Le colpe immaginarie degli studi umanistici

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Le tristi notizie di atenei sul lastrico, di corsi di laurea da chiudere, di tagli alla ricerca sono ormai note al mondo accademico italiano. Purtroppo, però, quella che molti italiani credono essere una situazione tutta nostrana è invece un problema di ben più vasta portata. Il clima europeo non è ancora quello apocalittico che si respira in Italia e che porta molti studenti a farsi domande angosciose come “partirà mai questo TFA?”, “riuscirò a laurearmi o chiudono prima il corso di laurea?”, “il dottorato lo accetto anche senza borsa?”. Ciò nonostante non può non preoccupare questo “spettro che si aggira per l’Europa”, questa situazione generale di crisi culturale che si ripercuote di paese in paese e di facoltà in facoltà.

Carlo Dionisotti

In Inghilterra, dove è ancora calda la memoria delle proteste degli studenti dell’autunno 2010 contro l’aumento delle tasse d’iscrizione, sembra che le università abbiano deciso di seguire l’infelice trend europeo dei tagli all’istruzione. È di questi giorni la protesta degli studenti di italiano della Royal Holloway, uno dei college che costituiscono la University of London. Nota soprattutto nei ranking mondiali delle migliori università per i dipartimenti di Management e di Information Security, la Royal Holloway ha una School of Modern Languages, Literatures and Cultures di tutto rispetto, che offre un alto standard nella qualità della ricerca, considerata “world leading” and “internationally excellent”. Non ultimo motivo d’orgoglio per la School, alla Royal Holloway (che all’epoca si chiamava Bedford College) insegnò per quasi tutta la sua carriera il celebre storico della letteratura italiana Carlo Dionisotti.
I tagli che riguardano la sezione di italianistica della School prevedono in particolare la riduzione del corpo docente e l’impossibilità per i futuri studenti di scegliere l’italiano come Single Language, cioè come unica lingua del loro percorso di studi (in poche parole dovranno obbligatoriamente affiancarla a francese, spagnolo o tedesco).
Gli studenti, che – attenzione – non hanno un passato “battagliero” come quello dei loro colleghi italiani, non essendo mai stati abituati a scioperi e cortei ai tempi del liceo, si ribellano a un’università che non mantiene le promesse fatte: la qualità e il prestigio di una laurea alla Royal Holloway, garantita al momento di pagare le tasse (estremamente salate: dall’anno prossimo quasi 11.000 euro l’anno per gli undergraduates e circa 5.000 euro per i postgraduates, cifre che aumentano a seconda del corso che si sceglie), non vengono garantiti se si riduce la quantità degli insegnanti (che passerebbero da 5 a 3) e la conseguente qualità dell’offerta. Gli studenti – preoccupati che il loro corso di studi possa essere seriamente minacciato come quello di Classics, di cui si vocifera la chiusura fin dall’inizio di quest’anno – hanno scritto una lettera al Principal della Royal Holloway e hanno lanciato una petizione online per fare sentire la loro voce.
Questa protesta può sembrare lontana e in fondo ben poco minacciosa agli studenti italiani: perché preoccuparsi dei tagli ad un dipartimento d’oltremanica quando qui si combatte per tenere in vita intere facoltà? Fa riflettere il fatto che nell’attuale sconfortante scenario europeo sembra esserci una caratteristica comune a tutto questo “taglia e cuci” accademico, che unifica corsi e riduce insegnanti: i sacrifici più grossi sono sempre richiesti ai dipartimenti umanistici.

