Walter Benjamin e il fine politico dell’arte

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Je ne sais si jamais philosophe a rêvé d’une société
pour la distribution de Réalité Sensible à domicile.
Paul Valéry, La conquête de l’ubiquité1

Tu nella vita comandi fino a quando
hai stretto in mano il tuo telecomando
Renzo Arbore, Sì, la vita è tutta un quiz2

Nel celebre L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Benjamin intraprende una ridefinizione della posizione dell’arte nelle società di massa prima della Seconda Guerra Mondiale. Vi erano specifiche condizioni – il primo dopoguerra, l’ascesa dei totalitarismi, nuove forme culturali (ad esempio la psicoanalisi), – che plasmarono nel profondo i modi di ricezione dei contenuti degli individui e, di conseguenza, le precedenti espressioni artistiche. Inoltre, egli sottolineò connessioni e influenze tra i nuovi mezzi di riproducibilità tecnica e le emergenti manifestazioni artistiche. I ruoli della fotografia e del cinema apparivano fondamentali.
Si può affermare che il maggior contributo di Benjamin sia stato quello di calare l’opera d’arte in una dimensione storica totale: «L’autenticità di una cosa è la quintessenza di tutto ciò che, fin dall’origine di essa, può venir tramandato, dalla sua durata materiale alla sua virtù di testimonianza storica».3 Per mezzo di tale autenticità, in quanto unico fenomeno di distanza, giunge a delineare il concetto di “aura”, come ciò che «si sottrae alla riproducibilità tecnica – e naturalmente non di quella tecnica soltanto».4

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Tuttavia, con l’avvento della società di massa e dello sviluppo tecnologico, la relazione società-ricezione-arte mutò, per cui essa culminò in talune forme come fotografia e cinema, dove parlare di autenticità risulta privo di significato poiché è sempre possibile riprodurre uno scatto dal suo negativo o proiettare un filmato dalla sua pellicola.
Per via di queste caratteristiche intrinseche, esse sono aperte a una particolare fruizione per le masse: un vasto pubblico può partecipare alla visione di un film, la stessa foto può arrivare alle mani di milioni di persone differenti. Ecco perché i regimi, che sulle masse furono fondati, le sfruttarono come strumento di propaganda:

«Fiat ars – pereat mundus», dice il fascismo, e, come ammette Marinetti, si aspetta dalla guerra il soddisfacimento artistico della percezione sensoriale modificata dalla tecnica. È questo, evidentemente, il compimento dell’arte per l’arte. L’umanità, che in Omero era uno spettacolo per gli dèi dell’Olimpo, ora lo è diventata per se stessa. La sua autoestraniazione ha raggiunto un grado che le permette di vivere il proprio annientamento come un godimento estetico di prim’ordine. Questo è il senso dell’estetizzazione della politica che il fascismo persegue. Il comunismo gli risponde con la politicizzazione dell’arte.5

A questo punto si deve introdurre la soluzione di Benjamin: nelle sue nuove caratteristiche l’arte ha conseguito un enorme potenziale, tale che permette di comunicare un “solo” messaggio alle masse; per raggiungere, quindi, la loro emancipazione, essa deve assurgere allo scopo politico. Il mondo però non rimase il medesimo dopo la Seconda Guerra Mondiale. Il ruolo del capitalismo, rinnovato dall’approccio keynesiano, nella formazione delle figure culturali all’interno delle democrazie neo-liberali, è sottolineato con forza nei successivi sviluppi della Scuola di Francoforte. La formula, forse, è semplice: nelle società postmoderne il capitalismo ha bisogno di nuovi campi d’azione e sviluppo per portarsi avanti. All’epoca, la nascita del cosiddetto settore terziario (quello dei servizi) fu totalmente basata su virtualità, informazione, comunicazione e tecnologia computazionale. Si iniziarono a pronunciare termini quali “globalizzazione”, “media”, “industria della cultura”, “produzione dei consumi”, “finanza”. La cultura di massa, in quanto insieme di nuovi beni di consumo culturali destinati al soddisfacimento di falsi bisogni e dei desideri delle persone inoculati da produttori e pubblicità (l’“industria”), ne fu il risultato.
Non si intende avallare un’apologia di alcune posizioni della Scuola di Francoforte, ormai superate da altre,6 o entrare nel merito delle questioni morali legate ad esse; si tratta piuttosto di vedere come questi processi si svilupparono e se rientrano nella cornice teorica di Benjamin. C’è stato un cambio di paradigma: «La questione estetica moderna non è: “Che cos’è bello?”, bensì: “Che cos’è l’arte (e la letteratura)?”»;7 adesso ci si chiede: “Quale posto per l’arte? E quale per le masse?”.
Per Lyotard, il realismo artistico rappresenta una funzione del (neo)capitalismo nonché una delle caratteristiche (molteplici e contraddittorie) del postmodernismo. La realtà, nell’arte, assolve il compito di dare stabilità alla gente preservandola dai dubbi8 e di conseguenza rappresenta una necessità anche per i fini interni del capitalismo. La sua manifestazione fu quella del potpourri, il gigantesco ammontare nella produzione di contenuti audio-visivi, così enorme da poter essere definito banale – a dispetto del contenuto stesso – e in cui ciascun individuo può trovare il suo luogo:

