Aboutness

Univ. di Catania, 2005
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È difficile parlare dell’ultimo libro di Silvana Cirrone (Aboutness. Modelli per una teoria del riferimento, Università degli Studi di Catania. Dipartimento di Scienze della Cultura dell’Uomo e del territorio, Catania 2005) quando si è ancora increduli di fronte all’impossibilità di discutere con lei delle tante tematiche affrontate in questo saggio. Proprio l’instancabile voglia di discutere e di comprendere è infatti la cifra peculiare che ha caratterizzato la sua attività di didattica e di ricerca, come ben sa chiunque abbia avuto la possibilità di incontrarla. E questa passione che ha sempre animato Silvana Cirrone nel suo lavoro e nella sua vita, facendo della sua persona un punto di riferimento per tutti i suoi studenti, merita di essere ricordata nel modo che più lei amava e faceva amare ai suoi interlocutori: attraverso la discussione filosofica.

Si può dire che delle sue caratteristiche umane e di studiosa il suo ultimo volume rappresenti una sintesi perfetta. Aboutness, infatti, propone un percorso teorico impegnativo e ambizioso che, pur entrando nel merito di specifiche teorie di filosofia del linguaggio, filosofia della mente e scienze cognitive, non si rinchiude mai entro i confini angusti di uno specialismo incapace di cogliere le connessioni tra i fenomeni e le teorie appartenenti a discipline diverse. Lungo i nove densi capitoli del saggio si snoda un itinerario che, tenendo fermo il fuoco della riflessione sulla nozione di riferimento, rivisita le trasformazioni della filosofia analitica degli ultimi decenni, con particolare attenzione alle ragioni teoriche che hanno favorito il transito dal paradigma linguistico alla svolta cognitiva.

La vastità dei temi attraverso cui Silvana Cirrone spazia non impedisce però al saggio di possedere un’architettura teorica profondamente unitaria che, come si è accennato, ruota attorno alla centralità della nozione di riferimento, considerata fin dalle pagine iniziali «uno degli snodi teorici che mettono in circuito filosofia del linguaggio e filosofia della mente» (p. 13). Tale tematica viene articolata attraverso un preciso filo conduttore che costituisce anche la chiave di lettura principale del testo, vale a dire la tesi della «dissociabilità della nozione di riferimento da quella di verità» (p. 17). Il rifiuto dell’idea secondo cui il riferimento debba esser considerato come nozione vicaria di una teoria della verità costituisce la premessa attraverso la quale vengono selezionate le teorie affrontate nel saggio, allo scopo di mettere in luce i limiti dell’approccio vero-condizionale proprio del paradigma dominante (che trova la sua espressione canonica nei classici lavori di Frege, Russell e Wittgenstein, presi in esame nei primi capitoli del libro), nonché «la direzionalità di un percorso che porta al progressivo avvicinamento di semantica e cognizione» (ibid.). Lungo queste coordinate fondamentali si articola il volume, evidenziando le tappe più importanti che segnano il progressivo abbandono dell’antipsicologismo radicale proprio del paradigma linguistico classico, in favore di una rinnovata attenzione verso i meccanismi e i processi cognitivi. Se in Dummett la nozione di “protopensieri” comporta una prima cauta apertura verso il “mentale”, seppur ancora con la sottolineatura della priorità esplicativa del linguaggio per lo studio del pensiero, una svolta fondamentale si ha con la reinterpretazione della nozione fregeana di Senso da parte di Gareth Evans: i Sinne vengono adesso intesi come «strutture e capacità cognitive funzionali alla identificazione del riferimento» (p.111). In questo modo viene portato alla luce il fatto che per comprendere un enunciato non basta sapere che cosa le espressioni in esso contenuto denotano, bensì è necessario capire in che modo specifico ci rappresentiamo i riferimenti. La nozione di Senso viene allora interpretata da Evans come una sorta di dispositivo in grado di individuare e discriminare pensieri diversi, differenti contenuti mentali, consentendo in questo modo la mediazione cognitiva tra pensiero, linguaggio e mondo: se Edipo, infatti, può assentire all’enunciato «Edipo crede di avere ucciso l’uomo sul carro» e contemporaneamente negare «Edipo crede di avere ucciso il proprio padre» (stesso riferimento ma Sensi diversi), ciò significa che i due enunciati esprimono pensieri diversi (cfr. p. 113).