Che la letteratura e la cultura in genere non abbiano mai prodotto grossi introiti economici è cosa risaputa, ma ciò non è un buon motivo per far diventare assioma questa brutta abitudine, e non sarà superflua una riflessione sul perché gli studi umanistici non siano generalmente considerati produttivi. È tipico dello studente di letteratura (e di arte, cinema, teatro, musica), soprattutto al momento in cui ogni strada gli appare sbarrata, chiedersi comprensibilmente (chi non l’ha fatto?): “Non sarebbe più utile andare a costruire ponti e case, salvare vite umane o lavorare al negozio dei miei? Che senso ha ciò che studio?”. Una prima risposta a questa domanda potrebbe venire da Ezra Pound, che ci ricorda come la letteratura (qui presa come sineddoche di arte in genere) “incita l’umanità, nonostante tutto, a vivere”. Una ragione estetica dunque, che aiuta sicuramente nei momenti di incertezza: chi si occupa di letteratura potrebbe riuscire nell’intento di trasmettere “il bello”, e con il suo studio e con la sua poesia renderà forse un po’ più felice un’altra persona. Questa ragione, però, non convincerà certo un rettore a non tagliare i finanziamenti ai dipartimenti di studi umanistici.
Ma c’è un’altra ragione, pratica come quella di costruire case e di ipotizzare teorie economiche: che la letteratura forma le menti degli uomini. Uomini che costruiscono la società, che formano una famiglia, che fanno figli, che, a volte, hanno il ruolo di governare una collettività. Il “pensiero semplice” sembra essere oggi il denominatore comune di ogni scelta, privata e collettiva. Finché c’è un’ultima goccia di petrolio, costruisco un impianto sul territorio; finché “ho il fisico giusto” posso avere successo in tv; lo amo ora e quindi faccio un figlio ora perché poi è troppo tardi; è arrivato il mio primo stipendio e compro l’ultimo modello di iPhone.
Gli studi umanistici formano le menti al ragionamento, alla riflessione a lungo termine, qualità fondamentali per la vita privata, e ancora di più sociale, di ogni individuo. La facoltà di saper pensare in modo complesso (“la facoltà di capire il mondo” diceva lo slogan della cara vecchia facoltà di Lingue e Letterature Straniere di Catania) viene sviluppata dall’assidua frequentazione della letteratura e delle arti, ed è incredibilmente poco produttivo – tanto per parlare in termini che potrebbero interessare rettori e finanziatori – non vedere quanto siano “utili” gli studi umanistici.
A questo proposito appare quanto mai attuale un saggio di Luigi Malerba dal titolo Che vergogna scrivere, pubblicato nel 1996. Così afferma Malerba:

La cultura in grado di offrire una prospettiva accettabile per il nostro futuro, una coscienza sociale, una idea della convivenza pacifica, un orizzonte politico meno provvisorio, è proprio la cultura umanistica, le idee dei filosofi, degli scrittori, dei poeti. […] La decadenza degli studi umanistici a vantaggio della pratica tecnologica non può non preoccupare ogni persona di buon senso. Abbiamo in soprannumero addetti alla produzione e allo studio di nuove tecnologie, ma ciò che serve a noi non è un più vasto sapere tecnico. Ciò di cui abbiamo un bisogno disperato e urgente è un tipo di cultura, e perciò di educazione, che ci permetta di usare saggiamente gli strumenti di cui già disponiamo e di superare indenni l’invadenza tecnologica. […] Qualcuno ha portato il disordine in cielo e ha sottratto agli uomini innocenti il luogo della poesia e della favola. Purtroppo questo succede perché ai posti di comando arrivano troppo spesso uomini privi di quelle vigili prospettive che soltanto la cultura umanistica può dare. Per far fronte all’insipienza irresponsabile, alla volgarità e all’arroganza del “parlar corto”, per opporre resistenza alle decisioni miopi e avventate che dobbiamo subire quotidianamente e ridare forza a una idea prospettica della civiltà, io credo che ci sarà di grande aiuto proprio la letteratura, ancora alla ricerca di un riscatto dalle sue colpe immaginarie.

Si finanzia solo ciò che produce un introito misurabile e veloce. Ma parlare di profitto economico non ha senso per gli studi umanistici (così come non ha senso per l’editoria), per cui vige un diverso metro di valore. Sarebbe come giudicare il lavoro di un economista dalla bellezza estetica dei grafici che disegna. Trovare soluzioni di compromesso non vuol dire salvarsi dalla crisi culturale: non è licenziando uno e non due docenti della Royal Holloway o rinviando il problema all’anno prossimo che la battaglia si può dire vinta.

L’attuale situazione di crisi delle facoltà umanistiche europee dovrebbe indignare tutti, a prescindere dal contesto geografico. Dovrebbe indignare lo studente che si è iscritto alla Facoltà di Lingue e Letterature Straniere di Catania (una facoltà giovane, attiva a livello accademico e cittadino) e che ora vede scritto sulla propria tesi di laurea “Facoltà di Lettere e Filosofia”; dovrebbe indignare lo studente che ha superato brillantemente le prove per l’ammissione al dottorato e poi si è ritrovato magicamente come primo tra i non ammessi; dovrebbe indignare lo studente dell’Università di Siena che non ha neanche potuto partecipare al concorso per l’ammissione al dottorato in studi umanistici, perché quel dottorato – dove insegnano professori come Romano Luperini, Antonio Melis e Antonio Prete – quest’anno non è neanche attivo. Dovrebbe infine indignare tutti, a prescindere dalla carriera scelta, perché non c’è nessuna battaglia tra i campi di studio. Al contrario, la vivacità e la qualità della ricerca dovrebbero essere sempre garantite in ogni ateneo da varietà e diversità: è una battaglia per una più equa distribuzione delle risorse; e per redimere finalmente gli studi umanistici (e gli studenti affranti) da questa immaginaria colpa di “inutilità” che la società odierna vorrebbe assegnare loro.

