso è definito dai pitagorici come la psyché dell'universo. Il Tempo è filato dalle Parche o, più propriamente, dagli dèi; tuttavia, una volta intrapreso il cammino, nemmeno Zeus potrebbe riavvolgerne l'andamento. La saggezza divina impone l'auto-limitazione. Anche gli umani, però, possono costruirsi il proprio destino, avendo la possibilità (o, direi io, la decadente propensione) di accrescere la propria sventura oltre il destino, "attraverso scelte sbagliate, irrazionali, scaturite dalla hybris, dalla dismisura del desiderio che non accetta i limiti del mondo, degli eventi, del tempo stesso quindi" (pag. 152).

    La tesi per cui la natura dell'essere umano è ibrida sostiene che l'ibridazione con l'alterità, da parte dell'uomo, "nasce da una incompletezza che non è un difetto da colmare bensì una possibilità da vivere" (pag. 226); tale paradigma si propone di scalzare via ogni antropocentrismo ed ogni dualismo tra natura e cultura.

    Ora, nella hybris incapperebbero coloro i quali cercano di andare oltre il corpo, di toglierlo di mezzo, di sostituirlo; questa sarebbe "una dismisura da cui questi stessi saperi [biopolitica, ingegneria genetica, nanotecnologie, robotica] verrebbero cancellati, poiché l'umanità può ancora modificarsi ed evolversi solo a partire da sé, a partire dal corpo così come esso è da sempre: bios contingente della immortale Zoé" (pag. 259).

    Il discrimine sta tutto, quindi, nell'accettazione della corporeità, che poi è l'accettazione della finitudine o, se si preferisce, della morte. Anziché accettare il proprio destino, ossia quello di essere mortali, la hybris tenterebbe di negare, per usare un'espressione di Biuso, questo bastione dell'essere-per-la-morte. L'andare "oltre" dell'ibridazione, per contro ed a mio avviso, trova la propria figura tipologica in colui che ha il senso della terra; ma su questo, caro Giofilo, attendo tue fosforescenze.

  5. L’andare “oltre” dell’ibridazione, per contro ed a mio avviso, trova la propria figura tipologica in colui che ha il senso della terra; ma su questo, caro Giofilo, attendo tue fosforescenze.

    Sei incredibile… come al solito, Cateno, hai centrato il punto, cioè il mio punto ;-)

    Non attenderti fosforescenze ora, dato che sul rapporto tra Oltreumano e Postumano dovrò scriverci un capitolo, ma a tesi ultimata :-D

    Grazie per la tua risposta!

  6. Ho letto la ricca recensione di Cateno e mi propongo di leggere il saggio, spero di trovarlo facilmente nelle librerie Catanesi.

    Vorrei chiedere al prof. Biuso, e anche al suo recensore, se nel saggio ci si è anche soffermati sulla critica al concetto di Tempo che costruisce Heidegger.

    Questo è un punto alquanto enigmatico su cui mi piacerebbe conoscere la vostra opinioni e su cui Heidegger entra in contatto con Bergson, in qualche maniera e per vie proprie.

    Si tratta del fatto che nei suoi scritti Heidegger, come sappiamo, costruisce tutta la struttura intenzionale dell'esserci sulla proiezione temporalizzante (quindi la mente=intenzione=semantica=segno=estasi temporale, come suggerisce anche il Prof. Biuso. Tuttavia Heidegger critica pesantemente il concetto di Tempo Aristotelico basato sul "nun" ovvero sull'istante-ora, e riporta il concetto di Tempo hegeliano ma soprattutto husserliano a quello Aristotelico.

    In sostanza il Tempo cosa è per questa tradizione ? un ora sempre rinnovato, pulsante e vivo, che lascia una scia fluente di ora morti: il tempo è passare e consunzione di vita.

    Questa idea del Tempo cronos come divoratore e morte è secondo Heidegger connessa all'idea di un eterno come "nun" infinito fuori dal tempo. Per Heidegger queste due concezioni riportano ad una ontologia sella sostanza che secondo lui è dominata dalla dialettica presenza/assenza ma che non è originaria. E non è originaria perché nel momento della "decisione" autentica noi non sperimentiamo il Tempo come "ora" pulsante e vivo che ha dietro di se una scia di ora morti e idealizzati, trapasati e superati.

    Le categorie heideggeriane della Cura, del Carico, della Desinazione, del Destino, poi sono comprensibili solo come categorie in cui si vive un tempo che non è fluente (un tempo non Newtoniano-Kantiano-Husserliano). Questo tempo intenzionale è attratto dal futuro e non dal passato.

