Lottare con il tempo: incontro con Joe Schittino

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Cateno Tempio: Per cominciare il nostro dialogo e al contempo inaugurare la nuova sezione di questo sito, vorrei che spendessi qualche parola su una questione di carattere un po’ generale, che, a mio modo di vedere, ha attraversato la storia del pensiero, da Platone fino a tempi più recenti. Vorrei chiederti qualcosa circa i rapporti tra musica e filosofia. Nell’Ottocento si è avuta una grande ondata di riflessioni su questo tema. Basti pensare a Hegel, a Schopenhauer, a Kierkegaard. Un filone che è culminato in Nietzsche. Tuttavia, almeno per quello che ne so, negli ultimi tempi questo confronto non è stato così serrato.

Joe Schittino: Be’, io ti parlo da tecnico e da artigiano della musica. Ho avuto a che fare con la filosofia da studente e quindi la mia risposta sarà assolutamente semplice. Ti posso dire che la musica è una chiave di lettura del pensiero, soprattutto riguardo a quella che è una traccia della ricerca di sempre, ossia il rapporto tra l’uomo e il tempo. Sai bene che chi ha a che fare con la musica lotta contro il tempo e anche con il tempo. Il tempo è la misura delle cose, della vita; chiaramente è anche il contrassegno del nostro essere fatti di carne e quindi soggetti alla decomposizione (eh, un compositore che ha a che fare con la decomposizione è un particolare interessante). Pertanto, ti dico che il lavoro del compositore è come quello di un ‘veggente’, da questo punto di vista; perché io devo lottare contro il tempo e riportarlo a una finitudine, a un controllo (l’uomo ha paura di perdersi, di perdere il controllo, di non avere un ordine; il disordine delude e ha causato il caos contemporaneo). Un musicista lotta con il disordine e crea l’ordine. Quando scrivo un pezzo di musica, devo avere una previsione di come andrà a finire, di come si svilupperà una frase, un periodo musicale; questo lavoro mi permette di attuare una previsione degli avvenimenti che poi io riporto anche nella vita quotidiana. Naturalmente questo si lega un po’ a tutti i pensatori che hanno voluto dare una parola al tempo, come blocco dell’individuo, oppure come momento di continuità o anche di discrimine. Ecco, tutto quello che è musica permette di dare dei confini all’evento temporale e così, se vogliamo, sussiste anche la possibilità di diventare eterni nel minuto, che poi resta fissato.

CT: Quindi hai questa visione della musica come riordinatrice del caos. Però ti pongo una obiezione: con Schönberg abbiamo assistito, secondo me, a un movimento inverso, ossia al crollo della tonalità e a una sorta di esplosione, dove sembra regnare un caos che, anziché riformarle, scombini le forme.

JS: Sempre parlando da tecnico, dico che con Schönberg quasi tutti han detto che è cambiato tutto, che è stato rivoluzionato il modo di fare musica… Io però credo che in realtà non sia cambiato assolutamente niente. Innanzi tutto perché il sistema combinatorio schönberghiano era già presente in nuce, tanto per fare l’esempio più eclatante, in Mozart, dal brano più semplice che è Ein musikalischer Spaß, dove c’è quel finale con cinque tonalità differenti…

CT: O l’inizio del quartetto ‘Le dissonanze’

JS: Sì, certo; e penso anche alla scena dell’apparizione del Commendatore nel Don Giovanni, quella che tutti citano. Ma, se vogliamo, anche Bach non ha esitato a usare la scala dei dodici suoni e, prima di lui, lo hanno fatto tutti i fiamminghi. Insomma, è una cosa che tutti sapevamo. Schönberg l’ha elevata a sistema costruttivo della composizione, ma naturalmente non ha fatto altro che sostituire a un sistema, che era quello tonale, il sistema dodecafonico. È chiaro che questa rivoluzione di fatto non c’è stata.

CT: Quindi vedi il percorso della musica come sostanzialmente lineare, senza fratture.

