Discorso razionale e decisione giudiziale

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1. L’apprendista quanto l’oculato cultore della conoscenza giuridica dovrebbero porsi alla lettura della Teoria dell’argomentazione giuridica di Robert Alexy, per poter percorrere nuove piste alla ricerca di quelli che sono i fondamenti della scienza giuridica. Al termine della lettura di tale opera essi ricaverebbero l’impressione di essere usciti da una inestricabile foresta, costituita principalmente dagli innumerevoli metodi dell’interpretazione giuridica, dagli enunciati e concetti della dogmatica giuridica, dalle mere operazioni logico-formali, ma dove nulla vi è che orienti verso una “argomentazione razionale”, rectius: un’argomentazione giuridica razionale. Tale tipo di argomentazione non è un prodotto di raffinata sintesi ad usum esclusivo del teorico o del filosofo del diritto, ma può svolgere opera di consolidamento delle basi scientifiche della giurisprudenza, di chiarificazione degli aspetti determinanti per la decisione giudiziale che spesso sono esterni alla legge. La stessa, usata e abusata, formula “Stato di diritto” assumerebbe, inoltre, per tutti i cittadini, un ben diverso significato se potere giurisdizionale e pubblica amministrazione si giustificassero non solo con l’essere sottoposti alla legge ma anche con l’attivazione di procedure rispondenti a princìpi di correttezza argomentativa.

L’avvento dello Stato sociale, con i conseguenti fenomeni di neolegalizzazione e neogiuridicizzazione (cfr. Lombardi Vallauri 1985, pp. 355-372), che vi si sono accompagnati, ha snaturato la legge inficiandone le caratteristiche fondamentali di norma generale ed astratta ed ha comportato una iper-produzione di leggine e decreti, non più rispondenti ai canoni dell’interesse generale bensì ad istanze corporative se non addirittura clientelari. Di fronte ad un potere legislativo in crisi di legittimità, è il potere giudiziario ad assumere la centralità nel sistema giuridico. Il giudice, oggi, sa che per giungere alla decisione di un caso concreto non  può  più  contare  solo sulle  norme giuridiche, ma deve entrare in uno spazio di azione in cui dovrà esercitare la “prerogativa sovrana della scelta” tra soluzioni non più determinate solo dagli strumenti giuridici, intesi in un senso puramente tecnico-formale.

La decisione, presa in base a varie possibili soluzioni, indicherà la preferenza verso un’azione o un comportamento tenuti da certe persone rispetto ad altre azioni o comportamenti tenuti dalle stesse persone, ovvero indicherà come preferita una data situazione rispetto ad altre. Una  simile preferenza si fonda, comunque, su di un giudizio, rectius: una valutazione1, dato che si considera l’alternativa scelta in un certo senso migliore di altre. Rebus sic stantibus, è ineludibile il problema filosofico relativo alla giustificazione in termini di ragione delle proposizioni valutative che vanno espresse.

Il termine “valutazione” può essere inteso sia per individuare l’opzione del preferire, sia per giudicare un’alternativa come migliore. Sulla indispensabilità delle valutazioni nella giurisprudenza, si riportano alcune considerazioni di autori tedeschi (cfr. Alexy 1998,  p. 10): “l’applicazione della legge non si esaurisce nella sussunzione, ma esige da colui che applica la legge una gran quantità di valutazioni” (cfr. Larenz 1992, p. 150); “le valutazioni hanno un’importanza centrale in tutte le decisioni minimamente problematiche” (cfr. Esser 1972, p. 9). Sul tema dei criteri valutativi (cfr. Lombardi Vallauri 1982, p. 306): “Il diritto positivo vigente, per un dato problema, è dunque un ventaglio di soluzioni possibili; è un’area […] entro cui (ma non si sa in quale punto precisamente) deve cadere la decisione”.

