Anassimandro e il dominio tragico della necessità

Cuecm, Catania 2009. Collana «I Quaderni di Próodos», 84 pp.
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«Il linguaggio è Delfi»; esso non dice né nasconde bensì accenna, lascia intendere, allude. Parlando intendiamo ciò che diciamo e il suo opposto, allo stesso modo in cui nel medesimo fiume siamo e non siamo. Questo perché ciò che ci sostanzia è linguaggio, il regno dove sussistono perennemente tutte le contraddizioni. Ogni nostra parola è allacciata saldamente alla pietra d’inciampo del pensiero e tuttavia dilegua al vento del divenire, come in altri tempi si perdea la sentenza di Sibilla. Solo un dio ci può parlare, e la sua voce che ci giunge in maniera sibillina «senza riso, né ornamento, né unguento» (Eraclito) vince di mille secoli il silenzio.
Chi ancora non avesse, anche poco, dissotterrato quella lingua morta e sepolta che è il greco antico, chi trovasse i motti dei pensatori arcaici degli appassionati ammonimenti buoni per la vita di ogni giorno o dei modi antichi di concepire la realtà e la natura, chi – per farla breve – prendesse le parole per ciò che non sono, tenendole assieme in virtù del loro significato e non in virtù della loro reciproca separatezza, indipendenza assoluta – si tenga pure lontano da questo, come da tanti altri libri.
Auteri segue la via filo-logica con fare rapido ma preciso e il risultato finale non è che l’inizio della filosofia. «Si tratta – avverte Heidegger nel suo saggio anassimandreo tra gli Holzwege – della più antica parola del pensiero occidentale». Il fato nasce insieme alla stessa scrittura, perciò è prima culto (grammatico), poi cultura (drammatica).
Si parla di eternità e tragedia. La modernità è affetta dalla sindrome del ‘tempo perduto’. La proustiana angoscia del ‘passare’ – fuggitivi i viali e le case non meno che i desideri – non avrebbe avuto spazio nel mondo classico perché il tempo in esso è dominato, non dominatore. Il controllo del tempo, per quel mondo davvero ‘perduto’, è un falso problema: solo la mentalità economica fa del tempo la fonte di ogni perdita: una perdita di tempo per l’uomo moderno è la più grave delle sconfitte, il fallimento economico e sociale. In realtà, la sconfitta della modernità è l’aver perso il senso del tempo: nel pensare sempre, cioè, di perdere tempo. Ecco che la modernità di fronte all’eterno è comica, perché lo avverte come una perdita. La grecità – tragica, perché dall’eterno è segnata, dell’eterno è segno.
La modernità è priva del senso del tempo eppure ha il tempo contato. Tuttavia, con quale senso si conta il tempo? Con quale lo si percepisce? Aristotele sapeva che l’eterno fluire e rifluire non svanisce nell’infinità, non perde consistenza perché oltre alle entità numerabili esistono anche delle anime numeranti, ossia le intelligenze dei cieli. Grazie al movimento di queste anime numeranti e visibili il tempo è numerabile secondo il prima e il dopo. Per questa numerazione il divenire non dissolve gli enti nell’infinità, ma continuamente ritorna in se stesso.
La ferrea necessità annoda la sorte di tutte le cose che sono. Non ci si può sottrarre a questa eterna ruota; né l’opposizione né la rassegnazione servono in qualche modo a svincolarsi. L’eterno ritorno lega il destino dell’uomo non meno di quello delle divinità. Come in tutti i circoli, bisogna starci dentro nella maniera giusta. Il circolo ermeneutico e la ruota dell’eterno ritorno richiedono l’identificazione tra linguaggio e esserci, tra moira e individuo.
Hegel ricorda che con la modernità, secondo Napoleone, «al posto del fato antico, sarebbe subentrata la politica». L’odierno concetto di politica s’infigge sul terreno del relativismo geografico, della primazia del potere nazionale sulla geografia (anche umana). Era invece l’incorruttibilità della necessità a fare di questa lo stendardo politico del mondo greco. Nel xv canto dell’Iliade ci viene narrata l’assegnazione dei regni a Zeus, Poseidone e Ade. Il dominio segue un principio spaziale che diviene immediatamente geografico e religioso: cielo, mare e inferi rispettivamente ai tre dèi; la terra in comune a tutti. La corruzione del fato è il punto di forza – e di rottura – della politica «planetaria». Il divenire non fa che separare e tener separati tra loro gli stati nazionali. L’essere – incorrotto – è l’unità politica greca.
Del mondo “turco” l’Occidente moderno ha fatto proprio il «fatalismo» – questa distorsione del busto marmoreo greco: come dice Nietzsche, tenere separati il fato e l’uomo, volontà e necessità, quando invece volontà è necessità. Questa identità significa che gli enti stessi sono la ruota del tempo, gli ingranaggi dell’eterno ritorno, ossia del dileguare che infinitamente rifluisce senza perdere consistenza. In questa identità risuona lo stesso accordo che s’ode al tendersi dell’arco che scocca una freccia, memori che dell’arco il nome è vita, ma l’opera è morte; la stessa armonia che i Pitagorici udivano nel movimento delle sfere e nella guerra ben condotta – l’armonia di ananke che ricompone e lascia sussistere dike e adikia. L’uomo è la parte, il fato l’intero.
Il fato è l’immagine immota degli scontri di tutte le volontà, la pace dei conflitti di facoltà, l’ordine del caos, la circolarità della rettitudine.
Del preciso e segreto perché questa pace logica sia confinata al mondo antico e non ci appartenga, o sia di quanto dista un dio, nella Postfazione di Giuseppe Raciti.

6 responses to “Anassimandro e il dominio tragico della necessità

  1. Ho avuto il piacere di leggere questo esile e intenso saggio, che l'autore stesso mi ha donato brevi manu.

    Complimenti per la degna recensione.

  2. Un’interessante recensione per un libro altrettanto interessante: ogni argomentazione sui concetti di spazio e di tempo è da me ben accetta, ancora meglio se inserita all'interno di quell'antico mondo greco innalzatosi in difesa dell'eternità e, quindi, spazialità.

    Davvero molto costruttivo il discorso sulla tragicità: Ortega Y Gasset, nelle sue "Meditazioni sul Chisciotte", parlava proprio della differenza tra tragedia e commedia: «la commedia è il genere letterario dei partiti conservatori», nacque in Grecia come reazione contro i filosofi e le loro "nuove" affermazioni, quindi secondo tale tesi la modernità assumerebbe un atteggiamento di comicità di fronte all'eternità in quanto vedrebbe in essa un ideale troppo distante; mi chiedo, a questo punto, se il personaggio di don Chisciotte non fosse tragico per via della sua volontà…

    Dell'identità tra necessità e volontà e di un’ essenza che sussiste sotto apparenze differenti dell'eterna successione è qualcosa di riscontrabile anche nell'antichissimo Libro dei Mutamenti, erroneamente considerato un "banale oracolo": eppure, come dite voi stessi, anche Eraclito utilizza il linguaggio degli oracoli, apoftegmi fulminanti in vista di un suggerimento.

    Grazie per la vostra recensione.

  3. E' stato un piacere, anzi mi scuso per gli errori dovuti alla fretta nel pubblicare la mia risposta: l'opera si intitola "Meditazioni del Chisciotte" e, al decimo rigo, fa capolino un "dell' " senza un motivo per preciso…sciocchezze, ma mi sembrava giusto correggermi! ;)

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