Sitosophia

La gioia davanti alla morte

Noi usiamo qui la parola mistica a proposito della “gioia davanti alla morte” e della sua pratica, ma ciò non significa nient’altro che una somiglianza di ordine affettivo fra questa pratica e quella dei religiosi dell’Asia o dell’Europa. Non esistono ragioni per legare qualche supposizione su una pretesa realtà profonda a una gioia che non ha altro oggetto che la vita immediata. La “gioia davanti alla morte” non appartiene che a colui per il quale non c’è al di là; essa è la sola via di probità intellettuale che possa seguire la ricerca dell’estasi.
Come è possibile d’altra parte che un al di là, come Dio o altro di simile a Dio possa essere ancor accettabile? Nessun termine è abbastanza chiaro per esprimere il disprezzo felice di colui che “danza con il tempo che l’uccide” per quelli che si rifugiano nell’attesa della beatitudine eterna. […] La verecondia è forse salutare agli indesiderati: chi avesse tuttavia paura delle ragazze nude e del whisky avrebbe poco a che fare con la “gioia davanti alla morte”.

È una santità svergognata, impudica, che comporta solo una perdita di sé abbastanza felice. La “gioia davanti alla morte” significa che la vita può essere magnificata dalla radice fino alla cima. Essa priva di senso tutto ciò che è al di là intellettuale o morale, sostanza, Dio, ordine immutabile o salvezza. È un’apoteosi di ciò che è perituro, apoteosi della carne e dell’alcool altrettanto che dei trasporti mistici. Le forme religiose che ritrova sono le forme ingenue che hanno preceduto l’intrusione della morale servile: rinnova quella specie di esultanza tragica che l’uomo “è” appena cessa di comportarsi da infermo: di farsi una gloria del lavoro necessario e di lasciarsi evirare dal timore del domani.

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