2. Avendo il nostro discorso come oggetto di riflessione il parallelo che si può, rectius: che si deve, instaurare tra discorso razionale, come giustificazione di una convinzione morale, e motivazione giuridica, che contiene in sé la giustificazione della decisione giudiziaria, è bene richiamare quanto è proposto alla nostra attenzione dall’analisi condotta da Sergio Cotta riguardo al rapporto fra giustificazione e prescrizione normativa (cfr. Cotta 1981, p. 26). La tesi sostenuta dal filosofo è che la giustificazione è indispensabile per stabilire l’obbligatorietà dell’enunciato prescrittivo, di modo che esso venga inquadrato nella categoria di “norma”; ancora più rilevante e stringente è, in sede giurisdizionale, la giustificazione della norma ex interpretatione. “È lecito affermare che, ai suoi livelli più alti, l’interpretazione non è in grado di conferire natura normativa al testo ex interpretatione se non ne offre valida giustificazione (cfr. Cotta 1981, p. 9): con tale  affermazione Cotta va ben oltre “il ne faut rien changer sans raison2 di  Chaïm Perelman (cfr. Perelman 1963, p. 250); infatti, considerando la sentenza come una norma particolare ex interpretatione rispetto al testo di partenza, si può dire che l’interpretazione fornisce alla norma scritta un pass idoneo nel traffico giuridico, tuttavia soltanto una solida giustificazione contenuta nella motivazione può dare origine al valore normativo del dispositivo. Quindi la formula tipica utilizzata dai giuristi “norma vigente = enunciato deontico + interpretazione”, va ampliata nel nesso triadico: enunciato deontico – giustificazione – interpretazione. Infatti, “mentre nel discorso consueto del giurista [scienziato e operatore giuridico], la giustificazione è come assorbita nell’interpretazione, e in ogni caso strumento di questa, ora la situazione appare ribaltata: l’interpretazione è vincolata e quindi subalterna alla giustificazione che fa corpo, per così dire, con la prescrizione normativa” (cfr. Cotta 1981, p. 27).

La tesi di Cotta, oltre ad individuare nella giustificazione l’indispensabile fondamento dell’obbligatorietà, consolida tale fondamento collegandolo strettamente all’ineliminabile struttura coesistenziale del vivere umano. Questa tesi assume particolare interesse nel contesto della teoria discorsiva del diritto. Una immediata eco del criterio della coesistenza la ritroviamo nella “situazione linguistica ideale” habermasiana, tramite la quale vengono definite le regole fondamentali del discorso. A tali regole potrebbe sottrarsi solo colui che si esclude da ogni relazione comunicativa. Un tale individuo tuttavia perderebbe, secondo Jürgen Habermas, la propria identità (cfr. Habermas 1973).

Se è vero, come è vero, che a rendere accettabile l’obbligatorietà della norma non sono né la sua prescrittività, né la sua promulgazione, né l’annessa sanzione ma solo una convincente giustificazione del perché deve essere il comportamento stabilito dalla norma, ci si chiederà: ma allora la giustificazione ha ancora una funzione posticcia o in ogni caso solo strumentale? Per rispondere bisogna considerare che “l’esigenza del dover-essere (l’esigenza d’un agire dell’uomo secondo norme) deriva e s’impone per il fatto che […] l’essere del nostro esserci (das Sein des Dasein, per esprimersi nei termini di Heidegger) è un con-esserci” (cfr. Cotta 1981, p. 25). È la stessa coesistenza a richiedere il dover-essere (come normatività morale e giuridica).

Allo stesso tempo, “all’interno di un orizzonte ontologico delimitato dall’insufficienza-indigenza dell’essente e dalla sua coesistenzialità” (cfr. Cotta 1981, p. 26), trova fondamento lo stesso discorso morale, quali che ne siano i contenuti. La giustificazione derivante da un discorso razionale implica una parità sostanziale degli uomini in quanto esseri ragionevoli pur nella loro diversità fenotipica. La necessità della giustificazione evidenzia ancor di più questa parità se si considera una proposizione normativa (giuridica o morale) come un atto linguistico implicante una capacità di comprensione nel destinatario. Tale comprensione non si può limitare al semplice significato linguistico, perché a tale livello vi sarebbe una mera parità intercomunicativa; soltanto con la giustificazione si potrà ottenere una specifica parità, di modo che ciò che al proponente “appare dover essere (ossia, assumere deonticità) deve poter apparire tale anche al destinatario per risultare obbligatorio” (cfr. Cotta 1981, p. 127).

