La forma e la funzione. Un contributo alla storia della morfologia animale

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Prefazione
Questo libro non intende essere una completa o dettagliata storia della morfologia animale: né le scoperte in ambito morfologico né le teorie morfologiche potrebbero restituirne un quadro completo. Il mio scopo è stato piuttosto quello di richiamare l’attenzione sui diversi modi di accostarsi al problema della forma e di seguire le reciproche influenze delle teorie che da essi sono sorte.
Le correnti principali del pensiero morfologico sono secondo me tre: la funzionale o sintetica, la formale o trascendentale e la materialistica o disintegrativa.
La prima, associata ai grandi nomi di Aristotele, Cuvier e von Baer, tende facilmente al più esplicito vitalismo di Lamarck e Samuel Butler. Il rappresentante tipico della seconda è E. Geoffroy St. Hilaire, il cui modo di pensare ha largamente influenzato lo sviluppo della morfologia evoluzionistica. Il principale campo di battaglia di queste due tendenze opposte è il problema della relazione tra la funzione e la forma. La funzione è il risultato meccanico della forma, o è la forma a essere la mera manifestazione della funzione o attività? Qual è l’essenza della vita – l’organizzazione o l’attività? La corrente materialistica non è prettamente biologica, ma è in pratica comune a tutti i campi della conoscenza. Risale agli atomisti greci e il trionfo della scienza meccanicista nel XIX secolo ha convinto molti ad accettare il materialismo come l’unico possibile metodo scientifico. In biologia è più affine all’approccio formale che non a quello funzionale.
Nel corso di questo libro non ho nascosto la mia preferenza per l’approccio funzionale. Ritengo probabile che si guadagnerà più consapevolezza della reale natura della vita e dell’organizzazione concentrandosi sull’attiva risposta degli animali – come manifestato tanto dal comportamento quanto dalla morfogenesi, in particolare negli stadi post-embrionali – che non ponendo attenzione esclusivamente sull’aspetto storico della struttura, come è uso della “morfologia pura”. Credo faremo progressi in questo senso solo se davvero adotteremo una concezione semplice e quotidiana delle cose viventi – che in tanti abbiamo applicato fuori di noi – in quanto attive, agenti dotati di scopo, non meramente aggregazioni complesse di proteine e altre sostanze. Sebbene un atteggiamento, da un punto di vista filosofico, possa suonare esattamente al pari di quello ad esso opposto, non ho qui tentato alcuna sua giustificazione: ho toccato alquanto di sfuggita la controversia tra vitalismo e materialismo che è risorta nei primi anni di questo secolo; essa ancora difficilmente si presta a un’analisi storica e difficilmente posso sperare di mantenere nei suoi confronti quello sguardo oggettivo che dovrebbe caratterizzare lo storico.
L’obiettivo principale che spero di aver raggiunto con questo libro è la dimostrazione, solamente tentata e incompleta com’è, dell’essenziale continuità della morfologia animale dai tempi di Aristotele fino ai nostri. Purtroppo è vero che la biologia moderna, forse quale conseguenza dei grandi progressi fatti in certe direzioni, ha nella gran parte dei casi perso la propria coscienza storica, e se questo libro sarà d’aiuto nel contrastare in un qualche modo tale tendenza, che finora ha interessato la morfologia animale, avrà allora raggiunto il suo scopo. […]1.

Capitolo XIII. La relazione di Lamarck e Darwin con la morfologia
È importante rilevare che la morfologia ha contribuito se non in minima parte alla formazione della teoria evolutiva. Quando vengono in mente quali efficaci argomentazioni possono essere costruite intorno a concetti come l’unità del disegno e della composizione [del mondo vivente] e la legge del parallelismo, si resta stupefatti di fronte al fatto che non furono per nulla dei morfologi a scoprire la teoria dell’evoluzione.