Quando il potere si chiama il capitale, e non il partito, la soluzione transavanguardista o postmodernista […] si dimostra essere meglio adattabile che la soluzione antimoderna. L’eclettismo è il grado zero della cultura generale contemporanea: si ascolta reggae, si guardano western, si mangia da McDonalds a mezzogiorno e cucina tipica la sera, ci si profuma parigini a Tokyo, ci si veste retrò a Hong Kong, la conoscenza è materia di giochi televisivi. Diventando kitsch, l’arte lusinga il disordine che regna nel “gusto” degli amatori. L’artista, il gallerista, il critico e il pubblico si compiacciono insieme nel “qualsiasi cosa va”, e l’era è quella del rilassamento. Ma questo realismo del “tutto va” è quello del denaro: in assenza di criteri estetici, resta possibile e utile misurare il valore delle opere in base al profitto ch’esse procurano. Tale realismo si accomoda a tutte le tendenze, come il capitale a tutti i “bisogni”, a condizione che tendenze e bisogni abbiano potere d’acquisto. Quanto al gusto, non c’è bisogno d’essere delicati quando si specula o ci si distrae.9

Il passo appena riportato da Lyotard potrebbe essere l’esatta controparte di quello di Benjamin citato più sopra. Esso descrive il nostro tempo. Se, come scrisse Valéry, lo scopo di ogni artista è di avere la sua opera diffusa ovunque,10 queste sono implicazioni e regole da assumersi.
Vi è un certo “pregiudizio della tecnica” a renderla neutrale in rapporto all’uso che le persone ne fanno. Si tratta di un capitale di strumenti crescente giorno per giorno e sempre pronto all’uso. In questo caso, il colosso tecnologico è costituito da tutti quei piccoli dispositivi che permettono a ognuno di avere la propria canzone, il proprio quadro, film ecc. favoriti a portata di mano. Questi sono stati dapprincipio i walkman e adesso sono gli iPod, gli smartphone e i tablet. Si può chiamare questa immediatezza di fruizione con un termine heideggeriano: l’utilizzabile11 − e essa ha portato anche alla creazione, per esempio, di nuovi strumenti musicali elettronici (piccoli pad, console, mixer, tastiere MIDI e così via) e di foto/videocamere non professionali per amatori, le quali contribuiscono a oltrepassare i confini dell’opera d’arte, in quanto poiesi dell’artista, grazie all’emergere della categoria dei “prosumatori” (prosumers).12
Se ora anche le masse generano contenuti web e audiovisivi, sembra ovvio che ne aumenti pure il consumo. Il crescente ammontare della produzione dei consumi anche fuori dal cerchio dell’industria della cultura è divenuto tale che si può parlare di “cannibalismo”. Il cannibalismo è alimentato dalla disponibilità giornaliera dell’utilizzabile, ma d’altra parte è rappresentato anche dalla tipologia degli stessi contenuti trasmessi. Si sta assistendo a un estremismo sia nell’audiovisivo sia, di conseguenza, nell’arte, tale che si può adottare, metaforicamente, questo vocabolo. Circa l’estremismo audiovisivo, alcuni esempi potrebbero essere i reality show, dove la sessualità è quantomai esplicita e addirittura ostentata, i concorrenti bestemmiano e litigano spesso tra loro;13 i talk show, i cui ospiti si comportano allo stesso modo; i programmi TV e le riviste di gossip – tutto senza alcuna censura. Riguardo l’arte, invece, si può iniziare menzionando il Dada e tutte le avanguardie e gli artisti successivi dalla Pop Art alla Body Art sino a oggi. In questi movimenti l’outrage au public, lo scandalo, costituisce la regola.14
Come si pone il cannibalismo nei confronti degli spettatori? La massa non può essere identificata come semplice “audience”: «Qui il fattore chiave è il modo in cui il nuovo ambiente multimediale consente all’audience di servire sia come destinatario che mittente della comunicazione di massa».15 Poiché vi è questa doppia funzione la dicotomia passivo-attivo perde significato e la categoria di audience, come mera massa a ricezione passiva, non può più andare bene. Fenomeni come i prosumers, gli utenti che generano contenuti, e il televoto, suggeriscono un ruolo partecipativo nella comunicazione di massa.
Appare utile sostituire il termine “audience” con “pubblico”. Secondo Warner, il pubblico è uno spazio non-chiuso e auto-organizzato contemporaneamente da e attorno a un discorso, che implica una relazione tra estranei: «Appartenere a un pubblico sembra richiedere almeno una minima partecipazione, anche se è paziente o nozionale, piuttosto che uno stato permanente di cose. Il semplice prestare attenzione può essere sufficiente a renderti un membro».16 Così, il cannibalismo è tale caratteristica del pubblico di incitare sé stesso, una sorta di twiddling, trarre piacere da una costante e sempre più acuta manipolazione dei messaggi estremi trasmessi – vergogna, ridicolezza, guardare persone sofferenti. Il regista Charlie Brooker marca questi concetti in alcuni episodi delle sue short series Black Mirror e Dead Set,17 mentre alcuni critici hanno scritto di analoghe definizioni su 1984 di Orwell.18
Finora si è trovata una collocazione per la massa come pubblico; cosa dire dell’opera d’arte? Quest’ultimo interrogativo troverà risposta dopo aver fatto un breve accenno a come le manifestazioni artistiche vengono trasformate dal fenomeno della partecipazione di massa. In base a quanto esposto fin qui, si può dedurre il profondo legame tra le due parti: ogni artista ha bisogno di un pubblico, e ogni pubblico, per esser tale, deve organizzarsi intorno a un discorso/testo/opera d’arte. Le influenze non si possono evitare. Per quanto riguarda l’ambito dell’arte figurativa, tutto ciò si mostra nel caso della cosiddetta arte partecipata, oppure nei video art, video mapping, performance, o sul palco del Teatro della Crudeltà di Antonine Artaud o del Living Theatre di Julian Beck. Qui troviamo ancora la presenza del cannibalismo.
L’interrogativo postmoderno: “Cosa possiamo dire essere arte (e letteratura)?” deve dunque tener conto delle proprie condizioni interne di immediatezza dell’utilizzabile, pregiudizio della tecnica, massa come pubblico, cannibalismo e capitalizzazione dell’arte. È difficile comprendere il postmodernismo al di fuori del postmodernismo, ma Pasolini può essere d’aiuto nel supportare Benjamin:

