Dello spazio

CUECM, Catania 1990
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Se davvero lo spazio, inteso nel senso filosofico del termine, è ciò che stempera “la vista acuta di greco”1 tipica di Socrate, questo squisito Dello spazio di Raciti in qualche modo pare una lente che ne corregge la portata tentando un riassetto della filosofia occidentale che sembra non essersi “più riavuta dallo sforzo durato da Socrate a contemplare l’anoraton2. Se, infatti, è vero che nello spirito greco vi è questa simbiosi tra il vedere (sensibile o intellettuale) ed il pensare, allora è più che lecita la domanda platonica del Timeo su qual mai possa essere lo statuto teoretico della spazialità, dacché quest’ultima è “invisibile”. Proprio per questo l’audace e pregna analisi filosofica di Raciti, analisi che discorre su alcuni fondamentali momenti e personaggi della filosofia e della letteratura occidentale, appare illuminante d’una luce che svela la terribile realtà spaziale.

D’altro canto, queste pagine di Raciti rendono anche contezza di come il rapporto con lo spazio si sia in qualche modo capovolto lungo il percorso che da Platone porta alla contemporaneità: per il primo un rapporto cursorio con lo spazio, quale quello intrattenuto dai sofisti che viaggiano di città in città, è fonte di “cattiva scienza3, mentre Rosenkranz, biografo di Hegel, reputa quest’ultimo “un uomo «fortunato», poiché, appunto non indugiava mai troppo a lungo nelle città ove si recasse a vivere”4; una lunga permanenza nello stesso luogo avrebbe fatto sì che lo “spirito locale” dominasse sul filosofo. Lo stesso Hegel dice di non poter sacrificare il proprio destino all’amenità dei luoghi che lascia. Giusta quindi la domanda se lo spazio costituisce come un “intervallo che sdoppia e polarizza (senza recuperi dialettici) il soggetto e l’istituzione, la parte e l’intero – il professore… e la cattedra”5. Se Hegel avverte una certa dissonanza costituita dal problema dello spazio tra l’accordatura etico-tonale del soggetto e l’istituzione, allora davvero lo spazio potrebbe essere “l’intervallo” dove non ha luogo l’etica. Insomma, se il problema dello spazio dovesse in qualche modo non permettere il compimento etico-istituzionale del soggetto, allora lo spazio stesso sarebbe come una sospensione dei valori.

Kant aveva affrontato, nel periodo pre-critico, la stessa questione dello spazio ponendola su altre basi. Contro la successiva speculazione romantica che qui viene presentata, riguardo a questo tema, come una progressiva e profonda “neutralizzazione concettuale della spazialità”6, in uno scritto del 1768 intitolato Del primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio Kant aveva trattato della spazialità connettendola alla cosmicità ed al corpo. Innanzi tutto, il filosofo precisa che la relazione di una cosa con l’altra nello spazio è la posizione e, invece, la regione è il rapporto del sistema di queste posizioni con lo spazio cosmico assoluto. Egli cerca una prova che serva ai “geometri” e vuole dimostrare parimenti la realtà e l’assolutezza dello spazio, contro la relatività leibniziana e l’astrattezza newtoniana. Per Kant “lo spazio è assoluto in quanto è reale, ed è reale in quanto è assoluto” ed è questo ciò che fonda il concetto di cosmicità. La regione è ciò che permette ogni possibile relazione e quindi ogni sistema di posizioni; ma cos’è la regione? Come si accede al concetto di regione? Una regione è aperta quando due opposti incongruenti, cioè due sistemi di posizioni simmetrici e struttivamente identici, non sono sovrapponibili e perciò non esauriscono lo spazio. Facciamo un esempio: la mia mano sinistra e la mia mano destra sono perfettamente simmetriche e identiche da un punto di vista strutturale; tuttavia, se io le metto l’una sopra l’altra non sono sovrapponibili; lo spazio non si esaurisce. L’inesauribilità dello spazio, lo scarto prodotto dagli opposti incongruenti, fonda così il concetto di cosmicità . L’inesauribilità dello spazio si rivela demolitrice, oltre che della posizione leibniziana, della “nostra pratica dell’identico”7; ciò che chiamiamo “identità” è fondata in ultima analisi sul modello dell’autocoscienza, pensando ad un fenomeno di sovrapposizione tra la coscienza ed il suo “doppio”; ma alla stregua degli opposti incongruenti, la coscienza ed il suo “doppio”, quasi che la coscienza si guardasse allo specchio, non sono sovrapponibili. Anche qui uno spazio inesauribile che fa da “intervallo posto a mezzo tra il soggetto e la sua immagine”8.
Del resto, la cosmicità è data dal rapporto delle tre dimensioni dello spazio con il nostro corpo. Si tratta dell’orientazione del corpo nella sua fondamentale cosmicità che così permette di distinguere tra la destra e la sinistra, l’alto e il basso, il positivo e negativo. Raciti mostra ciò con una similitudine che egli stesso definisce “un po’ artificiosa”, ma che trovo davvero efficace: qualcosa di simile allo sdoppiarsi fondato sull’inesauribilità dello spazio “avviene nello sviluppo di un’istantanea: se si calcola male il tempo e si snuda la foto in anticipo, lo scarto tra il positivo ed il negativo diventa ‘visibile’ lungo i margini della foto. Questo fenomeno chiarisce come una semplice alterazione del tempo sia sufficiente a provocare un’immediata irruzione spaziale”9. Se già accedo alla cosmicità ed all’orientamento nello spazio cosmico assoluto mercè l’incongruenza delle mie mani e dei miei piedi ed anche in considerazione delle tre dimensioni dello spazio che si rapportano col corpo, tanto più allora la corporeità diventa fondamentale per assicurare realtà e assolutezza all’inesauribile spazialità.