    Da qui anche l'idea di morte che per Heidegger non è un fatto accaduto del passato ma l'orizzonte anticipato nel futuro, quindila mortalità è l'orizzonte intenzionale anti soggettivista e antiidealista in cui l'esserci aggetta sull'essere.

    Questa preminenza della dimensione del Futuro come dimensione capitale e fondamentale del Tempo l'avevo ritrovata in Benjamin precedentemente.

    Naturalmente visto la mole di questioni che qui si solevano non posso essere stato esaustivo e molto chiaro.

    Quello che volevo sototlineare è però: sì è vero che Heidegger parla del Tempo, ma di quale Tempo ? Cioè la questione teoretica per Heidegger era sottrarre il tempo alla preminenza del presente e del passato sul futuro. Preminenza che lui vedeva gestire inconsapevolmente i conti col tempo nell'idealismo hegeliano e nella fenomenologia Husserliana. In Husserl atteraveso le ritenzioni degli ora passati è evidente la fondazione intenzionale e semantica, direi la fondazione persino semiotica, del segno, sulla traccia dell'ora passato fluito.

    In merito al famoso finale di Faust. Se ci confrontiamo con quel passo attraverso le categorie Heideggeriane, ci rendiamo conto che non appena Faust dice "fermati, attimo sei bello"….NON sta vivendo l'istante presente, in cui invece Mefistofele gli sta preparando letteralmente la tomba, la scavano i suoi servi, e il Faust è lui stesso accecato……FAust sta vivendo l'attimo della proiezione nel futuro, immaginando le opere che ha iniziato rendere fertile la regione e rendere felice il suo popolo….l'attimo felice ed eterno è l'attimo mortale dela proiezione nel futuro….

    In questo sento, nella critica al tempo ideale come flusso di morti presenti ridotti a segni, Heidegger si avvicina in modo originale alla critica di Bergson al tempo spazializzato.

  7. Rileggendo ancora la recensione, vorrei condividere con voi qualche altra riflessione in merito al finale del Faust.

    Posso seguire Cateno quando parla di sconfinamento territoriale a riguardo dell'attimo felice faustiano, in fondo la tomba che Mefistofele scava in terra per Faust, il nostro negromante la crede opera di bonifica e di estensione territoriale….quindi sempre di terra si tratta….tuttavia il "suolo" immaginato dal Faust cieco non è la "terra" del presente, ma la "terra" kiinftig, del futuro…Non che nel futuro Faust sia meno morto che nel presente, perché in tutti e due i casi il rapporto con la terra è mortale, nel presente del segno tomba, nel futuro del non più esserci. Tuttavia, è questo il punto secondo me, la mortalità del non esserci più nel futuro è ancora tutta dentro il tempo e dal tempo non fuoriesce. Non c'è estasi fuori dal tempo.

    Cito ora Heidegger a proposito di questo "suolo" di cui la storia, e quindi il tempo, si appropria:

    ”I popoli non entrano nella storia come se la storia fosse

    uno spazio già predisposto per fornire loro un rifugio, una

    strada già presente, che dovrebbero limitarsi a percorrere;

    invece “fare storia” significa creare lo spazio ed il suolo.

    (Ugo Ugazio, Logica e Linguaggio (2008) per le edizioni Christian Marinotti, pp.121)”.

  8. Caro Gianino,

    sì, nel libro ho cercato di affrontare la complessità della questione temporale in Heidegger. E l'ho fatto anche alla luce dei risultati ai quali pervengono Bergson e Husserl.

    Bergson sostenne con tenacia l’ipotesi che il tempo fisico fosse del tutto derivato rispetto alla vera natura della temporalità poiché esso sarebbe costituito dall’estensione agli enti naturali e allo spazio della nostra esperienza interiore della

    durata. Il flusso husserliano della coscienza consiste in gran parte, e ancora una volta, nella trasformazione dell’attesa in sensazione e della sensazione in ricordo. Per Heidegger il tempo è l’orizzonte della comprensione dell’essere e per Wittgenstein il mondo non è l’insieme degli enti ma la totalità di ciò che accade nello spazio logico.

    Il tempo è insieme una forma della mente e un dato del mondo. Rinunciare a una delle (almeno) due dimensioni non è affatto necessario e anzi significherebbe impoverire la struttura infinitamente ricca del tempo/temporalità.

