Sitosophia

L’Africa come simbolo delle origini

In tre importanti romanzi di Flaiano, Gide e Conrad, l’Africa, con i suoi abitatori dai costumi più o meno arcaici, assurge principalmente a simbolo dell’umanità delle origini.

Tempo di uccidere, di Ennio Flaiano, ambientato in Etiopia al tempo della sua occupazione da parte dell’Italia fascista, racconta le vicissitudini di un militare italiano che dopo aver avuto un incidente con un autocarro si mette in cammino per tornare alla sua base militare. Nel corso del tragitto si imbatte in un’indigena di nome Mariam, con cui avrà una relazione e che ucciderà per sbaglio, occultandone il cadavere. L’iniziale paura che tale suo misfatto possa venire scoperto si trasforma in delirio, temendo che lo abbiano scoperto. Tutte le persone in cui si imbatte, secondo la sua mente ossessa, fanno finta di non sapere ciò che ha commesso. Insomma, crede che tutti complottino contro di lui. Ciò lo spingerà a tentare degli omicidi, che non andranno in porto in quanto, ingannando sé stesso, fingerà di commetterli. Il suo obbiettivo, da quando ha inizio la sua pazzia, è far ritorno clandestinamente in Italia. Alla fine deciderà di costituirsi. È allora che realizzerà che nessuno ha mai cercato di incastrarlo. Viene anzi completamente scagionato dopo aver raccontato quanto è accaduto.

In questo suo romanzo, Flaiano sembra prendere di mira la mentalità scientifica propria dell’uomo moderno. I mali fisici del suo protagonista, reali (ad esempio il mal di denti) e presunti (crede di aver contratto la lebbra da Mariam), simboleggerebbero il modo di interpretare il male esistenziale e i mali del mondo da parte del suddetto tipo di mentalità. Mariam rappresenterebbe invece l’umanità originaria, per la quale tuttavia sarebbe inesatto parlare di ‘stato di natura’ in quanto, mi sembra, a parere di Flaiano la coscienza (e tutto ciò che da essa deriva) già la caratterizzerebbe. Insomma, l’uomo pre-moderno non sarebbe del tutto buono e non pensante.

Il desolato e soffocante scenario africano in cui è ambientato il romanzo (l’Etiopia è una zona dell’Africa particolarmente brulla) esprimerebbe il modo d’essere, anche allucinato, del suo protagonista. Costui pensa spesso a un’imprecisata donna da lui amata con cui desidera ricongiungersi in Italia, che rappresenterebbe la voglia di evadere dalla sua condizione esistenziale, metaforizzata dal suddetto paesaggio.

Ma veniamo a quelli che a me sembrano i concetti chiave del libro, che in esso vengono spesso chiamati in causa: colpa, speranza e tempo. La moderna mentalità scientifica potrebbe avere per Flaiano un profondo legame con il cristianesimo. Esso è innanzitutto ascetico, ovvero rifiuta il mondo, i suoi principi. L’azione è peccaminosa, in quanto non c’è azione che non sia lesiva dell’Altro. E viene interpretata come realmente lesiva dell’Altro. Il protagonista si sente in colpa per tutto ciò che di criminoso ha commesso (o meglio, crede di aver commesso). Eppure un uomo non può astenersi dal peccare, dall’agire, poiché l’Altro non può rinunciare al fatto di contrariarlo. È costretto, per così dire, ad ‘agire d’anticipo’. Cos’è il moderno progresso se non un tentativo di contrastare interamente l’alterità, di annientarla, per realizzare finalmente in terra un aldilà di eterno riposo? La moderna etica utilitaristica, ad esempio, non è un modo di contenere egoisticamente l’azione per noi nefasta degli altri, che dunque costituiranno per noi un problema?

La speranza (vana per più ragioni) del solipsistico uomo moderno consiste nel prodigarsi per il progresso affinché tale scopo sia completamente raggiunto. Quando non si dia addirittura a sopraffare l’Altro con lo scopo di raggiungere un fine identico attraverso, ad esempio, delle imperialistiche guerre di conquista.