È vero che l’evidente rassomiglianza di un animale con l’altro, la possibilità di ordinarli in un sistema, la vaga intuizione di una disegno strutturale valido sotto ogni aspetto, hanno suggerito a molti l’idea che le affinità sistematiche potrebbero essere dovute a relazioni di sangue. Difatti Leibniz aveva pensato che la razza felina potesse essere discesa da un comune antenato, e un altro grande filosofo, Immanuel Kant, aveva percepito l’unità di tipo suggerendogli l’origine dell’intero regno organico da una forma affine, o addirittura in ultimo dalla materia inorganica. Nella sua magistrale trattazione del meccanicismo e del teleologismo, scrive:

L’accordo di tante specie animali in un certo schema comune, che sembra aver presieduto non soltanto alla struttura del loro scheletro, ma anche alla disposizione delle altre parti, e in cui una meravigliosa semplicità di disegno, col raccorciamento di una parte e l’allungamento di un’altra, con l’inviluppare questa e sviluppare quella, ha potuto produrre una varietà così grande di specie, lascia cader nell’anima un raggio, sia pur debole, di speranza, di poter conseguire qualche cosa col principio del meccanismo della natura, senza del quale una scienza della natura non è possibile. Questa analogia delle forme, che con tutta la loro diversità sembrano esser state prodotte conformemente ad un tipo comune, fortifica l’ipotesi di una loro reale parentela nella genesi da una madre comune, col mostrarci l’avvicinamento graduale di una specie ad un’altra, da quella in cui il principio dei fini sembra attuato al massimo grado cioè l’uomo, fino al polipo, e da questo ai muschi e alle alghe, e finalmente al più basso grado che possiamo conoscede della natura, la materia bruta2.

[…]. In generale, lasciando da parte per il momento la teoria di Lamarck, possiamo dire che le teorie evolutive dei secoli XVIII e XIX sorsero in connessione con la nozione trascendentale di Échelle des êtres, o gradi di perfezione. […].
Si capisce quanto facilmente la nozione di evoluzione possa venire in menti pregne dell’idea di una progressione ideale dell’intero regno organico verso il suo apice e microcosmo – l’uomo. La loro teoria della ricapitolazione le porta a concepire l’evoluzione come la storia dello sviluppo di un unico grande organismo. Molte di esse oscillarono tra la concezione di evoluzione come processo, simile a un Vorstellungsart, e la concezione di essa come processo storico. Bonnet, Oken e la maggior parte dei trascendentalisti sembra abbiano optato per l’antica alternativa; Robinet, Treviranus, Tiedemann, Meckel e alcuni altri ritennero l’evoluzione essere un reale processo. […].
Non è cosa facile dare conto in breve della filosofia biologica di Lamarck. Egli è uno scrittore oscuro, e spesso contraddittorio. Nella prima parte della Philosophie zoologique, Lamarck si è largamente occupato del problema se le specie siano realmente distinte, oppure se impercettibilmente varino l’una dall’altra. Quale sistematico di grande esperienza, Lamarck sapeva quanto difficile fosse in pratica distinguere le specie dalle varietà. […]. Per Lamarck, come poi per Darwin, il primo problema fu non l’evoluzione e la differenziazione di tipologie di struttura, ma il modo di originarsi delle specie. Lamarck si sforza di mostrare quanto arbitrarie siano le nostre determinazioni delle specie e quanto artificiali i gruppi classificatori che distinguiamo in natura. In senso stretto, in natura ci sono solamente individui, «… questo è certo, che tra i suoi prodotti la Natura non ha formato in realtà né classi, né ordini, né famiglie, né generi, né specie costanti, ma soltanto individui che succedono l’uno all’altro, e si assomigliano tra loro quelli che ne generano di altri. Ora, questi individui appartengono alle razze infinitamente diversificate, che sfumano l’una nell’altra sotto tutte le forme e in tutti i gradi dell’organizzazione, e ognuna si mantiene immutata finché non agisce su di essa una qualche causa di alterazione»3. Eppure c’è un ordine naturale nel regno animale, una progressione dalle organizzazioni più semplici alle più complesse, una naturale Échelle des êtres. […] L’Échelle di Lamarck non è in alcun modo morfologica, né fu pensata in quanto tale: è una scala di differenziazione fisiologica crescente, i cui stadi sono segnati dall’acquisizione di questo o quel nuovo organo […]. Per Lamarck tale ordine della Natura non era meramente ideale […]. Egli è un convinto materialista. Ogni fatto e fenomeno è essenzialmente fisico e deve la sua esistenza o produzione interamente a corpi materiali o a relazioni tra loro. […] La vita, il pensiero e la sensibilità4 non sono proprietà della materia, ma risultano da particolari combinazioni materiali. […].