Tuttavia, per la questione dello spazio e della sua realtà oppure della sua terribile realtà, il passo decisivo è costituito dal confronto con Heidegger. Quest’ultimo, già nella costruzione sintattica della domanda fondamentale di L’arte e lo spazio rivela una localizzazione dello spazio. Cosa vuol dire? Innanzi tutto ripetiamo la domanda heideggeriana: come accade il fare-spazio? Forse adesso risulta più palese il significato di localizzazione dello spazio: schiacciare lo spazio sul luogo, togliere realtà allo spazio e farne un accadere: “il luogo non è, secondo la prospettiva heideggeriana, una semplice porzione di spazio, ma piuttosto l’impronta di un evento destinale”10. Solo perché si dà essere c’è spazio e non come, sostiene Nietzsche11, il contrario. Per Heidegger, citato da Raciti12, “dovremmo imparare a capire che le cose stesse sono i luoghi e non soltanto appartengono a un luogo”. La questione dello spazio è in Heidegger di grande importanza. Non solo perchè molto presente sin da Essere e Tempo ma anche perché secondo il Mazzarella di Tecnica e metafisica proprio quest’ultima opera rimase incompiuta dacché la sola determinazione temporale come senso dell’essere dell’esserci non era sufficiente per poter pensare la temporalità dell’essere in generale; quindi opera negli scritti successivi di Heidegger quello che sarebbe un recupero tardivo della spazialità. Ebbene, Raciti discute e tenta di confutare questa ipotesi, o, meglio, vuole verificare se effettivamente Heidegger riesca compiutamente ed efficacemente a recuperare la spazialità. In Essere e tempo è ben chiara la distinzione tra mondo e spazio: l’esserci non è “nel mondo” come l’acqua è “nel” bicchiere. L’esserci proprio perché ha come essenza l’esistenza è nello-spazio solo sul fondamento del suo essere-nel-mondo e ciò dimostra che “lo spazio non riguarda in senso stretto l’esserci; quest’ultimo dispone piuttosto di una peculiare spazialità costantemente mediata attraverso il filtro di una mondità originaria”13. Per Heidegger la pura e semplice spazialità sembra essere una determinazione dell’ente avente il carattere della semplice-presenza e che li imprigiona in una “teoria di scatole cinesi”14 per cui ogni ente è spazialmente contenuto da un altro (l’acqua dentro al bicchiere, il bicchiere dentro la stanza, la stanza dentro la casa e così via); l’esserci, invece, proprio perché esiste è in-un-mondo aperto. Ad un primo sguardo, dunque, la spazialità ed il mondo appaiono irriducibili; ma Heidegger rifugge da ciò perché altrimenti “la spazialità acquisirebbe la temibile autonomia dell’alterità”15. La questione, a questo punto, è risolvibile solo ontologicamente: solo quando sarà svelato cosa mai significhi in generale essere il mondo e lo spazio potranno trovare il loro connettivo; e dacché la temporalità è per Heidegger l’orizzonte del problema dell’essere, allora ciò che potrà connettere mondo e spazio è la temporalità, ma non la Zeitlichkeit, cioè la temporalità propria dell’esserci, bensì la Temporalität, la temporalità ontologicamente autentica, la temporalità dell’essere. Cos’è, però, ciò che permette di passare dalla temporalità dell’esserci alla Temporalität? Non c’è il rischio di rimanere confinati in un orizzonte trascendentale e non coglierla? Effettivamente, l’unico modo per non ri(con)durre la Temporalität alla Zeitlichkeit è solo “il recupero effettivo della spazialità”16. Difatti questo recupero avviene? Secondo Raciti no, e vedremo perché. In Zeit und Sein (Tempo ed essere) Heidegger utilizza spesso e spiega la parola Lichtung, dicendo che essa significa prima di tutto un luogo aperto, un luogo reso accessibile, facile, una radura dove filtri la luce; questa radura “è sopratutto uno spazio aperto «temporalmente», prova ne sia il fatto che tale apertura diradante si produce nel punto di confluenza delle tre dimensioni del tempo: «ad-venire», «essere-stato» e «presente»”17; l’espressione che denota questo confluire temporale spazialmente aperto è ZeitRaum che si distingue da Zeitraum poiché quest’ultimo è il tempo “della fisica”, cioè il tempo calcolato. Il recupero grafico indicato dal trattino, non è altro, secondo Raciti, che la sospensione dello spazio al tempo; sarebbe a dire che non siamo di fronte a nessun recupero; semmai, col movimento che appropria e com-propria le tre dimensioni del tempo nel loro coappartenersi, lo spazio viene a configurarsi come la quarta dimensione del tempo e nulla più. Lo spazio, in definitiva, è schiacciato sul tempo. Il recupero della spazialità che doveva approdare alla conclusione: ZeitRaum non giunge che ad una riproposizione della concezione dell’opera del 1927 sospendendo lo spazio al tempo. Davvero pare che “il cammino è circolare e la Kehre è la necessaria inarcatura che assicura la circolarità di questo percorso”18. La conclusione più importante, a questo riguardo, è che “ri(con)durre lo spazio al tempo è la stessa cosa che «idealizzare» lo spazio: significa stabilire un rapporto di «specularità» tra il tempo della coscienza e lo spazio della cosa”19. Tutto questo, a sua volta, significa volere eliminare ogni incongruenza, pertanto Raciti può giustamente concludere il capitolo su Heidegger, dopo avere ricordato con Nietzsche che spazio e tempo ideali, con l’eliminazione dell’incongruenza, vogliono dire nessun male, nessun peccato e perciò una giustificazione di Dio, dunque può giustamente concludere che “l’analitica esistenziale è una teodicea20.

