Sitosophia

Il figlio di Saul

I Filistei si strinsero attorno a Saul e ai suoi figli e colpirono a morte.
(1 Sam 31, 2)

Interessante, ma non da far gridare al capolavoro, Il figlio di Saul è una parabola sul destino del popolo ebraico. In un campo di sterminio, un uomo di nome Saul, membro di un Sonderkommando, scopre tra i cadaveri un ragazzino, ritenendolo il proprio figlio. Comincia dunque a cercare un rabbino che possa dargli degna sepoltura, secondo quanto previsto dal rito. La cornice è lo sterminio nazista, ma – si potrebbe dire – solo per avventura. Sembra che l’olocausto appartenga a questo film per accidente. Ciò che accade, le camere a gas col vomito, le urla strazianti dei morenti che battono disperatamente coi pugni, la terribile scena con i lanciafiamme a bruciare i corpi dei deportati freddati a colpi di pistola e ammassati nelle fosse comuni, in una parola: l’inferno, ― tutto ciò colpisce dritto al cuore. Pure troppo. La ricetta è perfetta: sterminio, morti indiscriminate, un padre che scopre il cadavere del figlio e, come estremo atto d’amore, vuol dargli degna sepoltura. Commovente, d’impatto; al punto da insospettire.

Partiamo dalla fine, ossia dal concetto. Chi è Saul? Il primo re di Israele, morto senza eredi. Il “figlio” che Saul non ha avuto dalla moglie è Davide, succedutogli sul trono, dalla cui discendenza nascerà il Messia. Il Saul biblico è un sovrano che alterna periodi di saggezza e lucidità a episodi di follia dispotica, soprattutto nei confronti di questo figlio adottivo che è Davide. Saul è uno che non fa le cose bene.

Il Saul del film, anche lui, ha un figlio non avuto dalla moglie e sa che soprattutto nei confronti di questo figlio non ha fatto le cose bene, tanto che vuole a tutti i costi seppellirlo, affinché almeno per quest’occasione le cose siano fatte bene.

Ora, chi è Saul, nel film? E chi è il figlio di Saul, che compare morto e tale rimane per tutto il tempo? Attuiamo questa sovrapposizione tra i due Saul (re e deportato) e i due “figli” (Davide e il ragazzo morto). Davide, questo “figlio” voluto e non voluto, erediterà il regno di Israele. Alla fine, pertanto, si sarebbe tentati di credere che la morte dell’erede di Saul significhi che non v’è più speranza per il popolo ebraico. Persino il “figlio” di Saul è morto. Dalla sua discendenza non nascerà nessun messia. A chiudere il cerchio, a segnare la fine della speranza del popolo ebraico, sarà l’acqua: un fiume aveva salvato Mosè accendendo la speranza, un fiume – nel film – trascina via il cadavere del figlio di Saul.

La domanda è questa: perché la cornice del film è l’olocausto? La shoah è davvero la fine della speranza per il popolo ebraico? Il film è sottile, ma non al punto da non farci ritenere che l’olocausto sia solo un’esca, un modo per acchiapparci emotivamente e poi insufflarci la grande questione ebraica ridotta a misura di un padre con un figlio morto. E cos’è questa riduzione se non il cristianesimo? Un Padre alle prese con un Figlio morto.

Il film è una rivendicazione di ebraismo, in funzione anti cristiana. Seppellire i morti nonostante tutto, anche a scapito della salvezza dei vivi, come rimproverano i compagni a Saul che li mette in pericolo, è atteggiamento affatto ebraico e condannato dal Cristo, che invitava i propri seguaci a lasciare che i morti seppellissero i morti.

Il film è la rivendicazione di un fallimento, il sentimento della fine di un popolo e della speranza che lo ha tenuto in vita. In questo è il suo fascino, non immediato, sicuramente indiretto. Forse anche non voluto.

Se questo film vale qualcosa non è certo per la cornice inessenziale dei campi di sterminio, per quanto crudamente rappresentati. Ma pure se non ci si può mai abituare a ciò, ci sembra tutto già visto, o quantomeno già letto (basti pensare alle novecento pagine di insostenibili atrocità de Le benevole).

Il film è interessante, ha un suo fascino. Commuovere con l’olocausto è compito assieme facile e difficile. Un giorno potremmo anche definirlo banale; allora sarà tanto più arduo. Come sempre, però, conta il punto di vista, che in questo caso è tutto nell’incipit: un campo fuori fuoco, un uomo si avvicina e solo alla giusta distanza una cinepresa immobile ci consentirà di metterne a fuoco il viso. Da questo momento in poi la cinepresa non si ferma più, è inquieta, traballa, si contorce. La giusta distanza della messa a fuoco è ridotta ai minimi termini, ossia precede e segue Saul standogli appiccicata. Siamo premuti, schiacciati su di lui e su ciò che vede. Non scorgiamo altro che scorci, non abbiamo ampie visioni se non in rari casi. E queste visioni più ampie sono riprese in soggettiva. Si sente il peso del corpo, negli stretti cunicoli, nell’essere sempre a contatto coi compagni di sventura. Il punto di vista non è soggettivo, ma nemmeno “oggettivo”. Il punto di vista è e non è quello di Saul. È e non è quello dello spettatore. La giusta distanza, per valutare e sentire qualcosa che ancora (per fortuna) ci commuove come l’olocausto, o anche per farci scorgere all’interno della cornice la cruciale questione ebraica, è la mediazione, il rifiuto di una prospettiva particolare e soggettiva, come di una universale e assoluta. Il figlio di Saul va guardato dalla giusta distanza. Se lo si guarda da vicino, gli occhi si appannano per la commozione. Se lo si guarda da lontano, non si riesce a mettere a fuoco, appare sfocato, come la scena iniziale. Tra l’universale e il particolare, tra l’oggettivo e il soggettivo sta, simbolicamente, la giusta distanza. E così, simbolicamente, potrebbe essere interpretato il film. Resta l’enigma del sorriso finale di Saul. Ma ogni simbolo conserva un segreto.

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