    Per quanto riguarda Goethe, condivido interamente la sua efficace sintesi sulla mortalità che sta tutta dentro il tempo. Alla fine, Faust sarà visitato, vinto, accompagnato verso la morte dalla forza che accieca gli umani lungo tutta la loro esistenza: die Sorge, la quale produce nella mente un’insoddisfazione perenne, un inquieto abitare le tenebre dell’indecisione, della preoccupazione, del futuro sempre desiderato e -quando arriva- sempre rimosso. L’irrefrenabile agitazione che la Cura produce è il vero -ma inevitabile!- inferno degli esseri umani, è ciò che li fa oscillare tra la noia e il dolore, è l’inquietudine senza riposo del vivere. Ecco perché Faust muore e non può che morire nel momento in cui la Cura sembra cessare e pare invece compiersi ciò che lo stesso Faust aveva ritenuto impossibile: il dire all’attimo «Verweile doch! du bist so schön!».

    Mi devo fermare qui e rinviarla, se vuole, alle pagine del libro. Risulta comunque chiara la coestensività della materia (compresa quella corporea) e del tempo

    .

  9. Gentile Prof. Biuso,

    cercherò di procurarmi il suo libro e lo leggerò con molto interesse.

    Resta che almeno nell'intenzione la proposta Heideggeriana, in merito al rilievo filosofico del tempo, sia molto più radicale di quella Bergsoniana e Husserliana.

    Per Bergson c'è una temporalità delle cose spaziali, al di là di quell'interiore, a quel che immagino, e per Husserl, per quello che ne conosco, il tempo mondano-cosmico è addirittura un oggettualità costituita che in quanto obiettiva determina nel suo senso di verità il filo imprescindibile dell'analisi trascendentale, pur in regime di epoché. Ovvero in Husserl l'intreccio intenzionale di ricordi primari, sensazioni e protenzioni va comunque messo al servizio della ricostruzione trascendentale di un tempo oggettivo.

    In Heidegger pare invece che spostare sul piano della temporalità le questioni ontologiche significhi smantellare ogni possibile regione ontologica e quindi, per esempio, il pensiero radicale non potrebbe neanche pensare all'uomo come qualcosa che sta in un corpo, senza con ciò smarrire il vero e autentico essere dell'ente uomo.

    Condividendo per parte mia la necessità di preservare l'attenzione sia al tempo-mente sia al tempo-dato mondano, penso che tuttavia Heidegger non avrebbe comunque accettato di inserire la tematica "tempo" all'interno della discussione di oggetti come la "mente" o l' "dato naturale-oggettivo". A lui la tematica "tempo" serviva a scardinare l'ontologia, o a distruggerla. Perciò quando può critica sempre la trattazione Aristotelica del tempo, che si ferma al "nun" e quindi presuppone la forma "oggetto" nella sua matrice temporale inautentica o derivata.

    Anche su questo si misurano le ricadute "irrazionali" della direzione di pensiero heideggeriana.

    Caro Prof. la ringrazio della sua risposta, a presto !

  10. Da ieri ho tra le mani il libro e lo sto leggendo.

    Al punto in cui sono arrivato la prospettiva che più mi interessa e che vedo riproporre costantemente a più riprese nel testo e nel confronto con le varie posizioni passate in rassegna, mi sembra collegarsi ad una irriducibile ed inesauribile dimensione semantica, opaca alle ricostruzioni funzionaliste, sintattiche, computazionali.

    Ovvero una dimensione del senso che sfugge alla possibilità del calcolo, ma non alla esperienza fenomenologica, all'interrogzione filosofica, all'uso "festivo" del linguaggio e dunque alla comunicazione interpersonale, storica, sociale e culturale, letteraria.

    Del libro mi piace soprattutto al capacità di recuperare e integrare posizioni estremamente lontane dal pensiero empirico e razionalistico, come l'Heidegger della "casa dell'essere", senza forzarle.

    Allora mi chiedo, continuando nella lettura, che cosa dà la caratteristica inesauribilità sfuggente ai "mille riferimenti" che rendono semantica e significante la struttura mentale della nostra vita ?

    Semantica e significante, quindi non solo soggettivamente impenetrabile e privata, certo individuale ma non per questo ineffabile e irreperibile.

  11. Sono arrivato alla fine della seconda parte del saggio che da se stesso ha risposto alla mia domanda sulla radice simbolico-significante della nostra individualità su cui la prima parte si era interrogata: è il Corpo dinamicamente e attivamente relazionato, immerso, attraversato e riannodato nell'universo materiale naturale. Come la recensione di Cateno già indicava e a cui debbo l'interesse per questo avvincente testo che riporta la filosofia alle sue domande essenziali pur esplorando un settore "speciale".

    Neurobiologi, antropologi, connessionisti, cibernetici, epistemologi, clinici, informatici, passati in rassegna nelle loro teorie chiarite essenzialmente e spianate, nella prima parte mi avevano ricordato il relazionalismo e la fenomenologia di Enzo Paci, mentre in questa seconda parte mi hanno riportato a Nietzsche a Schopenahuer, a Spinoza, infine ai Greci.

