Vinicio Capossela e lo spazio postmoderno

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Quanto scrivo – quasi una recensione – prende forma a partire dalla tesi di laurea di Loredana Piro; successivamente tale tesi è stata edita dalla Mimesis ed è stata adottata come testo d’esame di Geografia Umana nello stesso Ateneo di Palermo dove si è formata l’autrice. Si tratta dunque di un prodotto squisitamente accademico; tale è da considerarsi, nonostante la sua atipicità. La stessa Piro afferma che il suo scopo è stato quello di dimostrare l’impossibilità di demarcare certezze.

Ci muoviamo pertanto su un terreno molto scivoloso e proprio per questo, credo, di estremo interesse. Sebbene a conclusione della sua lettura ci si ritrovi ebbri e con più punti di domanda che risposte, il percorso non manca certo di regalare sorprendenti punti fissi. Sarà bene però procedere per gradi e quasi “graficamente”.

Il libro di Piro titola col nome di uno dei più importanti cantautori italiani: Vinicio Capossela. Ri-cognizione geografica di una flânerie. Sembrerebbe trattarsi di una biografia, almeno questo andrebbe dedotto dal titolo. E in qualche modo è così, poiché le notazioni biografiche sono innumerevoli e necessarie trattando di un musicista in cui arte e vita difficilmente si separano. Va detto che risulta difficile pensare a una comprensione piena del senso di questo scritto per chi nulla sappia di Capossela o nulla sappia di geografia umana. Ma è egualmente vero che i nodi centrali, al di là degli spunti particolari, sono universali e comprensibili senza bisogno di queste conoscenze preliminari.

Il sottotitolo specifica che, in questo caso, il cantautore è solo un pretesto per un’analisi di altro tipo, un’analisi di tipo geografico di cui è lo “strumento specifico”. Capossela è un personaggio molto complesso e per questa sua complessità viene scelto, perché adatto a esprimere l’instabilità di questa nostra epoca. È quello che viene definito “flâneur postmoderno”, ciò che in letteratura si dice vagabondo urbano, come furono Baudelaire per Parigi, Dickens e Woolf per Londra, Joyce per Dublino, Pessoa per Lisbona. Dice W. Benjamin che «la strada conduce il flâneur attraverso un tempo scomparso. Per lui ogni strada è scoscesa, lo conduce in basso»1. “Dalla parte di sotto” – direbbe Vinicio – in un passato che non è il suo ma pure è tempo d’infanzia e, proprio perché non è suo, lo affascina.

Il tentativo di darsi una dimora è, per lui, destinato a rimanere vano.

Ecco spiegato perché un saggio di questo tipo non possa proporsi come un esame analitico: non c’è un oggetto già compiuto da sezionare. Quello che viene sviluppato intorno a Capossela è un percorso dialettico tra due discipline (geografia e letteratura), è un esperimento che mira palesemente a far porre al lettore nuove domande suoi luoghi che vive, sul valore che i luoghi assumono, per comprendere come spesso siamo ciò che ci circonda.

Piro, nell’introduzione, spiega il significato del termine “ri-cognizione”: si tratta sia di un’analisi strettamente geografica, intesa come osservazione degli spazi contemporanei, sia di un ripensamento degli spazi stessi. È una mutazione della prassi conoscitiva imposta dalla post-modernità. La società contemporanea, dice, ha bisogno di ri-conoscersi, di nuove mappe e di nuovi orientamenti. Finita la modernità c’è dunque bisogno di riscrivere il mondo, di una nuova geo-grafia. Si tratta dunque di un punto zero, di una ripartenza, di un momento in cui la geografia si rivaluta e si ricostruisce; e quale base migliore della letteratura? Il presupposto su cui poggia questo saggio, infatti, è che la letteratura è una fonte di conoscenza geografica. Ma perché scegliere la letteratura anziché la rappresentazione cartografica? La distinzione, fondamentale è questa: chi legge una carta si ritroverà con la conoscenza del mondo che il geografo ha voluto trasmettergli, mentre l’artista non ci impone nessun punto di vista, ci mette solo di fronte alla possibilità di comprendere il nostro e ci fa comprendere che ne esistono degli altri.

Cosa ha determinato questo smarrimento? Tutto è generato dalla “crisi della ragione cartografica” di cui ha ampiamente parlato lo studioso Franco Farinelli, alla cui opera questo il saggio di Piro grandemente debitore. Per Farinelli la modernità è la riduzione del mondo a spazio; l’età pre-moderna e questa post-moderna misurano le distanze col tempo. Così in Capossela, chiave di lettura privilegiata di questa post-modernità, non si va necessariamente da qualche parte, la fine del viaggio è determinata solo dal tempo, dalle energie consumate.