Su questi problemi bisogna lavorare, insieme o soli, con competenza o con rabbia, ma bisogna lavorare. Bisogna ideologizzare, bisogna deontologizzare. Le tecniche audiovisive sono gran parte ormai del nostro mondo, ossia del mondo del neocapitalismo tecnico che va avanti, e la cui tendenza è rendere le sue tecniche, appunto, ideologiche e ontologiche; renderle tacite e irrelate; renderle abitudini; renderle forme religiose. Noi siamo degli umanisti laici, o, almeno dei platonici non misologi, dobbiamo batterci, dunque, per demistificare l’«innocenza della tecnica», fino all’ultimo sangue.19

Combattere il pregiudizio della tecnica porta a contrastare altri problemi insiti nella società postmoderna e neocapitalista. In questa lotta l’arte si rivela fondamentale e acquisisce un compito emancipatorio per le masse.
In tale prospettiva, bisogna conferire dignità anche a ciò che viene considerata “arte dal basso”; ponendo l’arte come immanente a sé stessa, autodeterminata, si elude il rischio implicito in un telos assegnato dall’esterno, sfruttabile in qualsiasi caso. Perché nell’opera d’arte ciò che deve essere politico non è il contenuto, bensì il suo fine.

One response to “Walter Benjamin e il fine politico dell’arte

  1. Vorrei aggiungere a questo mio articolo, due link ad esso molto correlati ma di differente natura.
    Il primo (teoretico) è un intervento di Carmelo Bene al programma televisivo Maurizio Costanzo Show: http://www.youtube.com/watch?v=_uCTYDrX5Rw.

    Il secondo è un articolo di Peter Singer pubblicato giusto ieri su “Project Syndacate”. Riguarda proprio l’arte commercializzata nel suo rapporto, però, con l’etica: http://www.project-syndicate.org/commentary/peter-singer-asks-why-collectors-pay-millions-of-dollars-for-artwork-rather-than-using-the-money-to-save-lives#A4x2GkwaqxEZczt6.99.

    Grazie a tutti coloro che seguono.

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