3. Una volta constatato che il lavoro del giurista non si può solo basare su mere operazioni logico-formali, incapaci di porre rimedio all’incompletezza-indeterminazione del diritto positivo, si è posta in evidenza la valutatività o politicità della scienza e della decisione giuridica (cfr. Lombardi Vallauri, 1981). La tesi della politicità del diritto ha dato avvio a varie strumentalizzazioni che hanno indirizzato il ragionamento giuridico verso il suo opposto, cioè l’ideologicismo. Di fronte al dilemma “o logicismo formalistico o irrazionalismo ideologico” si deve trovare una via d’uscita che si potrebbe individuare, per dirla con Perelman, nella “logica del ragionevole” in opposizione a razionalità formale. Il carattere che giustifica il valore persuasivo e veritativo dell’argomentazione ragionevole è proprio la sua multiformità e multidimensionalità in opposizione alla semplice linearità del ragionamento dimostrativo. Naturalmente, quanto più è ampio lo spazio dell’argomentazione tanto più diventa rilevante il problema filosofico della fondazione razionale dei valori, o meglio delle proposizioni valutative. È bene precisare che ciò non vuol dire che il giurista debba vestire i panni del filosofo per decidere i casi perplessi, bensì che bisogna inserire nel metodo giuridico regole discorsive e schemi argomentativi ricavati da altre discipline.

Infatti, Alexy riallaccia i rapporti tra filosofia e diritto fondandosi su quanto di più significativo oggi emerge dal dibattito sull’etica, dalla filosofia del linguaggio e dalla teoria dell’argomentazione in pieno sviluppo. La ricerca è indirizzata verso quelle regole discorsive e forme argomentative  che, nell’ambito del metodo giuridico, possano dare una risposta alla questione relativa alla pretesa che una proposizione giuridica solleva, cioè  quella “di essere razionalmente motivabile in considerazione delle condizioni limitative”, condizioni che vanno ravvisate nel vincolo alla legge, ai precedenti, alla dogmatica giuridica, e, da ultimo ma non meno importante, nel vincolo agli ordinamenti processuali (preclusioni, oneri della prova ecc.).

Innanzitutto, l’argomentazione giuridica viene contraddistinta come un’attività linguistica, ovvero, per dirla con Wittgenstein, un gioco linguistico di tipo particolare che concerne la correttezza  delle proposizioni normative. Tale attività linguistica viene definita da Alexy come “discorso, o meglio – trattandosi della correttezza di proposizioni normative – come discorso pratico” (cfr. Alexy 1998, p. 17), il discorso giuridico dandosi come caso particolare del discorso pratico generale.

La teoria del ragionamento giuridico di Alexy sviluppa nel contesto giuridico idee proprie di Habermas. Infatti si parte dal presupposto che idee e concetti abbiano origine discorsiva, secondo la pragmatica discorsiva di  Habermas, si parla e si pensa perché si è sin dalla nascita inseriti in un contesto di discorsi che sono all’origine della socializzazione. La tesi sottesa all’etica del discorso in Habermas è che: “una norma può pretendere di avere valore soltanto se tutti coloro che possono essere coinvolti raggiungono (o raggiungerebbero) come partecipanti ad un discorso pratico, un accordo sulla validità di tale norma” (cfr. Habermas 1989, p. 74). Nella ricerca dei presupposti pragmatici dell’argomentazione Habermas riconosce a Karl-Otto Apel il merito di aver ripristinato la centralità della “argomentazione in genere” in modo tale da avere “un punto di riferimento che per l’analisi di regole irrecusabili è altrettanto importante quanto lo è l’io penso o la coscienza in genere per la filosofia della riflessione” (cfr. Habermas 1989,  p.  91). Sviluppando la tesi di Apel secondo la quale ogni partecipante ad una qualche argomentazione, per esaminare criticamente una ipotetica pretesa di verità, deve contare su presupposti dotati di contenuto normativo, Habermas mostra che “quando si parla di regole del discorso, non si tratta semplicemente di convenzioni, bensì di presupposti inevitabili” (cfr. Habermas 1989, p. 100). Tale tipo di individuazione delle regole del discorso razionale viene definita da Apel come “pragmatico-trascendentale” (cfr. Apel 1976). Tuttavia, come testimoniato da Alexy, “Habermas, che nel 1973 parlava ancora di carattere trascendentale del linguaggio ordinario, ha nel frattempo sollevato dei dubbi sull’impiego del termine coniato da Kant. Egli propone l’espressione pragmatica universale” (cfr. Alexy 1998, p. 98). In merito Habermas adduce due ragioni: 1) con le regole del discorso non si tratta, come in Kant, di costituire l’esperienza, ma di produrre argomenti, e 2) elaborando queste regole non si può tracciare una netta differenza tra analisi logica ed empirica (cfr. Habermas 1976, pp. 201 e ss.).