Con la fine dell’epoca moderna e l’inizio della globalizzazione, epoca in cui domina lo smarrimento, proprio perché la cartografia non può più dare una soddisfacente immagine del mondo, spazio e tempo moderni sono entrati in crisi.

Una concisa ma esauriente analisi del problema la fornisce Guarrasi nella prefazione, dicendo che tale crisi è stata generata da tre eventi:

  1. il passaggio da una realtà circoscritta ad un insieme di fatti, globale e discontinuo, specialmente in ambito urbano. La città è ormai un impasto di reti;
  2. la fine della geografia come sapere autonomo e conseguente sovvertimento dell’architettura dei saperi, poiché, come scrisse Derrida, viene meno la propensione della filosofia a costruire quella struttura gerarchizzante che riusciva a dar ordine alla molteplicità di ambiti;
  3. lo sconvolgimento dell’universo delle narrazioni. La geografia cerca nuovi legami, perché la razionalità scientifica non è più in grado di dare orientamenti; ma trovandone uno con la letteratura, ecco che si trova davanti ad una letteratura nuova, che non è più quella delle grandi narrazioni, ma quella a cui diede inizio Conrad con il suo Cuore di tenebra (opera tanto cara a Capossela), una letteratura in cui domina l’esperienza del limite nella comprensione del mondo. Da questo momento in poi la letteratura sarà quella di Joyce e Proust. È la fine di ciò che Leibniz chiamava “romanzo della vita umana” ovvero la storia universale, già contenuta nella mente di Dio; è la fine del sogno che la filosofia ha inseguito negli ultimi tre secoli, il romanzo filosofico che avrebbe condannato all’inattualità tutti gli altri romanzi.

Si tratta di un problema gnoseologico. Piro sostiene che la conoscenza dello spazio contemporaneo non si basa più solo su una prospettiva statica e univoca (quella cartografica) ma su una prospettiva dinamica e molteplice come quella artistica. Farinelli ha più volte affermato che il labirinto non è rappresentabile, poiché se lo rappresenti lo trasformi nel suo esatto contrario, cioè in qualcosa dotato di un centro. Tale è lo spazio contemporaneo: un labirinto non rappresentabile. E se non lo si può descrivere, allora bisognerà — narrarlo.

La città contemporanea, come dice Rullani, è un labirinto, «non un luogo ma una successione infinita di luoghi […] la cui successione non è però casuale, ma ordinata nel movimento del viaggiatore, che attraversa uno spazio da lui stesso creato»2.

Capossela è in un perenne labirinto, alla continua ricerca del suo centro, del suo “barrio”:

E mai nessuno di voi è il mio quartiere. Barrio così lo chiamerò il posto dove mi sentirò uno di voi e le vostre voci lontane saranno musica per il mio cuore.3

Ma questo barrio sembra non trovarlo mai; dove potrebbe essere? Perché qui e non lì? Perché qui dove non è nemmeno nato? Capossela ha affermato da poco che la Grecia, scenografia del suo ultimo lavoro Rebetikos gymnastas, è la sua nuova patria errante. Nuova, perché avere una patria è una scelta; ma errante, ovvero non definitiva, con la data di scadenza, perché porterà con sé anche questa quando dovrà cambiarla. La porterà con sé come lo Zarathustra nietzschiano: «questo cercare la mia casa era la mia tentazione. Dov’è la mia casa? Così chiedo e cerco e cercavo e non ho trovato»4.

Il labirinto è emblema del movimento e assenza di radicamento. Il labirinto di Capossela, quello di Brucia Troia, città per eccellenza, mura per eccellenza, quello in cui risuona il lamento del Minotauro: «Sono io il mio Minotauro, divoro chi arriva fino a me. Chiuso nel mio labirinto, divoro chi arriva fino a me»5. Questo lamento ricorda da vicino Borges e La casa di Asterione: «È vero che non esco di casa, e con ciò? Il numero delle porte è infinito, chi vuole può entrare […] la casa è grande come il mondo; o meglio, è il mondo»6.

Ma se nel labirinto contemporaneo non ci sono coordinate fisse, come orientarsi? Sono io il mio Minotauro? È l’individuo la coordinata possibile?