Nell’uomo moderno è molto marcato il senso della temporalità, in misura ancor maggiore rispetto al tipo d’uomo che storicamente lo precede. In generale, un aborrito presente di privazione lo spinge a concepire un futuro in cui detta privazione avrà finalmente termine.

L’uomo moderno è un uomo malato. Perde contatto con la realtà e per due ordini di motivi. Da un lato vede negli altri un problema, quando invece non solo non hanno nulla (o poco) contro di lui, ma addirittura non ne può prescindere per vivere una vita sensata e piena (la gratuità dell’omicidio di Mariam esprimerebbe l’insensatezza della sua condizione esistenziale). Dal momento che dall’amore dell’Altro nei nostri confronti dipende ogni aspetto della nostra felicità, noi non possiamo non tenere amorevolmente all’Altro.

Ma l’uomo è anche attivo. La sua coscienza, ad esempio, già da sempre crea delle preferenze e con esse dei deprezzamenti. Faccio un esempio. La donna che amo potrebbe volermi bene solo fraternamente e preferire a me un altro uomo per una relazione amorosa. Di ciò ne soffrirò. Ma un uomo sano e forte non teme tali colpi. La paura di soffrire non lo caratterizza e la sofferenza, quando sopraggiunge, l’accetta (non badandovi o dandovi poco peso). Non ne è ferito. È un uomo integro e, potremmo dire, dotato di maturità. Ma a sua volta non avrà paura di ferire, ovvero di agire, proprio in quanto non lederà nulla. L’azione per Flaiano non è peccaminosa proprio in quanto irreale, in quanto cioè non esisterebbe. Una vita pienamente vissuta, partecipata, viene anche a dipendere dal viverla agendo in essa.

La storia de L’immoralista di André Gide può venire estremamente sintetizzata nel viaggio che Michel, il protagonista del romanzo, compie assieme alla moglie Marceline verso la Tunisia, luogo in cui la malattia di costui proromperà, per guarire man mano che i due faranno ritorno in Francia.

I più miti clima e paesaggio dell’Italia meridionale, rispetto alla più assolata e selvaggia Tunisia, saranno ad esempio i luoghi della convalescenza di Michel, che tornato a casa si riavrà completamente.

Al di là di ciò che accade nel mezzo del romanzo, la sua parte conclusiva consisterà nel reintraprendere pressappoco lo stesso tragitto del suddetto viaggio. Lo scopo di Michel è quello di far guarire sua moglie, ammalatasi gravemente dopo di lui. Ma il viaggio coinciderà con il graduale peggioramento di Marceline, fino alla sua morte in Tunisia. Se Michel, ingannandosi, crede che il clima africano possa giovare a sua moglie, in realtà il suo reale, nascosto intento è quello di evadere per sempre dal suo ambiente di provenienza per stabilirsi definitivamente in Africa.

Contrariamente a ciò che può suggerire il titolo del romanzo, in esso la dimensione comunitaria dell’uomo sarebbe invece da considerarsi, a mio parere, come imprescindibile. L’immoralista è un’opera sulla diversità (lasciamo da parte il tema dell’omosessualità – o meglio, della bisessualità – del protagonista). I giovani e giovanissimi che Michel ama frequentare (tralasciando di considerare l’aspetto dell’attrazione sessuale che costoro esercitano su di lui, del resto poco esplicito nel libro), rievocano un’umanità giovane e forte. Michel guarendo si fortifica, ma ciò lo condanna alla solitudine e all’insoddisfazione.

L’uomo forte gode principalmente del fatto che può esercitare una travolgente resistenza verso tutto ciò che lo circonda (ciò emerge dal romanzo). Ma i motivi che lacerano Michel sono principalmente due. Da un lato la sua sana gioia non può venire condivisa con le sue vecchie conoscenze, dei borghesi che non possono permettersi di vivere, senza pensare, la ricchezza del presente, essendo avvedutamente concentrati sul futuro. Michel, guarendo, perde il senso degli affari, al pari d’un antico barbaro il cui senso della proprietà è assai poco sviluppato poiché da essa non dipende la sua felicità. Non solo gli urti della vita non ledono tale tipo d’uomo, ma anzi lo mantengono vivo. Dall’altro soffre profondamente per le sciagure di chi si ama maggiormente, che Marceline rappresenta, cui non può tragicamente porre rimedio. Chi ha conosciuto dei felici momenti di pienezza soffrirà acutamente per la loro assenza. E il sentimento di impotenza di fronte a ciò che è irrimediabile sarà per costui altrettanto acuto.

