«Er caffettiere filosofo»

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«Er caffettiere filosofo», ovvero la consapevolezza dell’irragionevolezza della speranza

L’ommini de sto monno so ll’istesso
Che vvaghi de caffè nner mascinino:
C’uno prima, uno doppo, e un antro appresso,
Tutti cuanti, però vvanno a un distino.

Spesso muteno sito, e ccaccia spesso
Er vago grosso er vago piccinino.
E ss’incarzeno tutti in zu l’ingresso
Der ferro che li sfraggne in porverino.

E ll’ommini accusì vviveno ar monno
Misticati pe mmano de la sorte
che sse li ggira tutti in tonno in tonno:

E mmovennose oggnuno, o ppiano, o fforte
Senza capillo mai caleno a ffonno
Pe ccascà nne la gola de la morte.

(Giuseppe Gioacchino Belli, Sonetti, Mondadori, Milano, 1981)

Il caffettiere filosofo

Gli uomini di questo mondo sono come
chicchi di caffè nel macinino:
uno prima, uno dopo, e un altro appresso,
vanno tutti quanti verso (lo stesso) destino.

Spesso cambiano posizione, e spinge spesso
il chicco grosso via il chicco piccolo.
E si incalzano tutti giù verso l’ingresso
del ferro che li sminuzza in polvere

E gli uomini così vivono nel mondo
Mescolati per mano della sorte
Che se li gira attorno attorno;

E muovendosi ognuno, piano, o forte,
Senza capire calano a fondo
Per cascare nella gola della morte.

* * *

giuseppe-belli

Il testo del Belli si potrebbe considerare filosofia spicciola, invero i chicchi di caffè rendono “popolare” il significato della vita, nel suo più nudo significato. Il sonetto è costruito con maestria su un incalzante crescendo, quasi a riprodurre il movimento dell’ingranaggio meccanico che sminuzza i chicchi del caffè e li rende polvere.
Nell’immediatezza tipica della poesia dialettale il poeta, attraverso le sconsolate parole del caffettiere, dà corpo a una riflessione filosofica.
Gli uomini al pari dei chicchi di caffè finiscono tutti nel meccanismo (sorte) che decreta la loro fine, a un uguale e inesorabile destino. La similitudine degli uomini ai chicchi di caffè in un macinino simboleggia perfettamente la condizione umana e, al contempo, ne evidenzia (denuncia) l’assurdità della sorte degli uomini che è meccanica e ripetitiva, senza scampo.
È questa l’amara verità che il “caffettiere filosofo” dimostra di sapere dedurre dall’acuta e saggia osservazione del proprio lavoro: una interpretazione della vita universalmente valida.
Il sonetto ha un andamento lento che ben riproduce il monotono movimento che il caffettiere opera sul macinino. Il dialetto contribuisce, da parte sua, a dare al tutto quel valore di buon senso popolare che accresce, anziché diminuire, la sentenziosità dei concetti.
È questa la vita. Non è pessimismo, ma una concezione fatalistica che non concede molte speranze, se non quella di cadere per ultimo nel meccanismo di macinazione, ma sempre di caduta e di fine si tratta. Qualcuno (chicco) deve pur cadere per primo, poi un secondo, un terzo, sino alla fine della moltitudine dei chicchi che si ritroveranno ad essere polvere, anzi caffè da servire a un Signore di tutto rispetto, o magari a qualcun altro che di caffè se ne intende.