A proposito del labirinto, nelle Postille a Il nome della rosa, Eco ne fa una tripartizione:

  1. esiste il labirinto classico, come quello di Cnosso, in cui c’è solo un percorso possibile, ovvero entrandovi non si può che raggiungere il centro e da qui trovare l’uscita;
  2. nel labirinto manieristico o Irrweg invece sono possibili scelte alternative, si possono percorrere più vie, ma solo una conduce all’uscita, è quindi frequente sbagliare percorso e trovarsi a vagare;
  3. questi due modelli hanno comunque sempre un centro, mentre non avviene lo stesso per il terzo modello, che è costituito da una rete, in cui ogni punto può essere connesso con gli altri in modo ricombinante. È questo il labirinto che ricorda alcune delle città continue di Calvino e che comprende quelli che Augè chiama i “non luoghi”, ma che sono in realtà i nostri veri luoghi, perché danno la nuova misura della nostra epoca, perché sono quei luoghi dove avvengono gli incontri, i contatti, l’ibridazione, ciò che da sempre produce cultura: aeroporti, stazioni, centri commerciali.

All’inizio del quarto capitolo del libro di Piro troviamo una citazione di Massimo Cacciari: «Il luogo è dove sostiamo; è pausa – è analogo al silenzio in una partitura. Non si dà musica senza silenzio»7.

Come non pensare a Wagner e alla sua melodia infinita, forma non ingannevole dell’altisonante silenzio. Ecco che nasce la definizione di non-luogo, il luogo viene messo in discussione proprio in relazione a dinamiche socio-territoriali inedite e stravolto. Per Augè uno spazio che non può definirsi né identitario, né relazionale, né storico, si definirà non-luogo. Non-luoghi sono le tangenziali, le stazioni, i motel, le autostrade, i supermercati, gli autogrill, i parcheggi, le vie periferiche. Ma se, come dice Dell’Agnese, i luoghi sono costruiti per dare significato allo spazio in cui si agisce, allora nessuno spazio fisico può essere privato del carattere di luogo. Al contrario, proprio quegli spazi che per la mancanza di caratteri di stabilità e fissità sembrano sfuggire alla tradizionale definizione di luogo potrebbero essere considerati “veri luoghi”. È il caso della Contrada Chiavicone, presente non a caso anche nell’ultimo album di Capossela: «È il luogo fuori dalla strada(…)È un luogo lussureggiante, delle fiabe, delle streghe, delle ciarlatane»8.

Mamma mia mamma mia s’è smarrita la via, pensa a me pensa a me qui perduto per via9.

Ma cos’è la Contrada Chiavicone? È «un vortice che attraversa identità indeterminate e non ne racchiude» scrive la Piro . È un luogo ibrido, vi si trova un parcheggio della Conad (due volte non-luogo dunque), un condominio, la stazione di servizio e la torre dell’acquedotto, mitica sintesi tra e ctòn, che perfora le viscere fino al centro della terra e raccoglie le acque palustri del Chiavicone. È il luogo in cui si riunisce la banda, i suoi amici di sempre, in cui tutto avviene. È in realtà il luogo. Se dunque la vecchia idea di luogo viene messa in discussione come possiamo ridefinirne i contorni?

La biografia di Capossela è vivido contrassegno di questa condizione a limite del nomadismo: nato a Gherden nella regione di Hannover, origini avellinesi, cresciuto lungo la via Emilia, vive adesso a Milano in una zona che molti abbandonano perché “ci sono troppi immigrati”, nella Via Settala, che l’artista ha definito “una Milonga vuota”. Con le sue stesse parole: «Vivo in una zona di addii e partenze, e il fatto di stare in un luogo che non mi appartiene, il fatto di stare in un luogo in cui non ho niente, mi permette di immaginare tutto, di lasciare che le idee si facciano largo liberamente nella testa»; e ancora: «Abito non a caso vicino alla stazione, con un piede dentro e un piede fuori».

I fattori principali dell’instabilità e del disorientamento che discendono dalla condizione labirintica in cui versa lo spazio contemporaneo sono la migrazione e la crisi della forma urbana.

Capossela è un “randagio con molte radici”. La sua famiglia ha conosciuto presto la migrazione,ma un tipo particolare di migrazione, quella a tempo, quella da cui si ritorna, senza ritornare mai. Ancora più disarmante e straniante questa condizione, più di quella dei nostri emigrati in America, come scrisse lo stesso Vinicio, che almeno poi da lì non si ritorna indietro e non ci si pensa più. Così invece non si è più né qua né là, emigranti a molla col ritorno incorporato.

Frammentarietà è un parola d’ordine post-moderna. E frammentario è il primo romanzo di Vinicio, datato 2004, di cui si è scritto: «Un libro-labirinto percorribile individualmente come una città infinita.[…]Demolisce la struttura narrativa, i canoni, le convenzioni. È antiscrittura»10.