7 responses to “Le colpe immaginarie degli studi umanistici

  1. E la scuola porge il capo al “pensiero semplice”: nessuna riforma ci ha salvato fino ad esso dalla frammentazione del sapere, che partorisce nozioni assorbite e non assimilate con un sistematico esercizio del pensiero, dall’assioma sapere=efficienza, dalle classi superaffollate dove i maestri possono solo invocare e non praticare l’educazione maieutica.
    La conoscenza produce una delle forme più raffinate di godimento che giustifica e ripaga a piene mani la fatica dell’apprendere: come mai otto su dieci studenti di questa nostra scuola sorride cinico difronte a tale considerazione?

  2. Bè, succedeva più di vent’anni fa che le facoltà di architettura, da secoli disciplina prettamente umanistica, iniziavano ad ingegnerizzarsi, senza che nessuno si scomponesse minimamente. Era il segno evidente del soccombere del pensiero critico di fronte ai nuovi sovrani della stirpe empirica anglosassone, re numero e principe metro.

  3. Grazie per i vostri commenti. Se solo anche il «re numero e principe metro» fossero trattati dal punto di vista umanistico sarebbe già un gran passo avanti; ovvero – un faticoso e ambizioso percorso “à rebours”.

  4. Purtroppo e sempre di più siamo noi studenti delle facoltà umanistiche i primi a farci convincere dell’inutilità di quello che studiamo.
    Non rivendicare uno spazio e un futuro per il sapere in cui credi è come acconsentire con coloro che lo declassano a “sapere di serie B”.
    Un sacco di problemi sollevati da questo articolo, GRAZIE!

    Studentessa (non ancora) affranta e (probabilmente mai) inutile.

  5. Questo tuo articolo è stato un sollievo all’angoscia “produttiva” che mi ritrovo a subire, una boccata d’aria nel fumo soffocante della società del consumo. Studio Filosofia – si, lo scrivo con la maiuscola – e domande sull’inutilità del mio corso di studi sono a cadenza se non quotidiana almeno settimanale. Sottovaluto spesso l’argomentazione secondo la quale una formazione umanistica educa al ragionamento, poiché questo avviene per qualsiasi facoltà affrontata seriamente, anche se non nei termini del più stretto rigore filosofico. Sottovaluto anche il discorso secondo il quale sono le facoltà umanistiche le uniche a poterci dare la capacità di creare prospettive per un futuro accettabile, poiché quella capacità appartiene a menti creative e talentuose, indipendentemente dagli studi che affrontano a livello universitario. Ci servono davvero il linguista, il sociologo, l’antropologo, il filosofo e il letterato più di un chimico, un ingegnere o un matematico, per vivere una società migliore? Non credo che esista una competenza specifica in grado di contribuire alla ricchezza morale della società… Però, come hai ben scritto, considerare problemi del genere col metro dell’utilità in senso stretto sarebbe come <>. Noi facciamo altro, mi viene solo difficile capire bene cosa :D Pur non avendo risposte a queste domande ti ringrazio per il tuo articolo, mi ha fatto pensare che studiare per migliorarsi come persone se non è un vantaggio immediato per la società perlomeno non è un peso.

  6. Leggo un anno abbondante dopo. Ancora attualissimo. Ma se la cultura umanistica insegna cosa decidere poi ci vuole la cultura tecnica per sapere come fare al meglio. La spaccatura va superata. PS Nell’ottica a breve termine la cultura in Italia può sempre produrre un proficuo turismo su ogni parte del paese (il turista straniero abituato, con un minimo di gusto, si incanta davanti ad una “semplice” cappella affrescata come ne abbiamo centinaia). Ma noi continuiamo, fessi, a ripeterci e a convincerci che colla cultura non si mangia. E Pompei cade.

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