Lo spazio heideggeriano non è ciò nondimeno ancora del tutto preso in analisi. Il rapporto dell’uomo allo spazio, secondo Heidegger, non è altro che l’abitare pensato in guisa essenziale; abitare, inoltre, non significa infine che avere familiarità; essa è ciò che fa percorribile lo spazio all’uomo. Con un colpo d’occhio non indifferente, Raciti, avendo un riferimento filosofico-letterario, chiede: “ma che cosa accade se l’orizzonte mondano di colpo si restringe drasticamente e il soggetto è irrigidito nella morsa del terrore?”21. Esaminando due tra i più suggestivi racconti di Edgar Allan Poe, Raciti ne mette in luce l’acuta euristica del terrore fondata proprio su quella familiarità tanto sbandierata da Heidegger. I protagonisti di Berenice e de Il crollo della casa Usher sono “malati” di una sorta di monomania che li inchioda terrorizzati a fissare e ragionare senza alcuna deduzione su oggetti o pensieri privi di importanza, “irrilevanti”, come traduce Raciti. A differenza della rappresentazione che attiva la facoltà speculativa per cui l’oggetto ci ri-guarda, ci restituisce lo sguardo e perciò ci rassicura mostrandosi in nostro completo dominio, a differenza, dunque di questo, la facoltà attiva nei due protagonisti è l’attenzione, che lascia dominare l’oggetto e lo lascia apparire in tutta la sua terribile realtà: “la differenza tra l’oggetto della rappresentazione e l’oggetto dell’attenzione è tutta qui: il primo è una superficie ‘riflettente’, ossia è ‘oggetto di riflessione’; il secondo è una superficie ‘assorbente’. Il carattere di irrilevanza dell’oggetto dell’attenzione fa capo a questa irriducibile opacità. L’opacità dell’oggetto, la sua irrilevanza e difettosità sono all’origine del sentimento del terrore”22. Il cerchio si chiude qui: la familiarità heideggeriana (definita da Raciti “fenomeno da baraccone”23) elimina la realtà perché elimina il terrore dell’oggetto che non si lascia rappresentare e con ciò dominare. Un ponte che io posso attraversare perché mi è “familiare” acquista realtà e perciò terrore quando crolla ed “anche il family mansion degli Usher non è mai tanto reale come quando, in una notte persa e scintillante, rovina sui corpi orribilmente avviticchiati di Roderick e Lady Madeline”24. La cosa con la sua terribile realtà spaziale emerge quando si rende opaca al nostro sguardo goloso di rappresentazioni. Il terrore esercita il suo fascino ammaliatore perché quasi verrebbe da dire che quanto più c’è terrore, tanto più c’è realtà. In apertura ho definito questo libro “squisito”; ebbene riconfermo il giudizio e concludo citando ancora Raciti: “il terrore è un’introduzione alle delizie dello s-patium25.

