Enciclica «Spe Salvi»

Libreria Editrice Vaticana 2007
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Enciclica Spe Salvi

La speranza è indubbiamente uno di quei sentimenti che fanno sopportabile la vita umana, che rendono il tempo non solo memoria e nostalgia del già stato ma anche apertura all’inedito, l’ultimo bastione del senso.

Nel parlare della speranza cristiana, Benedetto XVI è consapevole di questa potenza antropologica della speranza, tanto da affermare che il vero oggetto dello sperare non è la vita per sempre ma la vita felice:

Ma allora sorge la domanda: Vogliamo noi davvero questo – vivere eternamente? Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo. Continuare a vivere in eterno – senza fine – appare più una condanna che un dono. La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine – questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile» (§ 10);
«è vero che l’eliminazione della morte o anche il suo rimando quasi illimitato metterebbe la terra e l’umanità in una condizione impossibile e non renderebbe neanche al singolo stesso un beneficio. Ovviamente c’è una contraddizione nel nostro atteggiamento, che rimanda ad una contraddittorietà interiore della nostra stessa esistenza. Da una parte, non vogliamo morire; soprattutto chi ci ama non vuole che moriamo. Dall’altra, tuttavia, non desideriamo neppure di continuare ad esistere illimitatamente e anche la terra non è stata creata con questa prospettiva. Allora, che cosa vogliamo veramente? (…) Agostino, nella sua ampia lettera sulla preghiera indirizzata a Proba, una vedova romana benestante e madre di tre consoli, scrisse una volta: In fondo vogliamo una sola cosa – “la vita beata”, la vita che è semplicemente vita, semplicemente “felicità” (§ 11).

L’Autore analizza alcune delle forme più recenti e più diffuse della speranza, osservandone lo scacco storico, in particolare scientismo e comunismo. A entrambi egli rimprovera -e certo ha ragione- la dimenticanza del fatto che una natura umana esista ed è intrisa di una finitudine non redimibile né dalla strumentazione tecnologica né dai successi economici. Non solo: il Pontefice osserva acutamente che l’idea stessa di una utopia realizzata, di una condizione «irrevocabile» ancorché perfetta, sarebbe in realtà fonte di tristezza per il bisogno sempre rinnovato del nuovo. Davvero «l’uomo non può mai essere redento semplicemente dall’esterno» (§ 25) perché il fondamento della redenzione sta in una duplice condizione: nel sentimento potente e necessario del sentirsi amati, nella speranza che le condizioni del presente non siano le ultime, non siano definitive: «se non possiamo sperare più di quanto è effettivamente raggiungibile di volta in volta e di quanto di sperabile le autorità politiche ed economiche ci offrono, la nostra vita si riduce ben presto ad essere priva di speranza. È importante sapere: io posso sempre ancora sperare, anche se per la mia vita o per il momento storico che sto vivendo apparentemente non ho più niente da sperare» (§ 35).

Benedetto XVI si spinge al punto da ammettere (con accenti gnostici e marcioniti) che «l’ateismo del XIX e del XX secolo è, secondo le sue radici e la sua finalità, un moralismo: una protesta contro le ingiustizie del mondo e della storia universale. Un mondo, nel quale esiste una tale misura di ingiustizia, di sofferenza degli innocenti e di cinismo del potere, non può essere l’opera di un Dio buono. Il Dio che avesse la responsabilità di un simile mondo, non sarebbe un Dio giusto e ancor meno un Dio buono», rilevando comunque che l’umanità non può in ogni caso compiere ciò che rimprovera al Dio di non sapere fare: eliminare dall’essere la sofferenza: «nessuno e niente risponde per la sofferenza dei secoli. Nessuno e niente garantisce che il cinismo del potere – sotto qualunque accattivante rivestimento ideologico si presenti – non continui a spadroneggiare nel mondo» (§ 42). E, con un gesto che se liberato dalla componente apologetica appare persino “genealogico”, afferma la convinzione «che la questione della giustizia costituisce l’argomento essenziale, in ogni caso l’argomento più forte, in favore della fede nella vita eterna» (§ 43), confermando così -senza volerlo, certo- la tesi sostenuta da pensatori pur tra loro assai diversi -Spinoza, Marx, Nietzsche- secondo i quali il bisogno di eternità nasce dalla tristezza della vita e a esso non corrisponde alcuna realtà “eterna”. Con tali riflessioni, la Chiesa cattolica si conferma -secondo la definizione di Paolo VI- “esperta in umanità”, capace di una diagnosi antropologica spesso acuta e realistica.

L’Enciclica, inoltre, apre a una teologia del giudizio e dell’ “inferno” che vede in entrambi non la volontà punitrice di una entità superiore ma l’autoesclusione del soggetto dal numero dei salvati: «possono esserci persone che hanno distrutto totalmente in se stesse il desiderio della verità e la disponibilità all’amore. Persone in cui tutto è diventato menzogna; persone che hanno vissuto per l’odio e hanno calpestato in se stesse l’amore. È questa una prospettiva terribile, ma alcune figure della stessa nostra storia lasciano discernere in modo spaventoso profili di tal genere. In simili individui non ci sarebbe più niente di rimediabile e la distruzione del bene sarebbe irrevocabile: è questo che si indica con la parola inferno» (§ 45), riconoscendo -inoltre- che il “tempo” del purgatorio non possa essere naturalmente computato secondo le modalità degli anni terreni e terrestri; così come il “fuoco” non è una condizione fisica bensì, secondo l’«avviso» di «alcuni teologi recenti», sarebbe il fuoco di «Cristo stesso, il Giudice e Salvatore. L’incontro con Lui è l’atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo si fonde ogni falsità. È l’incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare veramente noi stessi» (§§ 47 e 48).