Il tema del contrasto tra umanità delle origini e umanità moderna, mi sembra sia estrapolabile da un’attenta lettura del libro. La forte comunità umana originaria è composta da uomini pronti e reattivi in quanto nessun male che può coglierla è irreparabile. L’umanità cagionevole succedente è invece necessariamente fatalista. Un aspetto importante del romanzo è che Gide scorge, nel sentimento, della rassegnazione, dell’impotenza. Del resto commuoversi empaticamente è agli antipodi del reagire, del porre adeguato rimedio o del prevenire, con sicurezza e fermezza.

Sul piano dello stile l’autore si esprime in modo duplice, evidenziando in tal modo il carattere scisso di Michel, che è anche il narratore del libro. I momenti cagionevoli o di fragilità dei suoi protagonisti sono espressi da una prosa sentimentale, come da delicate descrizioni naturali. I momenti di vita vigorosa sono invece espressi da una prosa più aspra.

In Cuore di tenebra di Joseph Conrad il protagonista Marlow, un inglese assunto da una compagnia commerciale francese, raggiungerà un imprecisato entroterra dell’Africa tropicale, separato dalla costa da un fiume, in cui incontrerà Mister Kurtz, un misterioso e inquietante membro della compagnia dedito al traffico d’avorio. Marlow lo porterà con sé sulla via del ritorno in Europa, ma Kurtz, malato, morirà sul battello nel quale era a bordo assieme all’inglese, lungo il suddetto fiume.

Un’Africa misteriosa, lugubre, difficoltosamente accessibile, inospitale, abitata da bellicose popolazioni, indica la condizione primitiva dell’uomo, un uomo che nelle vesti del feroce colonizzatore occidentale non ha conseguito alcun civile progresso rispetto a come era in origine. Kurtz, che incarna l’esistenza umana, ritengo sia un personaggio dal significato allegorico duplice, onnipotente dio carnefice da un lato e umana vittima sacrificale dall’altro.

Cuore di tenebra è un breve romanzo sulla più totale oscurità del senso della vita. Il pensiero sarebbe per Conrad una facoltà della quale l’uomo dispone solo in apparenza. Quest’ultimo è cioè incapace di pensare realmente, ovvero di avere una consapevolezza che oltrepassi quella immediata della sua afflitta condizione, simboleggiata dalla malattia mortale di Kurtz, che prima di spirare pronuncerà le famose parole: «Che orrore! Che orrore!», come a voler dire che non possiamo che limitarci a constatare il male di vivere, non potendo farcene una ragione.

L’errore morale (non il peccato – Conrad è probabilmente un ateo privo di speranze illuministiche) nel quale l’uomo incorre, cos’altro sarebbe se non l’impossibilità per quest’ultimo di comprendere la dannosa irrazionalità del suo modo d’essere? E come può aver davvero fatto luce, aver compreso, i motivi metafisici, logici, di tale sua irrazionalità, anche qualora l’abbia fatto rigorosamente e impeccabilmente? Si pensi ad esempio alla spiegazione che Schopenhauer fornisce della necessità dell’esistenza. Per lo scrittore anglo-polacco, al contrario, non possiamo sapere davvero perché siamo infelicemente al mondo.

Vi è una totale soggezione degli indigeni a Kurtz, venerato da costoro come un dio. Ho già detto come Kurtz rappresenti anche la piena schiavitù dell’uomo a un destino inevitabile. Gli autoctoni che nel romanzo hanno commesso dei crimini non sanno perché vengono puniti dai loro colonizzatori, oltre a non comprendere la loro gratuita crudeltà imperialistica. E in fondo sono innocenti, proprio perché, non sapendo in generale quello che fanno, non si sono potuti rendere colpevoli di alcunché. Li domina interamente, non concedendo sbocchi, un destino incomprensibile e spietato.

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