Cyborgsofia

Il Pozzo di Giacobbe, 2004
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I volumi di carattere introduttivo raramente conciliano una documentazione storica aggiornata sul tema e un approccio particolare dell’autore che ne caratterizza la lettura. Questo saggio rientra in questa categoria di opere: l’agile volume condensa in sette capitoli il tema dell’intelligenza artificiale, in particolare nei suoi nessi con la filosofia.

Il primo capitolo tratta della mente. «La mente è la forma del corpo naturale che ha la vita in potenza» è la definizione aristotelica che Biuso spiega e grazie alla quale introduce una critica al cartesianesimo e al dualismo che esso propone tra mente e corpo (intesi come due sostanze separate), proponendo subito che «il corpo/mente – questo corpo qui di carne, di cellule, di neuroni – è lo spazio in cui pulsano i miei sentimenti, le emozioni, la razionalità» (p. 16). Il saggio ha un’impronta teoretica e propone un superamento dei dualismi in filosofia della mente intendendo questa anche come filosofia del corpo. E in qualche modo filosofia del tempo: «se la coscienza è rivolta al mondo in una serie innumerevole di atti intenzionali di comprensione, di interpretazione, di azione, essa non può in ogni caso oltrepassare se stessa e la propria finitudine. Tale finitudine è ciò che chiamiamo tempo» (p. 21). Il tema è uno, in fondo: l’antropologia, la natura umana. E un’attenta analisi del soggetto umano sottolinea la presenza di quattro componenti: 1. il movimento (il divenire costante), 2. l’orizzonte di attesa (la propensione per la progettualità), 3. la finitudine (la coscienza dell’heideggeriano «essere-per-la-morte»), 4. la memoria (strumento di congregazione e rielaborazione sempre cangiante del proprio Sé, del corpo che si è). Insomma «la mente non si limita alla struttura biologica che è il cervello ma vive, opera, agisce nel più ampio contesto spazio-temporale, nelle relazioni con le altre menti, nella capacità ancora per molti versi enigmatica di trarre dalla materia il mondo complesso e totalmente umano dei significati», «la mente è l’autocoscienza del grumo di tempo fattosi corpo nell’umano… dunque la consapevolezza che il corpo ha di essere immerso nel tempo» (p. 26).

Il secondo capitolo affronta il Tecnologico. Il Naturale è ciò di cui non ha bisogno d’altro (ad esempio l’uomo) per esistere, l’Artificiale presuppone un esemplare che si intende imitare, mentre il Tecnologico è «il tentativo di conoscere, controllare, dominare e utilizzare le forze naturali a vantaggio della nostra specie con l’ausilio di macchine e apparati inventati da noi stessi» (p. 28). I limiti dell’I.A. a questo punto emergono chiaramente: la svalutazione tanto del corpo quanto dell’ambiente. Biuso nota come sia più fecondo «prendere atto che la coscienza umana ha una propria autonomia irriducibile sia alla dimensione impalpabile delle intelligenze celesti sia alla dimensione chimico-fisica degli enti materiali privi di consapevolezza, fra i quali è da annoverare lo stesso cervello» (p. 30), giacché lo strumento non coincide con chi lo utilizza. La complessità dell’essere umano dunque comporta una visione “aperta” delle sue molteplici dimensioni, rendendosi in quest’ottica vano ogni tentativo del progetto dell’I.A. di aumentare quantitativamente la potenza elaborativa dei processori, tendenza alquanto accentuatasi negli scorsi anni. Nella cyberantropologia, le alternative sembrano essere due: i bioputer (computer in grado di varcare la soglia della coscienza di sé) oppure la «possibilità di innestare dentro i nostri corpi e – ancor più – all’interno del codice genetico, degli elementi artificiali, in grado di potenziare la percezione, la memoria, l’insieme delle risposte immediate e di lungo periodo alla complessità dell’ambiente in cui viviamo» (p. 33). La seconda prospettiva è, secondo Biuso, più praticabile; anche perché la prima alternativa viene generalmente posta, a suo avviso, in maniera scorretta da un punto di vista teoretico, almeno secondo le attuali concezioni che il progetto per una intelligenza artificiale propone (che, come visto, non considera se non minimamente l’aspetto bio-ambientale da cui l’intelligenza umana invece non riesce a prescindere).

Il terzo capitolo presenta quelli che nel campo dell’I.A. possono essere le risorse e i limiti. Per Alberto Biuso le risorse sono: 1. muoversi in modo sempre più profondo e consapevole, grazie a Internet, in un’infosfera, «uno spazio intellettuale la cui misura e densità si estende sempre più», incapace di nuocere a realtà fondamentali della cultura umana come, prima fra tutte, il libro stampato; 2. regalare sempre più tempo all’uomo, svolgendo per lui le azioni più ripetitive anche se necessarie della sua attività quotidiana; 3. la possibilità per le scienze di fuggire il settarismo e la specializzazione, per costruire una «multidisciplinarità che apra ogni luogo della conoscenza a una serie di interazioni potenzialmente infinite con ogni altro, creando uno spazio di conoscenza senza confini troppo rigidi e artificiosi» (p. 39), ovvero il cyperspazio. Nonostante siano pochi, al contrario, i limiti del progetto dell’I.A. sono insormontabili: l’inoltrepassabilità di ostacoli come il linguaggio, le emozioni e il corpo (che costituiscono un tutt’uno nell’umano) rende impossibile che una macchina possa diventare «una struttura che intesse di sé ogni processo intenzionale, ogni fenomeno qualitativo della vita, ogni comprensione della realtà che fa scaturire il mondo dalla mente e in essa, quindi, gli dà senso» (p. 44), cioè un essere umano. Dunque l’ibridazione: «non saranno le macchine a diventare intelligenti ma sarà il nostro corpo ad assumere al proprio interno la potenza percettiva e computazionale delle macchine» (p. 48).

Il capitolo quarto si interroga sulla definizione identitaria dell’umano, quando posto a confronto con l’artificiale. Di certo è nell’Intelligenza intesa come autocoscienza, come «facoltà di apprendimento rispetto al vissuto» (p. 66), che la nostra specie si caratterizza come umana. Eppure Alberto Biuso ritiene che il concetto di «umano» sia sempre in evoluzione – seguendo l’ottica di antropologi come Lorenz, Eibl-Eibesfeldt e Gehlen – e che dunque sia possibile transitare dalla forma biologica ad una nuova forma computazionale dell’umano, conseguenza necessaria «della ricchezza dell’essere rispetto agli schemi nei quali cerchiamo di rinchiuderlo» (p. 64).

Ecco che negli ultimi tre capitoli Biuso sintetizza efficacemente le proprie posizioni, rendendo manifesta la propria «prospettiva post-umana» nel campo antropologico, in relazione all’I.A.: «è sull’antropologia quindi – afferma – che bisogna fondare la comprensione delle macchine, sulla conoscenza dell’ente nel quale natura, razionalità e tecnica si raggrumano e diventano storia» (p. 79). Il filosofo ribadisce efficacemente che «il limite di fondo di una parte consistente della cybercultura sta proprio nell’ignorare il tempo e la corporeità, come se l’homo sapiens potesse trasformarsi in homo cyber lasciando dietro di sé il corpo, giudicato […] un oggetto a noi esterno» (p. 85), ricordando invece il monito di Nietzsche – filosofo oggetto di studio più che decennale di Biuso – che, in Così parlò Zarathustra, ci dice: «corpo io sono in tutto e per tutto, e null’altro».

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