1. Accade ciò che accade
Ma che vita sarebbe senza speranza, se si pensasse che le cose possono solo peggiorare? E comunque, in linea con la citazione di La Rochefoucald, essa ci offre una via piacevole verso la fine della vita. La natura della speranza però è ingannevole: ogni uomo ha mille speranze ma poche fioriscono, è legata all’illusione: un giorno tutto sarà perfetto; oggi è tutto perfetto, ecco l’illusione (Voltaire). La speranza non ha un prezzo di acquisto ed è facilmente fruibile e assimilabile nonché rinnovabile all’infinito: si moltiplica esponenzialmente producendo in proporzione delusione e depressione. Le vecchie speranze muoiono, ma se ne possono alimentare delle altre sino alla fine della vita. E secondo Nietzsche la speranza è il peggiore dei mali, perché prolunga i tormenti dell’uomo. Come deve essere considerata: una virtù o una debolezza? Per i cristiani rappresenta una delle tre virtù teologali, insieme a fede e carità, ed è definita come “l’attesa fiduciosa della benedizione divina e della beata visione di Dio” e anche come “il timore di offendere l’amore di Dio e di provocare il castigo” (art. 2090 del Catechismo della Chiesa Cattolica). Nello stesso articolo sono definiti come “peccati contro la speranza” la disperazione (cessazione della fiducia nella onnipotenza di Dio) e la presunzione (da intendersi come capacità dell’uomo di potersi salvare senza Dio). Per Bloch la speranza ci mostra il mondo in movimento, in evoluzione: quindi non un semplice premio di consolazione per le disgrazie, piuttosto uno sforzo per vedere come le cose stanno in movimento, come si evolvono. Si potrebbe dire che la speranza è l’aria che sostiene la ragione e l’una non può fare a meno dell’altra. La speranza di Bloch non riguarda in particolare tanto il futuro quanto il presente, nel senso che ogni istante può essere significativo e assumere una specificità di eternità; cogli l’eternità nell’istante è il principio fondamentale di Bloch. Naturalmente per eternità non si deve intendere un tempo lungo, oltre ogni dimensione finita, bensì la pienezza dell’esistere, difatti la coscienza del presente non è così cristallina come sembra, è in realtà opaca, rendendo il presente oscuro.
Ma se si presuppone che “accade ciò che accade” ecco che la speranza non ha motivo di esistere e di essere utilizzata. È anche improbabile che l’uomo consideri ogni istante della sua vita una buona occasione per cogliere l’eternità nell’istante, comporterebbe fatica e riflessione e in questo caso priverebbe l’uomo stesso di quel sapore dolce della speranza che feconda l’istinto irrazionale che prevale nella dimensione terrena di cui è impossibile rendere ogni cosa chiara e trasparente stante l’insidia dell’imprevedibilità e della casualità. D’altronde ottenere luce dall’oscurità è possibile ma è impraticabile l’idea di ottenere luce pura che è Verità. L’agire individuale, caratterizzato da speranza, s’interseca con l’agire collettivo determinando una moltitudine di eventi non ipotizzati in partenza e che sfuggono anche alla logica di un ordine mentale prestabilito, producendo conflitto di interessi, annullando propositi e progetti: accade quello che deve accadere e le previsioni o meglio le illusioni di governare gli eventi cadono miserevolmente nella delusione. L’agire dell’uomo non è libero, è condizionato dalla società e dalla natura, difatti pochi sono gli intenti che approdano a buon fine, molti sono invece i naufragi. E non bisogna neanche trascurare la fortuna che è figlia della speranza e alimenta costantemente le aspettative degli uomini, facendoli vivere nella disperazione e nella ossessiva speranza di possederla. Cosa sia non è dato sapere, in realtà è inesistente, ogni uomo ha una propria idea di fortuna, una semplice e strana convinzione. Ed è cosa buona non pensare mai da essa, evitarla o ancora meglio non pensarla. Fortuna e speranza ingannano ben volentieri l’uomo e nei loro sorrisi beffardi si può intravedere un accenno di casualità, che forse basterebbe a spiegare qualche cosa.