In chiunque compia un atto linguistico, persino nel caso dell’inganno premeditato, per il semplice fatto di pronunciare un enunciato vi è la pretesa che la sua espressione linguistica corrisponda a ciò che pensa (sincerità), che sia adeguata alla situazione concreta cui si riferisce (correttezza), e che sia universalmente accettata dagli interessati all’enunciato medesimo (validità). Questi presupposti impliciti in ogni parlante, per Alexy, devono essere portati alla luce e universalizzati, ma ciò può avvenire solo in ambito di situazioni discorsive razionali. Tali implicite pretese diventano ancor più impellenti nel caso del giudizio giuridico, perché qui, a differenza della proposizione normativa, la pretesa di correttezza veste i panni della pretesa di giustizia. Nella pretesa di correttezza avanzata dalla decisione giudiziale sono da considerare due aspetti: in un primo momento si assume che la decisione sia corretta nell’àmbito dell’ordinamento giuridico vigente, in un secondo momento si assume che il diritto vigente sia razionale o giusto. Nel caso di una legge irrazionale o ingiusta ma giuridicamente valida, la decisione giudiziale che applichi correttamente quella legge e reciti: “Tizio è condannato, sulla base di una legge ingiusta, a dieci anni di reclusione” non è una decisione perfetta giuridicamente, in quanto in essa viene negato il secondo momento della pretesa di correttezza connessa necessariamente alle decisioni giudiziali. Tuttavia, come fa notare Alexy, pur “nella situazione qui considerata della rigorosa applicabilità della legge irrazionale e ingiusta […] la connessione tra la razionalità discorsiva e il diritto non si rompe. Anche se la razionalità non può più determinare il contenuto della decisione, essa costituisce la ragione della sua scorrettezza e il criterio per la sua critica” e pertanto risulta ancor più evidente la qualifica del discorso giuridico come caso particolare del discorso pratico generale in base alla necessità di un “inserimento dell’argomentazione giuridica nel contesto di una razionalità discorsiva che abbraccia l’intero sistema del diritto” (cfr. Alexy 1998, p. 270).

4. Alexy imposta la propria teoria del discorso razionale come teoria normativa, in quanto essa enuncia e giustifica i criteri per la razionalità dei discorsi. Allo scopo di individuare le regole che definiscono il discorso pratico razionale vengono sottoposte ad un accurato esame critico varie teorie metaetiche elaborate nell’ambito della filosofia analitica (Hare, Toulmin, Baier), insieme con la teoria consensuale della verità di Habermas, il metodo costruttivista di Lorenzen e Schwemmer, e la teoria dell’argomentazione di Perelman: tutte queste teorie condividono la concezione del discorso morale come attività diretta da regole.

