«La mite»

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Amate, ma state attenti a ciò che amate.
Agostino, En. in ps. 31, 11, 5

Nel suo romanzo, Fëdor Dostoevskij illustra analiticamente la psicologia del protagonista: un uomo permaloso e superbo, nel quale traspare l’amore e l’impossibilità di rivelare i propri sentimenti, ed è qui che avviene il confronto tra amore e libertà e tra bene e male. Una storia dove i pensieri si svolgono nell’interiorità dell’uomo, intrisa di orgoglio e di ribellione nella tragica affermazione di un proprio io, di una personalità più che malata — ferita, inadeguata, chiusa in una profonda solitudine e in un grande sgomento che sfocia nell’incapacità di dare spazio all’altro.

«La mite» di Dostoevskij
Il protagonista ha avuto una giovinezza difficoltosa, ha ricevuto notevoli umiliazioni e mortificazioni che lo hanno reso duro e ostile rispetto alla vita e agli altri, soprattutto con la sua giovane moglie. Il matrimonio gli è stato convenevole, nei confronti della moglie ha manifestato continui atteggiamenti di autorevolezza, di imposizione della propria volontà fino ad averne un disprezzo totale, nascosto dietro un’immagine amorevole e compassionevole. La Mite è ormai una donna lacerata dal dolore e dalla sofferenza che viene pervasa dall’oblio. Tormentata nella sua solitudine, si rinchiude in un profondo silenzio fino a desiderare e ad avere un altro amore che possa alleviare la sua condizione. Nonostante le false attenzioni dell’uomo (dominato da un profondo egoismo), lei non riesce più ad amarlo. Il sopraggiungere in lei di una grave malattia suscita un’improvvisa passione nel marito, che le manifesta il proprio amore: desidera di essere perdonato e le chiede di dare nuovo inizio al rapporto. Lo sgomento di lei è troppo grande: neanche con un immenso sforzo riuscirebbe a risvegliare i sentimenti verso di lui. In preda alla follia, nel ricordo degli anni vissuti nel tormento, si suicida buttandosi dalla finestra. Afflitto, egli sente di esserne stato la causa e di averla persa per sempre: si chiede come potrà sopportare questa profonda solitudine, ascoltando interminabilmente il tempo passare.

«Desiderava amarmi, cercava amarmi»
Spostiamo ora l’attenzione su come Dostoevskij descrive l’ingresso della Mite nella vita dell’uomo. Se si condivide l’ipotesi che questo racconto ha il compito di illustrare un cammino di conversione che non ha successo, il ruolo della protagonista femminile dovrebbe essere quello di esprimere come si rende presente nella vita l’appello dell’iniziativa di Dio al cambiamento di vita. La giovane donna entra nella vita del futuro marito in maniera inaspettata e discreta: è una delle tante clienti del banco dei pegni, certamente tra quelle di più umile condizione. Riconosciuta dall’uomo come «buona e mite», si presenta docile, e pure mai remissiva, ella è innanzitutto sincera, non ha nulla da nascondere e si consegna con grande semplicità a chi gli propone di sposarla. È importante osservare che tutto questo non impedisce quelle reazioni intese dal marito come manifestazioni di orgoglio e ribellione. A riguardo di tutti e due gli atteggiamenti si può osservare che essi emergono ogni qualvolta il marito tende a ricondurre la Mite alla sua misura e al suo progetto, sia per mezzo di un’irritante accondiscendenza sia attraverso l’affermazione della propria forza, della pretesa di possedere il cuore della donna. Nel complesso emerge, contemporaneamente, la nota di una certa indomabilità della giovane: ella, sebbene accolga con semplicità la proposta di matrimonio e si disponga a viverlo secondo le coordinate che il marito stabilisce, sta di fronte all’uomo riaffermando il profilo della propria irriducibilità davanti alle sue pretese. Per