9 responses to “Dello spazio

  1. Affascinante. Come, del resto, ogni argomentazione del Prof. Raciti. Credo però che sia lasciato poco "spazio" ad un dialogo con l'opera, che appare monolitica. Grazie per questa interessante recensione, Cateno. Come invito alla lettura, nel mio caso essa "sfonda una porta aperta" come si dice: è molto tempo che ho intenzione di leggere questo scritto, ma non l'ho ancora fatto. Funziona perfettamente come introduzione. Complimenti.

  2. Ho letto due volte il libro, forse anche tre: pochi libri come questo mi hanno fatto rappresentare un problema filosofico in termini così vitali e poco banali; ringrazio altresì l'autore del libro per avermi offerto l'occasione di seguire, alcuni fa, uno splendido corso sul rapporto tra Occidente e Oriente a partire da Hegel, Foucault e Spengler.
    Perchè non proporre all'autore di organizzare qualche seminario e/o pubblico incontro extra-didattico per discutere e approfondire qualche spunto tratto dal libro in questione (o altro a lui attualmente a cuore?)

  3. Ciao Aleister!
    Avevamo pensato, effettivamente, ad organizzare dei seminari tenuti da docenti della nostra facoltà.
    Lo "spazio" potrebbe essere un ottimo tema comune di discussione!

  4. “Un bambino un giorno andò fuori a giocare quando aprì la porta di casa egli vide il mondo, nel passare attraverso la porta per uscire egli causò un riflesso ,il male era nato e seguiva il bambino”

  5. Leggo ora dopo tre anni dalla sua scrittura questa recensione.

    E mi viene in mente questa citazione da un corso di Heidegger del 1934, l'anno successivo l'ascesa al potere di Hitler.

    ”I popoli non entrano nella storia come se la storia fosse uno spazio già predisposto per fornire loro un rifugio, una strada già presente, che dovrebbero limitarsi a percorrere; invece “fare storia” significa creare lo spazio ed il suolo. “Fare”, qui, non significa produrre nel senso in cui si può produrre una cosa e conservarla"

    Non si entra nello spazio se non per la porta storica per Heidegger. Inoltre non vi si entra come dentro una abitazione già pronta. La creazione dello spazio è un portato del fare storia. Si crea spazio come si fanno le strade. Da qui, un deserto non sarebbe spazio, se non per le linee carovaniere che lo attraversano. Lo spazio è il suolo delle percorrenze.

    Tuttavia c'è una declinazione propria di Heidegger della capacità di produrre spazio da parte dell'esserci. Non è attraverso l'Idea, intesa come Forma pura conservata del passato, come misura e determinazione matematica e congruente, lineare e istantanea di un fluire che non è più.

    Questa sarebbe la produzione dello Zeitraum /Zeit-traum (= spazio del tempo, spazio temporalizzato, e insieme sognato, fantasticato, spettrale) ovvero il tempo della flussione Newtoniana, il tempo che scorrendo produce e conserva solo spettri infinitesimali dominati da calcoli.