La cosa strana è che, a dispetto del suo dichiarato materialismo, la concezione della vita e dell’evoluzione è in Lamarck profondamente psicologica, e dal conflitto tra il suo materialismo e il suo vitalismo, del quale egli era pienamente cosciente, sorse la gran parte delle oscurità e irriducibili contraddizioni della sua teoria. Lamarck divise (secondo un criterio psicologico!) gli animali in tre grandi gruppi: animali apatici o insensibili, animali dotati di sensibilità e animali intelligenti. [Quelli] del primo gruppo, che comprende tutti gli invertebrati inferiori, si distinguono dagli altri animali per il fatto che le loro azioni sono direttamente e meccanicamente dovute agli stimoli dell’ambiente; non hanno alcun principio di reazione agli influssi esterni, ma prolungano passivamente in azione l’eccitazione ricevuta dall’esterno. Essi sono meramente irritabili. [Quelli] del secondo gruppo si distinguono dai primi per il loro possesso, in aggiunta all’irritabilità, di una facoltà che Lamarck chiama sentiment intérieur. Egli ha alcune difficoltà a spiegare esattamente cosa intenda con esso […]. È la facoltà che chiamiamo “istinto” negli animali e non implica coscienza né volontà. Agisce trasformando in interna l’eccitazione esterna. […]. Gli animali superiori, o della quarta classe di Vertebrati, formano il gruppo degli «animali intelligenti». In virtù della loro organizzazione relativamente più complessa possiedono in aggiunta al sentiment intérieur le facoltà dell’intelligenza e della volontà.
Ora, in via generale, la teoria dell’evoluzione di Lamarck afferma che nuovi organi si siano formati come diretta reazione ai bisogni (besoins) provati dal sentiment intérieur. Il sentiment intérieur è perciò la causa non solo dell’azione istintiva ma anche di tutti i processi morfogenetici. Volontà e intelligenza (che sono limitati a un numero relativamente ristretto di animali) hanno propriamente poco o niente che fare con l’evoluzione. […].
È interessante notare che Lamarck si rifà espressamente a Bonnet, ma si rifiuta di accettare la sua concezione di una Échelle che si estenda fino all’inorganico. Come Bonnet, però, e come i trascendentalisti tedeschi, Lamarck fa dell’uomo lo scopo dell’evoluzione. Mette in chiaro che la sua Échelle è funzionale, per cui egli collega i Vertebrati ai molluschi mentre addirittura ammette espressamente che non sono collegati da alcun intermediario strutturale. Non cade nell’errore dei trascendentalisti e assume che i Vertebrati e gli Invertebrati allo stesso modo si siano formati a partire da un comune disegno strutturale.
La progressione dell’organizzazione mostrata dal regno animale non è stata del tutto regolare e ininterrotta: «La progressione in complessità dell’organizzazione mostra qui e lì, nelle serie animali in generale, anomalie indotte dall’influenza dell’ambiente e dall’influenza delle abitudini contratte». […]. Va notato che il cambiamento nell’ambiente è piuttosto l’occasione che non la causa della trasformazione; l’ambiente induce l’organismo a cambiare il proprio abituale modo di vivere e innesta nuovi bisogni, per soddisfare i quali l’organismo deve modificare la propria struttura. È l’organismo che prende parte attiva in tutto questo – l’azione dell’ambiente è indiretta. […].
«La funzione crea l’organo», questo pare essere il cuore della dottrina di Lamarck. Ma come concilia tale concezione essenzialmente vitalistica con la sua filosofia strettamente materialistica? […]. Non si può essere decisi materialisti e al tempo stesso credere che nuovi organi si siano formati per diretta conseguenza delle necessità avvertite dall’organismo. Lamarck non poté mai risolvere tale contraddizione, e le sue speculazioni precipitarono perciò nella confusione: a ciò si deve la frequente oscurità dei suoi scritti. […].
Non si dimentichi la profondità della sua idea fondamentale, o sia che, eccezion fatta per le forme inferiori, l’animale è essenzialmente attivo, reagisce sempre al mondo esterno e mai lo subisce passivamente. Né si dimentichi che egli puntualizzò il ruolo essenzialmente psicologico giocato in tutti i processi dell’adattamento dell’individuo. Con vista acuta egli ha compreso che l’intelligenza cosciente conta poco nell’evoluzione e concentrò l’attenzione sui processi inconsci ma misteriosamente fisici dell’istinto e della morfogenesi.