due volte Dostoevskij mette in bocca all’io-narrante l’espressione «severa meraviglia» per indicare lo sguardo con il quale si sente guardato dalla Mite. Lo sguardo severo e meravigliato che il testo evoca rappresenta la misura della distanza tra i due, come se la donna volesse comunicare la dolorosa consapevolezza dell’impossibile riuscita del loro incontro. È uno dei passaggi più drammaticamente rivelativi dell’intero racconto, nel quale la Mite fa emergere l’intima contraddizione presente nel marito: è infatti ebbrezza ad impossessarsi dell’uomo, un’inattesa fiamma di passione, arrivata forse troppo tardi per mutare il corso degli eventi. Non è casuale che successivamente, ritornando a quel particolare sguardo, egli lo consideri come segno di disprezzo e non gli manca la lucidità per riconoscere l’esito fallimentare di tutta la vicenda. Questo tratto turba e scuote l’uomo nelle sue «certezze»: la novità dell’azione della grazia divina non riposa soltanto nelle forme inattese con le quali essa viene incontro alla sua esistenza, ma chiede che il suo primato venga costantemente preservato in tutto il cammino della libertà («Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie», Isaia 55, 8). L’incapacità a misurarsi con la modalità con cui Dio agisce nell’uomo si converte nell’addebitare a Dio stesso la responsabilità del fallimento del cammino di conversione, come il marito dichiara la colpevolezza della Mite per l’esito tragico del loro matrimonio. Tale conclusione non trova nessuna spiegazione logica nella narrazione. Dostoevskij guarda all’esperienza dell’amore umano come polarizzata tra due abissi: quello della sensualità e quello della compassione; non è difficile convenire che nella Mite l’amore, alla fine, sia concretamente assente. Nel protagonista maschile, il proclamare più volte la distanza da qualunque slancio particolarmente denso di sensualità, la ripetuta precisazione di non essersi in diverse occasioni accostato da marito alla giovane moglie, se è vero che lo protegge da ogni accusa di essere dominato dalla lussuria, certamente però non lo avvicina a nulla che possa essere assimilato a sentimenti di reale compassione per la donna. L’uomo sembra collocato in una strana «terra di mezzo amorosa», una tiepidezza affettiva che ne fa una persona estranea all’amore in quanto tale. L’opacità della sua affettività si presenta come cifra della mediocrità della sua libertà, che diventa l’elemento decisivo che illustra il fallimento di un eventuale cammino di conversione. È una libertà che non si lascia provocare dal versante tragico dell’esistenza, che affiora inesorabilmente quando l’uomo si lascia ferire dalla passione amorosa (amore come possesso, egoismo, forza, vantaggio). In questa prospettiva si può convenire che l’autore voglia segnalare come un’esistenza tiepida, né calda, né fredda (cfr. Ap 3, 15), si trovi in una posizione che neppure la forza vittoriosa della grazia divina può condurre alla salvezza, poiché è marcata da un profondo orgoglio e da una radicale indifferenza. L’agire del protagonista maschile non sta nella qualità della sua moralità, ma nella capacità o meno di «umiltà», ossia di guardare e abbracciare fino in fondo l’abisso della propria libertà. Al marito della Mite ciò è impedito da un atteggiamento che, anche nel dolore lacerante provocato dal suicidio della moglie, non riesce a scuotere da sé l’ultimo pregiudizio di essere in credito dalla vita: la tragica casualità della morte, negando quanto potrebbe riportare in attivo il bilancio della sua esistenza. Il protagonista esulta per aver vinto sulla moglie che avrebbe potuto ucciderlo; sicuro di sé – fino quasi all’ostentazione – si spinge a lasciare la rivoltella sul tavolo anche la notte successiva.

