Kierkegaard, Sorrentino e il cinema scandinavo

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KierkegaardPoche correnti di pensiero come l’Esistenzialismo sono state capaci di influenzare in modo così profondo e originale l’immaginario cinematografico. A riprova di questo produttivo rapporto, se molti critici continuano a citare la celebre prefazione del libro di Stanley Cavell The World Viewed: Reflections on the Ontology of Film (1979), in cui l’autore, ispirandosi a I giorni del cielo (Days of Heaven, 1978) e più in generale alla produzione di Terrence Malick, ha legato il pensiero di Martin Heidegger alla settima arte (la radiosità formale del film del regista statunitense è stata infatti avvicinata alla riflessione del filosofo tedesco sulla relazione tra Essere ed esseri, sul radioso mostrarsi delle cose in una luminosa apparenza), non si contano letteralmente gli studiosi che, da sempre, ricordano come Søren Kierkegaard (1813 – 1855) abbia fornito spunti di riflessione e tematiche al cinema scandinavo (e non solo). Nel filosofo, teologo e scrittore di Copenaghen noto per i suoi improbabili pseudonimi (ad esempio Victor Eremita, Johannes de Silentio, Vigilius Haufniensis, Nicolaus Notabene, Hilarius il Rilegatore), il quale ha sempre interessato di più i filosofi (Lev Šestov, Theodor Adorno) e gli psicanalisti (Jacques Lacan) piuttosto che i sacerdoti e i teologi, vi è infatti l’esercizio di un modo nuovo di far filosofia (peraltro sviluppato con una scrittura quasi cinematografica), rigorosamente fenomenologico e critico, in linea con quelle esperienze culturali materializzatesi all’indomani del tramonto dell’illuminismo e dell’idealismo.

Il periodo storico nel quale Kierkegaard ha vissuto e operato era, infatti, come lui stesso ebbe a definirlo, un’epoca di dissoluzione in cui emergeva in tutta la sua urgenza l’assenza di un principio creatore capace di stabilire valori e norme universali, in cui già germinava quella crisi dei valori del mondo borghese e liberale, delle sue ambizioni intellettuali e delle sue istituzioni, le cui ultime trasformazioni investono la nostra stessa esistenza quotidiana. In questo stato di cose, Kierkegaard riteneva che fosse possibile superare l’angoscia derivante da questa realtà, e quindi di pervenire a Dio, all’Assoluto, attraverso un percorso individuale, intimo, sofferto: un percorso solipsistico come quello di Abramo, autentico «cavaliere della fede». Nel senso che la pulsione spirituale del patriarca, così irrazionale da oscillare tra gli abissi disumani della crudeltà e le altezze transumane della sublimità mistica, simbolizza in maniera perfetta la situazione esistenziale dell’uomo «la sua libertà, cioè la sua possibilità di scegliere e di perdere il suo rapporto con Dio»1.