Attraverso il celebre esperimento mentale di “Terra Gemella” proposto da Putnam (cfr. “The Meaning of Meaning”, 1975) e il successivo dibattito che vede contrapposti “internisti” ed “esternisti” riguardo alla questione se i significati siano o meno “nella testa”, l’attenzione dei filosofi analitici si sposta progressivamente dall’analisi delle espressioni del linguaggio ai contenuti degli stati mentali, favorendo in tal modo un intreccio fecondo di filosofia del linguaggio, filosofia della mente, neuroscienze, scienze cognitive. E con i più importanti risultati dell’orizzonte teorico caratterizzato dalla svolta cognitiva, l’Autrice si confronta intensamente. I capitoli centrali del volume comprendono tra gli argomenti principali l’analisi del funzionalismo in psicologia, le ricerche empiriche sul formato delle rappresentazioni mentali, la semantica cognitiva, l’intelligenza artificiale. In questo confronto, il testo rifiuta un approccio metodologico che propone soluzioni non suffragate dall’aderenza rigorosa ai risultati delle ricerche empiriche: le questioni di ontologia ed epistemologia della mente vengono, piuttosto, affrontate tenendo sempre in considerazione le metodologie effettivamente impiegate nella pratica della ricerca scientifica. E su tale base gli stati mentali vengono intesi in primo luogo come costrutti teorici, di modo che «l’introduzione di tali costrutti non comporta alcun impegno ontologico nei confronti degli oggetti postulati: questi ultimi sono trattati come entità ipotetiche definite nell’ambito di congetture sul modo in cui lavora la mente e, in questo senso, la scelta tra ipotesi rivali è dettata da criteri di pura funzionalità esplicativa» (p. 129).

L’ultimo capitolo del volume è dedicato all’“intenzionalità naturalizzata” e la scelta di trattare tale argomento come tema conclusivo non è casuale. Il programma di naturalizzazione dell’intenzionalità costituisce, infatti, il punto di approdo dell’intero saggio, fornendo una chiave di lettura che giustifichi l’assunto guida da cui l’Autrice ha inteso partire: come si è già detto la dissociazione della nozione di riferimento da quella di verità. Tale idea viene supportata facendo ricorso a quelle teorie che «mettono in campo l’eziologia e la teleologia, ma soprattutto la nozione di funzione, chiamata a sostegno dell’idea che la normatività semantica trovi la sua base esplicativa nella normatività biologica» (p. 20). Ciò rende chiaro il presupposto teorico che guida la scelta in favore della naturalizzazione dell’intenzionalità: l’idea che la normatività semantica sia difficilmente accomodabile in una concezione naturalistica della realtà (e si ricordi il deciso antinaturalismo di Frege che colloca i concetti in un platonico “Terzo Regno”) a meno che non venga spiegata attraverso una strategia riduzionistica in grado di eliminare le nozioni semantiche grazie agli strumenti forniti da altre scienze considerate più basilari, in particolar modo la biologia evoluzionistica e la teoria dell’informazione. E’ in Dretske che l’aggancio con tali discipline scientifiche diviene esplicito, con la tesi per cui «uno stato mentale acquisisce una certa funzione rappresentazionale come risultato di un processo di selezione naturale» (p. 211). In questo modello rappresentazionale, pertanto, «anche la nozione di contenuto è definita in termini evoluzionistici e biologici» (ibid.). La strategia di riduzione ed eliminazione delle nozioni semantiche viene quindi portata a compimento con il ricorso alla teoria dell’informazione, al punto che per Dretske una teoria dell’intenzionalità diviene parte integrante di una teoria dell’informazione: «affinché un sistema possa essere definito rappresentazionale, non è sufficiente (e neppure necessario) che esso rispecchi uno stato di cose nel mondo: la sua funzione (il suo scopo) deve essere quella di fornire informazioni» (ibid.). Il quadro di riferimento evoluzionistico è poi completato con la disamina delle posizioni di Ruth Millikan e di Karen Neander, nelle quali il modello teleologico evoluzionistico di spiegazione dell’intenzionalità viene affinato grazie all’introduzione della nozione di funzione propria [proper function]; strumento teorico che svolge l’ufficio di spiegare come una rappresentazione acquisisca il suo contenuto in quanto è stata selezionata, a partire da meccanismi biologici evolutivi, per svolgere una certa funzione (Cfr. pp. 224 e sgg.).