Le regole che guidano l’attività discorsiva non sono assiomi, ma sono regole e forme di vario status logico, cui deve adeguarsi un’argomentazione che pretende di ottenere e giustificare risultati corretti3. Tra le regole fondamentali (non contraddizione, sincerità, uso linguistico comune) che sono condicio sine qua non di ogni comunicazione linguistica in cui si tratti  di verità, o meglio di correttezza, spicca il principio di universalizzabilità di Hare, in base al quale ogni parlante può affermare solo quei giudizi di valore e di obbligo che affermerebbe parimenti in ogni altra situazione che, negli aspetti rilevanti, sia uguale a quella nella quale egli ha affermato quei giudizi. I discorsi pratici mirano a giustificare l’affermazione di proposizioni normative, il che comporta che si instauri una catena di affermazioni, in mancanza della quale non sarebbe nemmeno possibile il discorso pratico. Nell’ambito del discorso, quindi, vige innanzitutto la regola generale di giustificazione, insieme con le regole che si ricavano dalla situazione discorsiva ideale di Habermas (equiparazione dei diritti dei parlanti, universalità e assenza di costrizioni). Un terzo gruppo, detto delle regole di ragione, riguarda la distribuzione dell’onere dell’argomentazione risultante dalla connessione del principio di universalizzabilità con la regola generale di giustificazione. Sempre nell’ambito delle regole di ragione, notevole rilievo ha il principio di inerzia di Perelman, in base al quale, quando un parlante afferma qualcosa, i suoi interlocutori hanno il diritto di esigere una motivazione. Nell’ambito delle regole di giustificazione, notevole importanza ha il combinato derivante dalla unione dei due principi formulati da Richard Hare, ossia il principio  di universalizzabilità e il principio di prescrittività (cfr. Hare 1971, pp. 71 e 73; Hare 1968, p.90). Fra le regole di giustificazione trovano applicazione, come varianti del principio di universalizzabilità di Hare, sia il principio di generalizzabilità di Habermas, per cui chiunque deve poter approvare ogni regola, sia il principio di insegnabilità di Kurt Baier fondato sui postulati di sincerità e pubblicità, per cui qualsiasi regola deve poter essere insegnata pubblicamente. Infine vanno ricordate le regole di transizione, importanti nei casi frequenti in cui i parlanti sono d’accordo sulle premesse normative ma disputano sui fatti.

Il seguire le regole suddette, pur assicurando una elevata probabilità di giungere ad un accordo nelle questioni pratiche, non garantisce tuttavia il raggiungimento di un accordo su ogni questione, né che l’accordo raggiunto sia incontestabile. Tutto ciò è ascrivibile a tre fattori di debolezza del discorso pratico: a) le regole del discorso non indicano da quali premesse normative partire (infatti il punto di partenza è costituito da concezioni normative individuali, spesso tra loro incompatibili); b) non sono stabiliti tutti i possibili livelli di argomentazione; c) alcune regole del discorso possono essere applicate solo in modo approssimativo, e quindi c’è la possibilità che non venga raggiunto alcun accordo. Pertanto, se si considera che l’ambito del discorsivamente possibile è molto ampio e che vi è urgenza nel decidere, bisogna accordarsi su procedimenti che circoscrivano il più possibile l’ambito del discorsivamente possibile: esempi di tali procedimenti sono le regole della legislazione e i vari codici di procedura. I limiti del discorso pratico generale giustificano la necessità delle regole giuridiche, provocando così il passaggio al discorso giuridico. In tal modo si  realizza un fenomeno osmotico tra i due tipi di discorso, con reciproco vantaggio: il discorso giuridico, pur necessitando di argomenti pratici generali (per esempio, per la giustificazione e verifica di enunciati dogmatici ovvero per la giustificazione di proposizioni empiriche quali premesse utilizzate nella giustificazione interna), mitiga l’incidenza dei suddetti punti deboli del discorso pratico e fa sì che l’argomentazione pratica generale, come parte integrante dell’argomentazione giuridica, venga a svolgersi in un contesto che ne aumenta l’efficacia in forza della istituzionalizzazione del discorso giuridico come scienza del diritto, e del suo legame con i precedenti.

Per concludere: l’uso di argomenti specificamente giuridici deve essere collegato con l’uso di argomenti pratici generali. In particolare, quando  Alexy esamina i rapporti tra dogmatica giuridica e argomentazione pratica generale, sostiene l’idea che “l’impiego di argomenti sistematico-concettuali a fianco degli altri, in particolare degli argomenti pratici generali, sia necessario e razionale” (cfr. Alexy 1998, p. 201). Se la dogmatica giuridica, attraverso le sue funzioni, svolge nel campo del Rechtsfindung un compito che facilita e abbrevia la ricerca della soluzione, d’altro canto l’argomentazione pratica generale svolge un ruolo essenziale nel campo della giustificazione mediante il controllo della dogmatica, di modo che le decisioni siano giustificabili attraverso la forza di convincimento del ragionamento, e non solo con una verifica sistematica in senso stretto: “l’argomentazione dogmatica non può certo venire ridotta all’argomentazione pratica generale, ma l’argomentazione pratica generale costituisce l’ultima pietra di paragone e quindi il fondamento dell’argomentazione dogmatica” (cfr. Alexy 1998, p. 209).

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