Tale problematica ha ispirato grandi capolavori della settima arte quali Il settimo sigillo (Det sjunde inseglet, 1957) e la nota “Trilogia del Silenzio di Dio” (Come in uno specchio [Såsom i en spegel, 1961], Luci d’inverno [Nattvardsgästerna, 1963] e Il silenzio [Tystnaden, 1963]) di Ingmar Bergman, Ordet – La Parola (Ordet, 1955) e Gertrud (1964) di Carl Theodor Dreyer, Le onde del destino (Breaking the Waves, 1996) di Lars von Trier, opere in cui riecheggia l’idea di Kierkegaard della fede intesa come rischio, azzardo, terapia2 (nonché la modalità cinematografica con cui l’ha espressa3); pellicole in cui coloro che decidono di rinunciare a Dio sprofondano nella più cupa disperazione (si pensi a personaggi come Karin, Tomas, Ester protagonisti della citata trilogia e particolarmente al finale di Luci d’inverno, in cui Marta, unica spettatrice della messa celebrata da Tomas in una chiesa vuota afferma «Ah se potessi credere in una qualunque cosa; se solo potessimo credere!»). Influenzati dal celebre filosofo, anche altri autori “nordici” come Victor Sjöström, Mauritz Stiller, Gabriel Axel o Nicolas Winding Refn, nuovo enfant sauvage del cinema danese, hanno creato dei personaggi che constatando ogni giorno la caducità e la contraddittorietà dei loro riferimenti, conducono le loro vite nella convinzione che non vi sia alcuna verità assoluta (in senso hegeliano), nessuna ragione da esibire. Soprattutto, se pensiamo ad esempio ai piccoli criminali Frank, Tonny e Milo protagonisti della trilogia refniana di The Pusher, quasi incapaci di operare un qualsiasi cambiamento nonostante un fallimento esistenziale di cui acquisiscono una sempre maggiore consapevolezza (quindi perfettamente collocati nel salto della vita che, sulla scia degli stadi esistenziali della filosofia kierkegaardiana, va dalla fase estetica a quella etica), costoro mostrano come l’inquietante «modernità senza illusioni» in cui siamo immersi coincida in buona parte con la demolizione di qualsiasi superiore principio spirituale, con un indurimento materialistico che annichilisce.

La grande bellezza

Persino alcune pellicole di cineasti dallo stile comico-grottesco come l’americano Woody Allen o l’italiano Paolo Sorrentino, sembrano essere state realizzate a partire da influssi kierkegaardiani: sia la borghesia del primo che tende a ridurre le relazioni sentimentali a una dimensione quasi esclusivamente estetica (benestanti manager, docenti universitari, artisti, poeti e scrittori, ossessionati dalla brevità della vita, consumano, spesso con la medesima disinvoltura, realtà gradevoli ma dissimili come il sesso, il cibo, la musica e l’arte), che quella rappresentata dal cineasta campano ne La grande bellezza (2013), la quale, orgogliosa della propria chiusura e abiezione da «ultimo uomo» si raduna in ville e terrazze romane alla ricerca del lusso più sfrenato e della libido più estrema, si muovono (si dibattono?) in modo prevedibile4 in un orizzonte bloccato, evocando quella nostalgia della verità cristiana5 di cui parla il pensatore danese.

Sempre a proposito de La grande bellezza (tematicamente assimilabile a La Dolce Vita di Federico Fellini), se si analizza in profondità la lunga odissea del giornalista Geppino “Jep” Gambardella (Toni Servillo), caratterizzata appunto da squallide e volgari feste mondane, dalla decisione di entrare definitivamente nel ruolo sociale del middle-class senza destino per esorcizzare quel sentimento di angoscia («Siamo tutti sull’orlo della disperazione» afferma ad un certo punto Jep), ben simbolizzato dai personaggi della defunta Elisa De Santis, primo e unico amore del protagonista, e del suo triste vedovo Alfredo, abbandonato alle sorti di un lutto più lacrimato che sofferto (l’akmè della pellicola è invece rappresentata dal personaggio della Santa, la quale non concedendo interviste e vivendo in modo assai spartano ricorda come la liberazione dell’uomo dalla schiavitù degli istinti primitivi e delle pulsioni indotte possa concretizzarsi solo amando il proprio dolore, unica pacificazione possibile per chi si trova gettato cristianamente nel mondo), si potrebbe addirittura affermare che in pochi altri film pare ergersi in modo così chiaro l’esoscheletro della filosofia esistenzialista di Kierkegaard.

Il quale, per la semplicità delle espressioni formali, per la ricchezza delle suggestioni religiose ed esistenziali che è stato in grado di diffondere con dovizia di particolari e, soprattutto, per idee e pensieri filosofici che vengono personificati in modo che compaiono e si muovono come degli individui in azione (in ciò simile a Dostoevskij), ha ispirato come pochi altri intellettuali una settima arte che sin dalle sue origini si è proposta di trattare nella maniera più originale possibile un antico, decisivo tema: l’esistere.

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