Alcune rapide considerazioni sul saggio possono qui solo essere schematicamente accennate. In primo luogo va sottolineato il rigore di un modo di fare filosofia che connette strettamente la riflessione teorica con i risultati della ricerca scientifica. Nel clima culturale in cui viviamo, contrassegnato da rigurgiti oscurantisti e spesso reazionari, nonché dal tentativo di mettere la scienza costantemente sul banco degli imputati, tale stile di pensiero va senz’altro riconosciuto come modello per la difesa della razionalità della tradizione filosofica occidentale. Proprio la biologia evoluzionista, infatti, è di frequente il campo di battaglia di queste lotte senza fine: si pensi alla vicenda dell’insegnamento del creazionismo nelle scuole americane e agli echi di tale dibattito giunti fino a noi; o a come ancora di recente vengano pubblicati volumi in cui l’opera di Darwin è considerata responsabile dell’eugenetica e degli orrori del Terzo Reich (si veda in proposito l’articolo di Antonio Carioti sul “Corriere della sera” dello scorso 30 giugno cha fa il punto sulle pubblicazioni recenti dedicate a Darwin e al dibattito sulle responsabilità etiche dell’evoluzionismo). Quanto alla questione più specifica della naturalizzazione dell’intenzionalità, va rilevato come se gli approcci di Dretske e della Millikan siano utili a farci comprendere il modo in cui funzionano i meccanismi e i processi che ci consentono di possedere determinate capacità intenzionali, una strategia riduzionistica o di eliminazione tout court delle nozioni semantiche non appare come l’unico esito obbligato. Il progetto di Frege, infatti, una volta abbandonati i suoi implausibili presupposti ontologici platonistici e antinaturalistici, si configura come un’indagine sui contenuti dei pensieri e sulle relazioni che intercorrono tra gli stessi, un’impresa di ricognizione delle inferenze materiali affine a quella proposta da Wilfrid Sellars e più recentemente da Robert Brandom o a ciò che Wittgenstein designava col termine di Grammatica filosofica. Tuttavia, non è necessario che tra questi approcci sussista un‘incompatibilità radicale, piuttosto una proficua divisione del lavoro sarebbe auspicabile: spiegare attraverso quali meccanismi cognitivi e biologici siamo in grado di sviluppare le nostre competenze semantiche, infatti, è un’impresa teorica pienamente legittima ed essenzialmente diversa e complementare rispetto all’analisi delle relazioni sussistenti tra i contenuti dei nostri apparati concettuali; riconoscere la reciproca legittimità di queste due diverse strategie d’indagine non può pertanto che accrescere la nostra conoscenza.

In conclusione, merita di essere discusso un ultimo punto che riguarda la relazione tra l’attuale paradigma cognitivo e la tradizione filosofica. Uno dei pregi del lavoro di Silvana Cirrone consiste nella sensibilità mostrata per lo sviluppo storico del pensiero filosofico: più volte nel testo viene ribadita la convinzione che gli interrogativi dei filosofi della mente, pur nella diversità del contesto, siano gli stessi dei protagonisti del paradigma epistemologico della filosofia moderna, i vari Cartesio, Leibniz, Kant o gli empiristi inglesi. Come sempre, la rilettura di momenti cruciali della storia della filosofia non è mai una mera operazione filologica o un esercizio ermeneutico privo di conseguenze teoriche significative; al contrario, essa implica un’opzione in favore di una precisa impostazione teorica e chiama in causa l’idea che si vuol proporre del significato e dei compiti della riflessione filosofica. In questo senso, a mio avviso, l’equazione tra la contemporanea indagine dei filosofi della mente e il paradigma epistemologico moderno non convince del tutto: quella degli odierni filosofi della mente è infatti una riflessione sui fondamenti teorici e metodologici delle scienze della mente, e in quanto tale concerne una regione circoscritta, un settore specifico della realtà naturale. In questo senso la filosofia della mente contemporanea si muove sullo stesso livello delle filosofie applicate alle scienze speciali, quali possono essere considerate la filosofia della fisica o la filosofia della biologia. Essenzialmente diverso è invece il significato metafilosofico del progetto della filosofia moderna: l’epistemologia moderna eredita il ruolo di disciplina d’indagine fondamentale che nel precedente paradigma ontologico era proprio della metafisica. Essa non si rivolge, come in precedenza la metafisica, allo studio della sostanza, bensì all’indagine della ragione e della conoscenza umana; ma tale studio, condotto a stretto contatto con i risultati della rivoluzione scientifica, è propedeutico alla costruzione di un’immagine globale della realtà, una visione integrata che consenta di comprendere il posto dell’uomo nel mondo naturale e in quello sociale. Tale è ad esempio il significato dell’opera di Hobbes, che applica l’immagine meccanicistica propria della nuova scienza della natura allo studio del problema politico, o la motivazione fondamentale per cui Locke affianca all’analisi della ragione del Saggio sull’intelletto umano i Trattati sul governo e le Lettere sulla tolleranza. E si pensi ancora a come Hume considerasse obiettivo principale del suo Trattato quello di costruire una scienza dell’uomo unitaria sia dal punto di vista morale che naturale e capace di essere rigorosa al pari della scienza newtoniana; o all’unità profonda che sussiste nelle tre Critiche kantiane tra l’immagine della natura e l’immagine dell’uomo come soggetto di azione morale.

La riflessione filosofica dei grandi pensatori moderni, lungi dall’essere circoscritta allo studio delle rappresentazioni mentali, aveva l’ambizione di comprendere il funzionamento della ragione per giungere ad un’immagine globale dell’uomo e così edificare – sulla base della conoscenza della scienza della natura e del modo di funzionare della ragione stessa – un modello migliore di convivenza civile tra gli uomini: un modo di concepire la ricerca filosofica che, se oggi è forse meno diffuso, non per questo appare meno importante e necessario.

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