    Anche secondo l'intenzione di Heidegger occorre sottrarsi alla identità e alla identificazione formalizzate ed esatte, perfettamente congruenti, che non sono altro che le forme inautentiche e spettrali del tempo passato e conservato.

    Per questo nella citazione che ho riportato ho lasciato la frase:

    " “Fare”, qui, non significa produrre nel senso in cui si può produrre una cosa e conservarla".

    Anche Heidegger ha pensato l'inesauribilità della cosa in un fare che è poiesis e non mathesis.

    Sulla Lichtung, che Heidegger esplicitamente collega ai termini latini della claritas, della serenitas e della hilaritas. Certo se la poniamo come condizione trascendentale di ogni Raum, per cui si dà Raum sono se si ha la felicità di disporne ein raeumt, la ricaduta nello Zeitraum pare inevitabile.

    La domanda è: vi è anche una poesia del tremendo e dell'oscuro solo perché nelle radure delle foreste e nei vilaggi crepitano caldi i focolari ?

  6. La domanda era riduttiva, in effetti, dunque a parziale riconoscimento di quello che dici ora che ho tra le mai la conferenza di Heidegger su Hoelderlin e l'essenza della poesia, leggo che

    La poesia è l'opera più pericolosa

    e che non è scaldata al calore di un focolare ma esposta

    ai fulmini di un Dio.

    e che il poeta vicino alla follia dice di essere stato colpito

    dall'elemento potente, il fuoco dal cielo e dallo stesso Apollo.

    così alla fine, di colui che aveva cantato la Lichtung, Heidegger dice:

    Il chiarore eccessivo ha gettato il poeta nell'oscurità

  7. Supero l'imbarazzo di scrivere un commento ad un mio commento precedente, perché la mia riflessione è collegata al lapidario motto di Cateno.

    "non si dà poesia che non sia del tremendo e dell’oscuro"

    Io avevo scritto interrogandomi su Heidegger se non fosse per lui vero che "si dà Raum sono se si ha la felicità di disporne ein raeumt".

    Da questo discendeva la collocazione del Raum all'interno di un ambito trascendentale e temporalizzante.

    Quindi ogni fare umano fondante, ogni poiesis, sta in una allegria, è un sorriso dell'essere, una schiarita dell'essere.

    Nel libriccino intitolato in italiano Corpo e Spazio, Heidegger dice che lo spazio in quanto spazio, l'essenza dello spazio, Der Raum als Raum, attraverso un verbo raumen (non scrivo la dieresi). Se questo è vero per Heidegger lo spazio è una azione.

    Ma mi sono poi chiesto. Il lato tremendo e oscuro, terribile, dell'essere non riguarda l'essenza della verità, il suo disvelamento ? E' chiaro che anche per Heidegger deve riguardarlo. Se non ci fosse uno sguardo e un riguardo sul tremendo, questo non avrebbe semplicemente luogo, e non sarebbe poetabile.

    Ho tuttavia trovato in un altro libriccino di Heidegger, intitolato L'arte e lo spazio, l'angolazione, lo scorcio, entro cui è visibile e poetabile e quindi anche spaziale, secondo Heidegger l'oscuro.

    Essa appartiene sempre ad un luogo abitato, perché il luogo (Ort) può essere abitato nella Heil (trad. italiana felicità è troppo poco, perché il termine indica il nesso Consacrazione-Salvezza-Salute)ed è quindi una patria (Heimat), oppure nella Unheile della Heimatlosigkeit.

    Lo spazio è la condizione perchè si diano luoghi della Salvezza e luoghi del Male (Unheil non è questo ?).

    Finisco col dire che la proposta di Raciti, pensare l'essenza dello spazio senza pensare la forma trascendentale dell'abitare, credo possa avere una sua interna coerenza e una sua forza d'uscita da pensiero heideggeriano proprio nel rifiutare la dicotomia e la polarizzazione Salvezza-Dannazione con cui si poetizza la spazialità dei luoghi. Cosa avviene del pensare umano se riesce a stare nel luogo al di là dell'atmosfera serena o infernale che lo connota ? Nel campo di forze di quali forme viene deviata e accellerata la sua traiettoria ?

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