E la narrazione non ha un finale, come l’esploratore post-moderno non arriva ad una meta, così il lettore non ha una fine.

La sua ibridazione fra generi letterari è tipicamente postmoderna. Ciò a cui più si avvicina lo dice lo stesso autore: «Sconfina spesso nella scrittura fatta per la musica e per la recitazione. È una polifonia in senso bachiano/pacchiano a quattro voci». È contraddistinto infatti da una fortissima incidenza della musicalità delle parole (spesso inusuali) e delle frasi allitteranti e assonanti. Anche la pluralità linguistica e stilistica è tipica della sensibilità postmoderna. Capossela fa spesso uso di termini gergali, popolari, dialettali, scurrili e insieme di preziosismi aulici e dotti, accompagnati da un fortissimo citazionismo. In questo romanzo c’è “il contagio della reificazione”11 nella lingua ovvero la ripetizione quasi ossessiva di tre termini: voce, rete, e quantità. Il post-moderno è stato più volte definito anche come l’epoca della quantità.

Uno dei meriti del saggio di Piro, va detto, è quello di costituire indirettamente un elogio della prima opera letteraria caposseliana, che per essere compresa ha bisogno di chiavi di lettura; il saggio ne fornisce di molto valide. Molte idee che poi finiranno nei dischi a venire sono contenute in nuce in questo romanzo. Ed è dal romanzo, più che dai dischi, che l’autrice ricava gran parte del suo materiale.

Qui Capossela dimostra di essere un artista-geografo, per via dell’importanza attribuita alle ambientazioni e al tema del movimento. L’identità, per Capossela, si realizza nel passaggio. La crisi identitaria è crisi del radicamento. Crisi petrarchesca potrebbe dirsi. Di intellettuale la cui condizione psicologica è quella di esiliato, di senza patria, che lo porta inevitabilmente a cercare uno spazio contenitivo e protettivo in cui svolgere la matassa delle complesse elaborazioni dell’io. Ma questo spazio per Capossela è ovunque.

Secondo Farinelli l’antitesi pianura/rilievo appartiene all’origine della cultura occidentale. Per i greci ὅρος è la montagna ma anche il limite fra conosciuto e ignoto, razionale e irrazionale. La pianura è l’ambito delle culture, delle sedi stabili; la montagna dell’instabile pastorizia, dell’assenza di valori civili. In Capossela questi valori sembrano invertiti: per lui il rilievo (la cùpa) ha i connotati della stabilità, delle radici, mentre la pianura (emiliana) è l’ambito della mobilità. Ma le contrapposizioni non sono poi così nette, perché i luoghi della stabilità, delle origini, del rilievo sono gli stessi che hanno qualcosa di misterioso. La cùpa, per esempio, è la zona d’ombra creata dalla montagna, scenografia di leggende locali; persino Capossela e il resto della gente del luogo non la conosce né vi appartiene mai completamente.

Inutile enucleare in questa sede l’analisi perfettamente svolta nel saggio di tutti i luoghi del romanzo, dei significati profondi e mai banali che essi hanno nell’opera di Capossela e dei legami con lo studio della geografia antropica in senso stretto, a partire dalla Via Emilia, di cui si è occupato anche Farinelli, per passare ai luoghi di emigrazione della famiglia dell’artista, attraverso cui il saggio allarga il suo campo d’azione ad aspetti della nostra storia più recente su cui faremmo ancora bene a interrogarci (i Balcani, l’emigrazione in Germania). Aspetti che trovano spazio in appena qualche frase nei testi delle canzoni di Capossela, ma grazie a questo saggio ci si rende conto di quanta importanza abbiano avuto sull’uomo, sull’artista e, ampliando l’orizzonte, su generazioni intere.

Persino il fordismo si intreccia alla vita della famiglia dell’artista, emigrata in Germania, come pure la strage alla stazione di Bologna del 2 Agosto 1980, alle cui vittime è intitolato il “Circolo Arci Fuori Orario di Taneto di Gatattico” dove, alle spalle del palco, una vetrata fa trasparire i binari. Qui si ha la sensazione del movimento costante e Capossela vi trascorre il natale, le feste che più dovrebbero avere il sapore della stabilità.

Un capitolo a parte meriterebbe poi l’automobile, mezzo di locomozione e protagonista di una vera e propria epopea, casa dell’artista per un breve periodo e di cui viene narrato il funerale celebrato al Chiavicone, quando dal volante si prende un amuleto, una moneta da mettere sugli occhi-fanali, un magnete rotondo con la scritta “comunque proteggimi”.