JS: Assolutamente lineare e assolutamente circolare! Il paradigma di questo ce l’ha dato Stravinskij. È interessantissimo leggere a questo proposito ciò che scrive Adorno di Stravinskij e Schönberg. Lui è del tutto schönberghiano… Gli strali che lancia continuamente contro Stravinskij! Però, paradossalmente, secondo uno stravinskiano quale sono io, la verità ce l’ha data quest’ultimo, perché noi non facciamo altro che vedere noi stessi attraverso il riflesso di quello che siamo nello specchio, e lo specchio, in questo caso, è la contemporaneità vista con gli occhi del passato e il passato visto con gli occhi della contemporaneità. Sono fermamente convinto che noi siamo frutto del passato; viviamo nel presente, certo, ma il nostro passato è un eredità per l’avvenire. Probabilmente quello che manca oggi è questo riconoscersi come anello di una tradizione, dare un valore a quello che si è ricevuto e avere l’umiltà di riconoscere di non essere gli ultimi a poter dire una parola.

CT: Prima accennavi alla musica come riflessione sul tempo e sul nostro essere carne. Sulla scia di questo, aggiungo che nell’antichità, soprattutto da Platone, la musica è stata anche intesa come qualcosa che agisce sul corpo. E, come sai, veniva considerata importantissima nella paideia per la formazione del carattere, in quanto capace di influenzare anche l’anima. Credi che la musica potrebbe rivestire ancora questo ruolo fondamentale nell’educazione, per lo sviluppo del corpo, del carattere e perfino della ‘grazia’?

JS: Fino all’epoca gloriosa e trascorsa della ‘teoria degli affetti’, si era giunti quasi a teorizzare vere e proprie prassi anche compositive a questo riguardo. Per esempio, sappiamo che il modo minore era una sorta di peccato originale che andava redento. Infatti, quella piccola usanza della cosiddetta terza piccarda, per cui parecchie composizioni del Settecento (anche di Bach) che cominciavano in modo minore si concludevano con un accordo maggiore, probabilmente ha a che fare con questo. O anche moltissime sinfonie romantiche che cominciano in minore… Per esempio, la quarta sinfonia di Čajkovskij, che è in fa minore, ma ha un finale in maggiore. È così per quasi tutte le composizioni in modo minore. Poi c’è pure l’accordo principe di tutto il romanticismo, che è la settima diminuita…

CT: Molto utilizzato da Wagner…

JS: Molto utilizzato da Wagner, sì, ma un po’ da tutti perché ha questa simmetria di tre teste sovrapposte, quindi come lo giri giri… È come una palla che rotola e non sai mai dove vada. Questo, è chiaro, non è altro che il riflesso della dispersione e della paura, del pavor dell’uomo romantico. Tuttavia, oggi ti posso dire questo: purtroppo molta musica, da Darmstadt in poi, sembra non tenere in gran conto tutto ciò. Io però non riesco a credere che la seconda scuola di Vienna non sia stata affascinata dalla teoria per cui la musica influenza sia il corpo che l’anima. (Naturalmente dovremmo capire una volta per tutte che siamo sia corpo che anima. Non sono né uno spiritualista, né un ‘carnalista’. Se va avanti l’uno, va avanti l’altra). La misura di quanto dicevo prima ce la dà Berg, anche se è stato sempre un po’ una testa confusa, perché non ha mai saputo se gli convenisse seguire la propria personale tendenza a scrivere come Brahms, oppure seguire Schönberg…

CT: Una sorta di romantico dodecafonico…

JS: Sì! E poi dobbiamo ricordare che ci sono grandissimi compositori la cui vita è stata stroncata sul nascere…

CT: Per esempio Hans Rott.

