Recensione breve a Stefano Scrima, Esistere forte, collana «I Quaderni di Diogene» Il Giardino dei Pensieri, Bologna 2014.
«Bisogna scegliere: o vivere o raccontare», dice Sartre. Scrima riassume bene: «vivere o scrivere». Come dire: vivere o morire, ma non c’è grande scelta. La vita non è una scelta, come non lo è la morte. A meno che davvero si pensi che il suicidio sia una scelta, o che lo sia mettere al mondo un figlio. La scelta è soltanto qualcosa che sta nel mezzo tra il dire e il fare. E questo mare di scelte è in realtà una pozzanghera di intenzioni. Chiunque può avere intenzione di morire o di mettere al mondo un figlio, l’ennesimo, e dirà di aver fatto una scelta. Ha intenzione, agisce e in sèguito dice di aver scelto. La scelta si riferisce sempre al passato, l’intenzione sempre e solo al futuro: pare che l’azione stia sempre nel mezzo, nel presente.
È chiaro: s’è costretti a vivere, è il presente a imporlo.
Se restiamo all’assunto di Sartre, dunque cosa succede quando scriviamo? Semplicemente sperimentiamo nel presente qualcosa che non appartiene alla vita: ci fermiamo a raccontarla. Sospendiamo il tempo e facciamo del nostro presente un momento eterno. Ci diamo alla morte, insomma. O detto in altro modo: ammazziamo il tempo.
Camus guarda da un altro angolo lo stesso concetto: «la libertà superiore, la libertà di essere, che sola può fondare una verità, non esiste. La morte è là, di fronte, come la sola realtà». Vivere non è un’espressione di libertà, proprio come non lo è morire. Ma dice di più: l’unica realtà è la morte.
Riassumiamo: l’unica realtà si mostra solo quando ammazziamo il tempo. Ammazzato il tempo, ecco la realtà. Dunque delle due l’una: o viviamo il nostro tempo o lo ammazziamo per raccontarlo.
Nonostante tutto, Scrima riesce qui a scorgere «infinite possibilità di essere», laddove invece sembrerebbe esserci solo «realtà», solo morte. È uno dei pregi del volume quello di sentirgli gridare: «esistere forte, altro non conta».
Ma non è finita: c’è ancora Gide. Che guarda alla letteratura, all’arte della scrittura o del morire, come a un «atto gratuito». Eppure, anche qui Scrima riesce a sentire l’«esistere forte», riesce ancora a vedere quanto Gide sia in realtà «impegnato», «adulto», capace di dare lezioni di vita con la propria scrittura. A tratti, un mondo al rovescio. Un rovescio storico, si direbbe, o storicistico, si dovrebbe dire. Ma s’è detto: questo è uno dei pregi del volume. Che ribalta, riformula, restituisce vita a qualcosa di morto. Come a non darsi per vinti.
A mo’ di compendio, un capitolo è dedicato a Nietzsche, punto di intersezione a partire dal quale è possibile rintracciare una delle fonti sorgive dell’esistenzialismo letterario francese; dove a fungere da ‘momenti’ sono in particolare la «fedeltà alla terra» e la «morte di Dio». E in tema di nichilismo, il successivo capitolo è dedicato invece al suicida Albert Caraco. Un altro ancora all’opera letteraria di Sorrentino, il regista italiano.
Il tema del volume di Scrima è in effetti un altro: l’essere «di troppo». E a dispetto di quel che andrebbe detto delle recensioni, pare che non ci sia mai un libro di troppo.