    Alla rarefazione e trasparenza del Senso, delle forme della rappresentazione e della razionalità, si precipita nell’enigma ambiguo della finitezza dell’esserci corporeo e della sua Stimmung che come si apre intenzionalmente all’altro nell’entusiasmo dell’amore allo stesso modo soffoca, si contrae e si spegne nello stato di sofferenza.

    Questa corporeità è veramente il "muro della finitezza" che inquieta il pensiero, non perché lo produca ma in quanto lo sbarra e infine lo riassorbe.

    Ma può l’uomo approdare ad un essere che non è la rappresentazione del proprio corpo e che dunque non è sostanziato soltanto dalla seta della tela-bozzolo che il ragno corporeo fila e tesse ?

    L’interpretazione transumana e gnostica della trascendenza come liberazione-purificazione dal corpo, e quindi vergogna del corpo, non è praticabile dato che su di essa alla fine pende l’accusa nicciano-spinoziana del risentimento reattivo.

    Ma può il Corpo da solo, anche inteso come modo relazionale e non come capsula-incolucro-tomba,non solo produrre ma sorreggere per intero l’orizzonte intenzionale ? Il futuro è solo una proiezione virtuale della mia vita che scompare con me ? Cioè quel Senso che attraverso il Corpo intendo è pura parvenza destinata alla scomparsa ?

    Questa domanda non è identica a quella sulla mortalità nè vuole negarla. Se intendo la mortalità, il limite e la finitezza, come coscienza di ciò che va oltre me, di ciò che io non sono eppure intenziono.

    A questo punto devo leggermi anche la terza parte, quella sul Tempo.

  12. cari amici di catania, è da qualche settimana che leggo questo magnifico sito; su questo sicuramente bel libro avrei una domanda un pò banale: può leggerlo anche uno come me, che non ha una grandissima cultura (ho fatto solo il liceo classico oltre 30anni fa)?

    potreste fare una sezione, non dico per ignoranti, che è una parola senza senso, ma diciamo per persone che non hanno grandi approfondimenti oltre le riminiscenze liceali?

  13. Caro Diego,

    una sezione così c'è e non c'è: lo sono tutte e nessuna. Lo scopo del sito è proprio la divulgazione e la discussione filosofica. Discussione e divulgazione che coinvolgono tutti gli interessati. Tu, rientrando in uno di questi, sicuramente potrai trovarti benissimo in ognuna delle nostre 'sezioni'. Ti ringraziamo per i complimenti e proprio per la tua attenzione.

    Per quanto riguarda il libro: avendolo letto, io ritengo che adotti un linguaggio comprensibile e, in questo senso, divulgativo per un pubblico piuttosto ampio. Pur trattando e discutendo di questioni delicate e importanti della filosofia, come il tempo, il corpo, la mente.

    Buona lettura, quindi, e grazie. A presto,

    Davide

  14. molte grazie davide, allora il libro lo metto nella mia agenda "libri da comprare", e, naturalmente continuerò, tempo permettendo, a consultare le vostre belle pagine

  15. volevo scrivervi, cari amici, che l'ho comprato e lo sto leggendo; in qualche passaggio è arduo per me, ma riesco abbastanza bene a seguirlo; senza dubbio il prof. biuso cerca una soluzione ad un problema molto difficile, ma il tema è interessante, siamo direi quasi nel nocciolo stesso del problema d'esser uomini, anzi direi del nostro essere

    bella la nuova grafica del sito, un saluto a questo giovane e robusto cenacolo di pensatori

  16. così da lettore non professionista, un'impressione. Sto leggendo il libro in filobus, al mattino, immerso nel flusso della gente che va alle proprie faccende e tribolazioni. Ma è giusto leggerlo "nel mezzo" della vita che scorre, perchè è un libro molto "vivo". Nonostante sia un testo rigoroso, probabilmente anche adatto ad una lettura di studio per i precisi rimandi, dalle pagine tracima spesso, una sorta di "entusiasmo" verso il proprio pensiero, si percepisce come l'autore sia davvero coinvolto in quel che scrive, a tratti la freschezza della metafora coinvolge coinvolge e ispira amicizia al lettore; del resto in una concezione allargata della mente, o meglio del corpomente, il libro stesso è "parte" dell'autore, non è un prodotto staccato e inanimato; spero d'essermi spiegato, continuo la mia lettura, magari prendo delle cantonate, ma non importa, in filosofia conta più sbagliare bene che non sbagliare e non pensare

    leggendo il libro, sto apprezzando anche l'ottima recensione che ho letto qui

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