JS: Sì, proprio Hans Rott è il mio compositore di riferimento. Ma penso anche a tutta la generazione di quei compositori nati intorno al 1890 e che furono sterminati nei campi di concentramento: hanno percorso una via completamente nuova. Penso pure ad Alois Hába, che negli anni Venti aveva teorizzato i quarti di tono. Oppure Erwin Scholhoff e Viktor Ullmann, che hanno scritto delle cose anche nei campi di sterminio. C’è un’opera lirica di Ullmann che varrebbe assolutamente la pena conoscere: Der König von Atlantis, che è una sorta di parodia del regime hitleriano. Ovviamente è un’opera scritta per i mezzi che offriva la casa: banjo, chitarra… È una cosa veramente interessante! Erano tutti compositori originari della mitteleuropa e hanno preso una via del tutto originale. Non abbiamo idea di come si sarebbe evoluta la musica, se non fossero venuti a mancare così presto. Probabilmente non ci sarebbe stata Darmstadt… Comunque, quello che volevo dire è questo: dal serialismo integrale fino a Grisey…

CT: Ah, Grisey, la musica spettrale…

JS: Esattamente. E hai fatto bene a chiamarla ‘spettrale’, perché loro si arrabbiano da morire… Loro si definiscono ‘spettralisti’, ma, dato che io sono assolutamente contrario a questa estetica, è chiaro che mi piace che tu li hai chiamati ‘spettrali’. Dunque, dicevo che dal serialismo integrale fino ai tempi più recenti, la figura del compositore è diventata simile a quella di un matematico, però considerato secondo una visione stereotipata. (Io ho avuto a che fare con matematici che sono degli umanisti eccezionali! Perché purtroppo molte volte un artista, o anche qualcuno in generale, nel tentativo di nobilitare quello che fa, erge pregiudizi; questo credo sia dovuto soprattutto alla mancanza di umiltà. È chiaro che se mi gonfio il petto e voglio sentirmi importante comincio a mettere confini e cose del genere.) Comunque, al giorno d’oggi siamo in una condizione per cui la musica non favorisce lo sviluppo di un determinato sentimento, bensì lo accompagna; essa non deve essere altro che una cassa di risonanza dei nostri sentimenti. Se io divento più buono, oppure divento frenetico, oppure mi vengono pensieri di ogni tipo ascoltando un brano, non è perché quel brano me li ha insegnati, ma perché ha suscitato delle cose già presenti in me. In questo senso, anche lo studio di uno strumento musicale o della musica a qualunque livello non è un’invenzione, ma è qualcosa che c’è già dentro di te. Mi scuserai se questo mio modo di esprimermi è alquanto rozzo.

CT: Per restare nell’ambito dei sentimenti, faccio riferimento a prima, quando abbiamo accennato al romanticismo, che è stato uno dei momenti topici, e forse anche l’ultimo, in cui la cultura e la politica andavano di pari passo. Abbiamo anche brevemente accennato all’influenza che, secondo Platone, esercita la musica su anima e corpo. Nella Repubblica, a questo proposito, è citato un detto di Damone, maestro di Pericle, secondo il quale non si possono cambiare i modi musicali senza cambiare le leggi dello Stato. Questo stretto intreccio tra musica e politica lo abbiamo intravisto nella seconda metà del Novecento, quando alcuni musicisti sono addirittura andati nelle fabbriche a proporre le loro composizioni. Mi riferisco soprattutto a Luigi Nono. Questi musicisti incarnavano una figura tipica di quel periodo, ossia l’intellettuale impegnato. Pensi che si possa ancora dare un impegno del genere, nella fattispecie un musicista engagé?

JS: Questa è una domanda assolutamente assassina! Perché è chiaro che, in un Paese così politicamente ‘spegnato’ come l’Italia, non è data questa figura. Non in questo momento, non in questo Paese. Perché, vedi, un altro dei pregiudizi che ha compromesso e ammazzato la condizione non solo musicale e artistica, ma in generale del nostro Paese, è questa convinzione che con la cultura non si mangia. La cultura fa parte integrante della politica. Un esempio eclatante di ciò che dico lo abbiamo avuto nel nostro amato Ottocento: Luigi II di Baviera, che massacrò le finanze di uno Stato per costruire un teatro d’opera che però ora è un monumento mondiale della cultura. Quindi è naturale che qualunque artista, che sia scrittore o musicista, non può e non deve ritrovarsi in una situazione come quella che abbiamo sotto gli occhi in questo triste momento della nostra storia.

2 responses to “Lottare con il tempo: incontro con Joe Schittino

  1. Interessante articolo. Ho scoperto un paio di cose leggendolo. Quali sono le opere piu’ significative di Joe Schittino?!!Grazie, Bianca

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