Non senza ragione le successive scuole del pensiero evoluzionistico, che svilupparono il lato psicologico e vitalistico delle sue dottrine, si chiamarono “neo-lamarckiane”. Diremo quindi che Lamarck, a dispetto del proprio materialismo, fu il fondatore della teoria “psicologica” dell’evoluzione. […].
Non venne in seguito presa sul serio nessuna teoria dell’evoluzione fino al 1859, quando venne pubblicata L’origine delle specie. Come Lamarck, Charles Darwin non fu, né per inclinazione né per formazione, un morfologo. Durante la giovinezza fu un collezionista, uno sportivo e un geologo. Il suo viaggio sul Beagle intorno al mondo provocò in lui il vivo interesse per il problema delle specie – la loro varietà, la loro variazione in base al luogo e al tempo, la loro adattatività all’ambiente. […] Non fu soddisfatto dalle teorie dell’evoluzione proposte dal nonno, da Lamarck e da E. Geoffroy St. Hilaire – invero non le capì granché. Si risolse a lavorare al problema a modo suo, per sua soddisfazione. Ci racconta tutto molto chiaramente nella sua autobiografia. […]. Tutte le successive opere di Darwin girarono intorno a questi problemi per lui essenziali: come cambiano le specie? come diventano adatte all’ambiente? Mai cessò di essere un puro naturalista, e la sua teoria della selezione naturale sarebbe stata qualcosa di vuoto e astratto se la sua vasta conoscenza e comprensione della “rete della vita” non le avesse dato colore e forma. Mai perse il contatto con ogni cosa vivente nel suo vivere e respirare la realtà – persino le piante trattò come cose viventi, piene di trucchi e congegni per tessere il loro modo di stare al mondo. Nessuno ha mai còlto più vividamente di lui la delicatezza e la complessità degli adattamenti all’ambiente, condizione necessaria del successo nella lotta per l’esistenza. Forse il più grande servizio reso alla biologia fu che ai biologi fece comprendere, come mai era stato fatto prima, la grande importanza dell’ambiente. Egli portò la biologia all’aria aperta, lontano dal museo e dalle aule di dissezione.
Naturalmente di tale atteggiamento non mancarono gli inconvenienti. Lo condusse a nutrire un tiepido interesse per i problemi della morfologia. Risulta vero che usò i dati della morfologia con grande effetto come potenti argomentazioni per l’evoluzione, ma non fu da quei dati che egli dedusse la sua teoria per dar conto dell’evoluzione. È da chiedersi invero se la teoria della selezione naturale sia davvero applicabile ai problemi della forma. Fu inventata per dar conto dell’evoluzione di specifiche differenze e di adattamenti ecologici, non fu pensata principalmente come una spiegazione dei ben più meravigliosi e misteriosi concetti della convenance des parties e dell’interazione di struttura e funzione. Forse Darwin non colse l’intimo aspetto dell’adattamento così vivamente come colse il più superficiale adattamento degli organismi al loro ambiente. Furono, probabilmente, le sue lacune nella formazione morfologica e l’esperienza a condurlo a disinteressarsi dei problemi della forma, o quantomeno a cogliere in modo davvero insufficiente la loro complessità.
In ogni caso è molto significativo che solo una piccola parte del suo Origin of Species sia dedicata alla discussione delle questione morfologiche – un solo capitolo sui quattordici contenuti nella prima edizione. […].

La spiegazione è chiara, se seguiamo la teoria della selezione naturale di successive, tenui modificazioni, ogni modificazione essendo in qualche modo vantaggiosa per la forma modificata (e tenendo conto che molto spesso, a causa dei rapporti di sviluppo, la modificazione viene ad influire su altre parti dell’organizzazione). In una serie di mutamenti di questa natura, la tendenza alla modificazione degli schemi originari ed alla trasposizione di parti, sarà scarsissima o assente… Se supponiamo che l’antico progenitore, che potremmo chiamare archetipo, di tutti i mammiferi aveva gli arti strutturati secondo lo schema generale tuttora esistente, qualunque ne fosse lo scopo, possiamo capire immediatamente il significato, ben chiaro, dell’omologia strutturale degli arti esistente in tutta la classe5.