2. Dio, la speranza e l’amore
I difensori della speranza invece affermano che essa è strettamente connessa con la fede, ed è un dono che cambia la vita di chi lo riceve, come dimostrerebbe l’esperienza dei santi. In sostanza la speranza consiste nella conoscenza di Dio, nella scoperta del suo cuore di Padre buono e misericordioso. È una virtù, e lo è a prescindere da ciò che realizza.
Papa Benedetto XVI: […] L’uomo e il mondo hanno bisogno di Dio – del vero Dio! – altrimenti restano privi di speranza. La scienza contribuisce molto al bene dell’umanità, – senza dubbio – ma non è in grado di redimerla. L’uomo viene redento dall’amore, che rende buona e bella la vita personale e sociale. Per questo la grande speranza, quella piena e definitiva, è garantita da Dio, dal Dio che è amore, che in Gesù ci ha visitati e ci ha donato la vita, e in Lui tornerà alla fine dei tempi […] (Recita dell’Angelus, Roma 02.12.2007).
Un monito severo quello di Ratzinger, che esorta e rimprovera con eleganza i credenti a non cercare la felicità nella scienza o nelle cose terrene ma nell’amore che solo Dio sa dispensare. I credenti certamente non brillano; né nelle loro azioni quotidiane si intravedono eccellenze e virtù, e non sembrano disposti a bere con Cristo il calice della sofferenza, anzi si ingegnano come meglio possono per eludere gli insegnamenti della dottrina, tanto da dimostrare nei fatti che la speranza non è poi quella ricerca ossessiva di Dio ma l’aspirazione a conseguire agi e benefici. Si potrebbe concludere che sì, credono nella speranza che è virtù, però poi preferiscono fare diversamente. François Mauriac ha spiegato con chiarezza l’amore che il cristiano deve avere nei confronti di Dio: […] Il Dio dei cristiani non vuole essere amato, vuole essere amato solo. Non tollera che distogliamo da lui un solo sospiro, perché ogni altro è idolatria. E quest’esigenza è supremamente ragionevole. Impossibile amare la creatura senza deificarla. Essa diventa l’unica necessaria; essa occupa il posto di Dio: il cielo colla sua presenza; l’inferno colla sua assenza. […] Abbiamo torto a considerare i mistici come cristiani d’eccezione; sono gli unici veri cristiani. Amare vuol dire aspirare al possesso. Essi si esauriscono al seguito di Dio, come gli uomini carnali nel perseguimento di quello che amano. Vogliono raggiungere Dio, vogliono possederlo […] (Cinque volti dell’angoscia, Città armoniosa, 1979, pp. 100-101).
L’amore conclude ogni pensiero di Dio nella speranza di Dio. Parole inequivocabili che non ammettono mezze misure e specificano come deve essere l’agire del cristiano. Alle parole dense e forti di Mauriac si riporta un passaggio di Borges, tratto da La misura della mia speranza che meglio riesce a interpretare la debolezza umana e l’incapacità a seguire Dio stante gli avvenimenti che in ogni momento coinvolgono e sconvolgono l’uomo, rendendolo vulnerabile alla fede: Siamo dei dimenticati da Dio, il nostro cuore non sposa nessuna fede, ma crediamo, questo sì, in quattro cose: che la pampa sia un sacrario, che l’abitante originario fosse molto virile, che i malviventi siano coraggiosi, che i sobborghi siano dolci e generosi.
Giacché l’input è stato dato da un testo poetico per un’analisi della questione filosofica e religiosa della speranza, si ricorda la poesia La speranza è una strana invenzione (J1392) di E. Dickinson, che definisce, così come sanno fare i poeti, con candore e senza orpelli, la speranza. D’altronde il filosofo ha in comune con il poeta il piacere della meraviglia e sa accostarsi ad un incanto.

La speranza è una strana invenzione –
un brevetto del cuore
il cui moto è continuo
ma instancabile –

elettrico e accessorio
di cui non si sa niente –
ma il suo impulso possente
rafforza ogni valore –

(Tutte le poesie, Mondadori, I Meridiani Collezione, 1997, p. 1369)

3. I difetti contrari alla speranza
I peccati opposti alla speranza sono due: disperazione e presunzione, che si manifestano in assenza di salute dell’anima, secondo l’assunto della religione cristiana. L’uomo che in principio si affida alla speranza e vede vanificare nel tempo le aspettative, non deve cadere nella disperazione. Un uomo che non deve mai smettere di credere nella speranza; un super uomo che deve fortificare lo spirito, ma non è l’uomo ipotizzato quindi da Nietzsche, che deve liberarsi da tutte le strutture metafisiche di una logica di dominio. La speranza dei cristiani opera almeno nelle intenzioni sicurezza e fiducia, anche se in realtà perpetua l’insicurezza in vari modi, considerato che ciò che la muove è la volontà. Succede che l’uomo nell’esercitare il proprio diritto alla speranza, non si pone nessun freno nell’illusione di poter concretizzare il desiderio, divenendo in tal modo artefice di una condizione – a tempo determinato – che nell’immediato è conforto, salvezza, ricompensa; ma anche vittima di un inganno, allorquando le aspettative falliscono miseramente. In questo ultimo caso poi l’uomo deve rimboccarsi le maniche e accettare la realtà con coraggio, attrezzandosi al meglio per imporsi soluzioni immediate che possano assolvere al compito di traghettare il presente verso il futuro. La speranza è una sorta di zona franca, dove la sosta è consentita a condizione che non si abusi della permanenza.