«Sarebbe stato proprio come chiederle la carità»
Il riflesso di questo atteggiamento si manifesta nel modo in cui egli si rapporta alla Mite, ormai diventata sua moglie: ogni trasporto ed entusiasmo viene sopito, raggelato in un enigmatico silenzio. Si colloca qui l’orgogliosa pretesa di essere amato e pienamente accolto, senza nulla condividere, nulla donare e senza donarsi all’altro: «sarebbe stato proprio come chiederle la carità…». L’amore in Dostoevskij si presenta secondo un triplice registro: passione, che nella sua espressione più bassa diventa lussuria, nostalgia di un irrealizzabile completarsi di un ‘io’ in un ‘tu’, e infine ardente compassione. La modalità con la quale questo marito pretende di fissare i termini della propria relazione affettiva con la giovane moglie difficilmente può essere integrata in una di queste tre possibilità. Emerge piuttosto la figura di un uomo che di fronte a un evento che lo ha percosso (il loro incontro), evento non richiesto e gratuitamente ricevuto, nega a sé stesso la possibilità di riscoprire un atteggiamento di povertà e attesa: «chiedere la carità», che significherebbe abdicare a quella posizione di forza cui tutto è dovuto, perché potenzialmente disponibile e posseduto. La solitudine, l’umiliazione di cui la sua vita è stata fino allora intessuta, lo spinge a credere di «avere diritto» alla felicità piena, così come la immagina e la pretende: se tutto è dovuto, nulla può essere implorato. E irrompe il silenzio.
In questo clima, Dostoevskij restituisce al lettore il resoconto del percorso che condurrà la giovane al suicidio. C’è nelle sue parole una presa di posizione fin dal principio: «io ho capito tutto», una paradossale apologia dell’io-errante. Una pretesa dell’uomo che ha sposato la sua donna ed esige quanto gli sia dovuto. Questa è la chiave di lettura degli episodi cardine della convivenza tra i due: la ribellione della Mite e l’adulterio nel quale il marito presume di sorprenderla, episodi dai quali egli esce segnato da un’esperienza di acuta umiliazione. Dostoevskij porta a termine il tratteggio del profilo dei personaggi: il seguito della narrazione sviluppa drammaticamente il loro incontro-scontro, sigillando con il suicidio della Mite l’inevitabile epilogo.
C’è un momento in cui il marito vuole rivendicare il presunto tradimento e punta la pistola alla tempia della moglie. Si ha qui un paradossale ribaltamento di prospettiva: l’arma portata con sé viene lasciata sul tavolo a disposizione della donna, con un inconfondibile invito ad armare la sua mano, come a voler sancire definitivamente che «è lei la colpevole». L’inaspettato ritirarsi della moglie e lo scampato pericolo portano l’uomo alla solida riconferma della propria forza. Di nuovo il marito si mostra incapace di ospitare nella sua vita la presenza della Mite: è solo capace di affermare il proprio ‘Io’. Tutto si consuma con il tragico gesto suicida della Mite che si lancia dalla finestra tenendo tra le mani l’icona della Madonna. A tragedia compiutasi, le domande che si accalcano nella mente del marito non svelano le ragioni del gesto che la suicida ha celato nel silenzio insuperabile della morte: paura dell’amore, incapacità ad accettarlo, disprezzo dell’uomo… Tutto potrebbe essere come non essere, in una traiettoria in cui, ancora una volta, ogni cosa pare addebitata alla colpevolezza della donna. A conclusione della drammatica vicenda, è interessante osservare come, a questo punto, i pensieri del protagonista si intrecciano, facendo appello ad un comune «buon senso», in alternativa alla tragedia consumatasi: «Oh, avremmo anche potuto intenderci. Nel corso dell’inverno ci eravamo soltanto disabituati l’uno all’altro, ma era forse impossibile abituarsi di nuovo? Perché, non avremmo potuto riavvicinarci e ricominciare una nuova vita? Io sono generoso, lei anche lo era: ecco qui il punto di incontro! Ancora qualche parola, ancora due giorni, non di più e lei avrebbe capito tutto». Ancora una volta emerge, con un velo di ipocrisia, l’incapacità di quest’uomo a dar spazio all’altro, giungendo alla tragica conclusione del suo stato: «egli resta in completa solitudine con sé stesso e in una irreparabile solitudine. Egli non riconosce un giudice supremo al di sopra di sé. Egli generalizza la sua solitudine, la universalizza come solitudine ultima di tutto il genere umano». Nell’epilogo il marito, ora vedovo, confessa quanto sia ben consapevole di capire tutto della tragedia; per questa ragione si riappropria della sua invincibile «solitudine» e la giustifica, facendone una cifra universale e univoca dell’intera umanità: «Gli uomini sono soli sulla terra, ecco la sciagura! Tutto è morto e dappertutto stanno cadaveri. Soltanto uomini soli, e intorno a loro regna il silenzio: ecco la terra!».
Uomini, amatevi reciprocamente — chi l’ha detto? Di chi è questo comandamento? Da qui emerge l’improbabile ignoranza del comandamento evangelico dell’amore, anacronistica e fantastica in un uomo russo del XIX secolo che disloca la narrazione fuori dall’orizzonte della cronaca realistica. Sebbene non si possa descriverlo come un uomo ateo, giacché pur proclamandone l’inutilità conosce l’atteggiamento della preghiera, la sua conclamata distanza dal Cristianesimo denuncia l’impossibilità da parte sua di stabilire alcuna positiva inclinazione di apertura al trascendente, a motivo dell’isolamento prodotto dall’autoaffermazione della propria libertà. Quanto ha reso l’uomo del tutto incapace di accogliere nella sua vita la presenza della Mite, gli impedisce di intraprendere un percorso che lo accompagni ad uscire da sé, a trapassare l’orizzonte della propria finitudine. Non v’è niente nella libertà umana che la predisponga “naturalmente” e ottimisticamente all’incontro con Dio.
Come osserva N. Berdjaev (ne La concezione di Dostoevskij, p. 24): «Nell’uomo e attraverso l’uomo si raggiunge Dio. Per questo si può considerare Dostoevskij come immanentista nel più profondo senso della parola. Questo è il cammino della libertà che egli scopre, nella profondità dell’uomo, nel suo cammino doloroso, nella libertà». Si affaccia il tema della compassione, polo positivo del registro dell’amore: amore che è compassione e al tempo stesso linguaggio dell’amore; e non tirarsi indietro da quel linguaggio e da quel sentimento è la massima espressione della libertà umana. Tale collocazione descrive l’ambito elettivo nel quale si svolge il cammino dell’uomo alla ricerca del proprio volto e del proprio fine. In questo contesto emerge il suggerimento a riconoscere un’intima relazione tra il modo con cui l’uomo si rapporta a sé stesso e al trascendente. Emerge, infine, la provocazione a tenere insieme, in una maniera certamente paradossale, due assoluti: l’irriducibilità della libertà umana e il libero darsi della salvezza cristiana, come evento, nell’Uomo-Dio.
Il fascino che si sprigiona dalla produzione letteraria dello scrittore russo invita il lettore a un paragone critico che, stimolato dalla sua sapienza artistica, lo spinge a condividere la certezza del principe Myskin: «la bellezza salverà il mondo», non per un’ingenua enfasi estetizzante, ma per la capacità profetica di Dostoevskij di renderlo appassionato al volto misterioso del suo destino.

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