Possiamo notare tre punti importanti di questo brano: il primo, l’identificazione dell’archetipo con il comune progenitore; il secondo, la concezione dell’evoluzione progressiva come essenzialmente adattativa e dominata dalla selezione naturale; e il terzo, la petitio principii coinvolta nell’assunzione che la modificazione adattativa comporti inevitabilmente nel suo corso i necessari cambiamenti correlati. […].
Potremmo riassumere dicendo che Darwin interpretò filogeneticamente la legge di von Baer. […]. Nella sua morfologia Darwin raramente si tenne aggiornato. Non pare abbia mai conosciuto direttamente lo splendido lavoro dei morfologi tedeschi, come Rathke e Reichert; non pone attenzione alla teoria cellulare, né alla teoria dello strato embrionale. Le sue fonti sono, principalmente, Geoffroy St Hilaire, Owen, von Baer, Agassiz, Milne-Edwards, e Huxley. […]. È vero che lo stesso Darwin, come i suoi successori, credette che la selezione naturale desse integralmente conto dell’evoluzione degli organi più complicati, ma ci si potrebbe chiedere se egli abbia considerato tutte le condizioni del problema da lui esposte con facilità. […]. La concezione che Darwin aveva della correlazione era particolarmente incompleta. […] Diede per buono che le «variazioni correlate» si sarebbero adattate alla variazione originale messa in atto dalla selezione naturale e non vide difficoltà nell’evoluzione graduale di un organo complicato come l’occhio se solo i passaggi fossero stati abbastanza piccoli. […]. La concezione di Cuvier della convenance des parties, fondamentale per l’intera biologia, è rimasta completamente fuori dalla mente di Darwin e dei suoi seguaci. Uno dei vanti di costoro fu proprio che avessero finalmente eliminato ogni teleologia dalla natura. Il grande e immediato successo che il darwinismo ebbe tra la generazione più giovane di biologi e tra gli scienziati in generale si dovette in larga parte al fatto di essersi conformato bene al prevalente materialismo dell’epoca e di aver dato una solida base alla speranza che una spiegazione completamente meccanicistica della vita fosse in quegli anni in arrivo.
“Darwinismo” divenne il grido di guerra degli spiriti militanti del tempo. Segnatamente, fu questo l’elemento del darwinismo che ripugnò la più parte dei suoi oppositori, tra le cui schiere si trovava la maggioranza dei morfologi della vecchia scuola. Trovavano impossibile credere che l’evoluzione potesse procedere per variazioni fortuite e selezione fortuita; obiettavano a Darwin di non aver annunciato alcun reale Entwickelungsgesetz, o alcuna legge che governi l’evoluzione. Non erano contrari a credere che l’evoluzione fosse un reale processo, sebbene alcuni si fossero fermati di fronte alla derivazione dell’uomo dalle scimmie, ma essi sentivano che se l’evoluzione ha avuto davvero luogo, deve verificarsi sotto la guida di qualche principio di sviluppo, che nell’evoluzione deve essersi manifestata qualche precisa e costante tendenza verso la perfezione. Nessuno espresse tale obiezione con più forza di von Baer […]. La sua concezione del processo evolutivo è che esso è essenzialmente zielstrebig o guidato da cause finali, che è una vera evolutio o differenziazione, proprio come lo sviluppo individuale è un progresso regolare dal generale al particolare. Credeva in un’evoluzione per salti, in una discendenza6 polifiletica e in una maggiore plasticità dell’organismo nei tempi remoti. […].

Capitolo XX. La tradizione classica nella moderna morfologia
[…] Quel che sarà il futuro corso della morfologia nessuno può dirlo. Ma si può azzardare l’opinione che il secolo presente7 vedrà un ritorno a un più semplice e modesto atteggiamento nei confronti dei grandi e irrisolti problemi della forma animale. Il materialismo dogmatico e le dogmatiche teorie dell’evoluzione tendevano a nasconderci la complessità e il mistero dei fenomeni viventi. Abbiamo bisogno di guardare alle cose viventi con nuovi occhi e con una più genuina sensibilità. Le vedremo allora come entità attive, vive, appassionate come noi, e cercheremo con la nostra morfologia, per quanto sarà possibile, di interpretare la loro forma secondo la loro attività. Questo è ciò che Aristotele tentò di fare, come una serie di grandi intelletti dopo di lui. Faremo bene a trarre da loro quanto più giovamento possibile.

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