4. La speranza dei cinici
I cinici sostengono che la propensione umana a sognare, ad abbandonarsi e ad aggrapparsi a vane speranze a dispetto di evidenze contrarie, è come consegnarsi all’illusione.
Si può a sostegno dei cinici formulare alcune considerazioni; per quanto concerne i credenti la questione si riduce a un mera adesione alla fede senza condizioni né tentennamenti, come già è stato dimostrato nel paragrafo precedente.
La speranza germoglia nei deboli, nei corpi non temprati dal coraggio; in coloro che non avendo ancora sviluppato la consapevolezza dell’essere si lasciano andare nel terreno paludoso della paura e da qui muovono passi di illusioni. È lo scudo degli ambiziosi che, consapevoli di non farcela con le proprie capacità, non indugiano a servirsene a sproposito, vivendo nella vanità e non accettando l’idea che un giorno non saranno niente; poiché l’oblio è il loro incubo di ogni istante e diventano aggressivi, astiosi. Hanno paura della morte. La malattia li angoscia. L’insuccesso rappresenta la peggiore delle sofferenze. La povertà li costringe a una condotta di vita sotto pressione che brucia in fretta. Inaridiscono precocemente e saziano il loro pensiero di irragionevoli motivazioni contrarie alle loro aspettative. Non hanno pazienza, sono come i chicchi di caffè del Belli che spesso cambiano posizione per ritardare la macinazione. Non hanno coraggio, condizione fondamentale per non ricorrere alla speranza. Il coraggio è virtù e ne è dotato solo colui che saprà affrontare non solo la fine di tutte le cose ma anche l’inizio delle stesse, senza l’ausilio della speranza che ne inficia la forza. Il coraggioso è puro e forte, non mira al potere né lo raggiunge per l’effetto combinatorio dell’astuzia e del delirio. Non perde tempo a recitare noiose litanie di speranza: agisce contando su se stesso e nel caso di insuccesso ripensa l’impresa e si accresce di ulteriore passione, non accusa gli altri, valuta con attenzione le cause che lo hanno determinato; ci riprova con fierezza. Ma soprattutto compie un passo importante, raggiunge il traguardo della conoscenza di se stesso.
Se Dio ha potuto affermare di essere , l’uomo, al contrario, potrebbe definirsi . È proprio questa mancanza, questo deficit di esistenza, risvegliando per reazione la sua tracotanza, lo incita alla sfida o alla ferocia. Avendo disertato le sue origini, barattato l’eternità con il divenire, maltrattato la vita proiettando in essa la propria giovane demenza, egli emerge dall’anonimato tramite un susseguirsi di rinnegamenti che fanno di lui il grande transfuga dell’essere (E.M. Cioran, La caduta nel tempo, Biblioteca Adelphi 307, 2009, p. 18).
Cioran nel suo assunto fa esplodere il coraggio dell’uomo di definirsi colui che non è, in contrapposizione al colui che è, rendendo in questo modo comprensibile allo stesso uomo la consapevolezza di una condizione sfavorevole nei confronti della divinità, per cui egli deve per reazione tirare fuori la propria tracotanza anche attraverso il sapere, che potrebbe essere interpretata da Dio come un attentato alla sua onniscienza, un peccato o anche un’indiscrezione nei confronti dell’architettura della sua creazione, ma che conduce alla consapevolezza di inferiorità di cui l’uomo è “vittima” e di conseguenza esplica il bisogno di attrezzare la ragione per sopperire alle deficienze. Non c’è dunque traccia di speranza, bensì di forza della ragione che nell’incertezza del divenire fluisce senza inciampi di false credenze e senza l’obbligo di un adempimento “scaramantico” dettato dalla paura di un accadimento non gradito.

5. Conclusioni
Non esistono leggi che regolano la speranza, né sacerdoti che la officiano, né un sentimento valido che possa sostenerla sino in fondo, né religioni che la contemplino seriamente.
La speranza è illusione, desiderio, bisogno, domanda, attesa, proiezione, fiducia, aspettativa; ha certamente a che fare con il futuro: è direttamente proporzionale ad esso, inversamente proporzionale al presente.
Direttamente proporzionale al futuro in quanto esprime la continuità di cose possedute oppure di cose da ottenere. Inversamente proporzionale perché già nel presente, in molti casi, materializza la sua inefficacia.
Speranza come dire inganno. È convinzione che Qualcuno possa pensare alle cose degli uomini per migliorarne la qualità e la realizzazione delle stesse. La speranza è acqua che non disseta, terra che non dà frutti, nido di bambagia per deboli, occhi sigillati, pena infinita, sentenza del dolore, commercio di reliquie, un sogno ad occhi aperti (Aristotele).
Il testo di Gioacchino Belli da cui si è partiti per muovere passi di riflessione indica lo stato dei fatti della vita che inevitabilmente conducono alla conclusione di ogni inizio che si concretizza con il divenire di un altro evento da considerare principio d’indeterminazione.
E muovendosi ognuno, piano, o forte, / Senza capire calano a fondo / Per cascare nella gola della morte.

3 responses to “«Er caffettiere filosofo»

  1. Complimenti!
    Unica osservazione:
    più che parafrasare: vanno tutti quanti verso (lo stesso) destino. (Con ‘lo stesso’ nel senso che tutti hanno quel destino)
    Andrei a parafrasare: vanno tutti quanti verso un unico destino. L’obiettivo è dare maggiore forza a quel ‘un’ del Belli, inteso alla latina ‘Unus’ (uno solo).
    Con maggiore tragicità, il destino è solo uno.
    F.C.

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