Anche la Piro fa ampio uso di citazioni, siano esse prese dalla trattazione scientifica o dall’opera del suo “strumento cognitivo”. Si può dire che il saggio è quasi per intero articolato in citazioni; questo, credo, perché lo scopo era quello di dare più suggestioni che fredde nozioni, cosa che le ha permesso di renderlo affatto noioso e di conferirgli un certo ritmo.

E per rendere l’idea di quanto geografico sia questo autore le citazioni sarebbero ancora molte, ad esempio:

  • note personali accluse alla presentazione del Ballo di San Vito: «Chi ha il ballo di San Vito non può stare fermo e si muove per la penisola come un rabdomante senza tregua e senza requie e trova luoghi e assenze, desiderio d’altrove e fuoco immediato della strada»;
  • Canzoni a manovella è definito dal suo autore “geografia del ’900”;
  • il capolavoro Ovunque Proteggi non può che essere definito come “tutte le geografie”;
  • nelle note di presentazione di Da Solo Capossela scrive : «Sono partito da vicino, da casa mia, dal mio pianoforte e dal mio giro: ma poi in realtà sono andato molto lontano».
  • Marinai, profeti e balene è la sua marina commedia, la sua odissea, il viaggio per eccellenza.
  • Rebetiko gymnastas: al rebetiko Vinicio dedica un intero capitolo del suo primo libro. Non si muore tutte le mattine narra un viaggio realmente compiuto dall’autore nella prima metà degli anni ‘90, che lo porta fino alla Turchia proprio attraverso la Grecia.

Ma cos’è il rebetiko? Nel romanzo leggiamo:

Questa che state ascoltando signore è musica rebetika. Rebetica smirneca. Il rebet che venne dall’Asia Minore, da Smirne profumata, quando era ancora città di Grecia… da lì, da dove furono cacciati tutti e trucidati, e ributtati al mare… erano, questi, greci e stanchi. Esangui per tutta quella nostalgia di vita perduta. È musica, questa, di città di porto, di prigione, un lamento che si canta in coro, ma si balla da soli. Musica ricamata e stanca, per quegli uomini che se ne stanno così, appesi alla vita… il tabacco gli brucia il tempo e li consuma. Cosi mandano in cenere il loro cuore. Piano piano. In questa musica si respirava l’Assenza, strofa dopo strofa come nel tango e nella morna e in tutte le musiche di città di porto. Solo che questa era più antica, più rassegnata di tutte le altre. Non si piangeva l’assenza di una donna o di un quartiere. Era piuttosto un’epoca intera a mancare… un continente perduto12.

La musica rebetika nasce da due identità nazionali, quella greca e quella turca. Alla fine della prima guerra mondiale le nazioni vincitrici stabilirono che l’impero ottomano venisse smembrato, ma ciò non avvenne in modo indolore. Izmir, abitata per metà da greci, venne incendiata e molti degli abitanti uccisi o gettati in mare. Più di un milione di greci in seguito abbandoneranno la Turchia e 380.000 turchi la Grecia. È in questo particolare momento che affonda le sue radici la tradizione rebetika, un momento di perdita di identità, in cui Atatürk (Mustafà Kemal Pascià), che aveva guidato i turchi alla ribellione contro lo smembramento, aveva introdotto il divieto di usare la scrittura araba e altri provvedimenti simili con lo scopo di avvicinare il più possibile la Turchia all’Europa. È così che per questi uomini il rebetiko diventa la loro casa, il momento e lo spazio, il luogo in cui si suona il rebetiko. Considerati turchi in Grecia e greci in Turchia, questi uomini sono diventati rebetici ovunque siano andati a finire. Sono un esempio perfetto di come il luogo sia in realtà un evento spazio-temporale.

Gli spunti che questo saggio offre sono infiniti; si attraversa il secolo breve e si scava anche più a fondo, in modo rapido ma mai confuso, i riferimenti sono complessi, a volte azzardati, ma mai illogici. È senz’altro un opera che merita di essere letta attentamente, che ha qualcosa di nuovo da dire. Il saggio è stato pubblicato nel 2010, ma come ha scritto l’autrice, è un opera aperta. Ho chiuso questo scritto con un riferimento all’ultimo lavoro di Vinicio Capossela, non perché il saggio si chiuda con un riferimento al rebetiko, ma per dimostrarne tutta l’attualità. Sarà forse che ci toccherà tornare a ripensare la Περιήγησις di Ecateo di Mileto?

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