Dove il Documento difetta -insieme all’intera imponente Dottrina della quale costituisce solo la più recente espressione- non è nella diagnosi ma nella terapia. Nell’indicare, quindi, una speranza indimostrata e indimostrabile, dandola per sicura quando invece essa somiglia pericolosamente a una illusione incapacitante; nel ribadire l’equazione martirio=verità che è di una ingenuità estrema, visto che le dottrine più diverse e persino contrapposte hanno avuto ciascuna i propri martiri, e questo le renderebbe tutte vere…; nel portare come esempio di speranza la santa africana Giuseppina Bakhita, prima schiava e poi liberata, senza far cenno alcuno ai milioni di soggetti -in Africa come in America Latina- dei quali la Chiesa cattolica ma anche quelle protestanti accettarono la condizione schiavile, legittimando sottomissioni e stermini compiuti dalle potenze colonizzatrici; nell’affidare alla «Madonna» le esigenze degli umani; nel calunniare ancora una volta i popoli e i tempi pagani, affermando che «i loro dèi si erano rivelati discutibili e dai loro miti contraddittori non emanava alcuna speranza. Nonostante gli dèi, essi erano “senza Dio” e conseguentemente si trovavano in un mondo buio, davanti a un futuro oscuro» (§ 2).

È, come sempre, di fronte alla necessità di ribadire la propria universale e assoluta esclusività nel possesso di ogni Bene che il Magistero cattolico crolla al livello settario e arrogante che purtroppo intride di sé anche questo testo, per altri versi interessante e ispirato da una evidente passione filosofica. Passione testimoniata sia dai numerosi riferimenti a filosofi e intellettuali non solo cattolici (Ambrogio, Agostino, Massimo il Confessore, Henri de Lubac) ma anche lontani dall’orizzonte ecclesiale (Jean Giono, Francis Bacon, Kant, Engels, Marx, Lenin, Adorno, Horkheimer, Dostoëvskij, Platone), sia dalla raffinata distinzione -formulata in filosofia del linguaggio da John Austin in poi e qui esplicitamente richiamata dall’Autore- tra enunciati «informativi» ed enunciati «performativi»: «il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata» (§ 2). Ed è su questa dimensione temporale, il futuro, che il testo fonda le proprie argomentazioni. Futuro che ha un primato anche nelle analisi di un altro tedesco: Martin Heidegger.

All’ottimismo stucchevole e omiletico di Benedetto XVI faccia da necessario contrappunto una realistica osservazione di Céline, esperto anch’egli in umanità come i Reverendi Padri: «eppure si sarebbe dovuto capire quel che succedeva. Ondate incessanti di esseri inutili vengono dal fondo delle età a morire continuamente dinanzi a noi, eppure si rimane là a sperare tante cose… Incapaci persino di pensare a quella morte che noi stessi si è…» (Voyage au bout de la nuit).

14 responses to “Enciclica «Spe Salvi»

  1. Non ho ancora letto l’Enciclica (mi aspetta ancora là sulla scrivania); tuttavia dalle sue parole trovo confermate due mie convinzioni: la prima, ovvia, è che la Chiesa, sempre e comunque, non fa che tirare acqua al proprio mulino, riconducendo (come un mediocre genitore) tutto il bene e l’intelligenza a sé e scaricando il male all’umana, troppo umana umanità. La seconda, che da un po’ di tempo vado professando, trova la migliore espressione in queste parole di Heidegger: «Il fatto però che la fede politica totale e la altrettanto totale fede cristiana, nella loro inconciliabilità, si mettono nondimeno in relazione attraverso accomodamenti e mosse tattiche non deve stupire. La loro essenza è infatti la stessa. In quanto atteggiamenti totali, hanno entrambe nel fondo la rinuncia a decisioni essenziali. La loro non è una lotta creativa, bensì una “propaganda” e una “apologetica”.» (M. Heidegger, Contributi alla filosofia. (Dall’Evento), Adelphi, Milano 2007, pag. 67).

  2. E’ proprio vero: la riflessione cristiana, cattolica in questo caso, offre degli ottimi spunti; tuttavia, proprio quando si approssima al bersaglio lo manca deviando la traiettoria. Mette bene in evidenza il vuoto di valori e il disorientamento dell’uomo contemporaneo, ma piuttosto che comprenderne le cause reali e profonde propone un rimedio terapeutico in cui è sì implicita una ben presupposta eziologia, la quale sembra però essee non la ragione della terapia ma la sua spiegazione a posteriori. Così, pur di far corrispondere ai dubbi e alla sofferenza dell’uomo l’allontanamento, individuale o storico, dell’uomo dal suo creatore la riflessione cristiana si rende cieca di fronte alla reale portata delle altre prospettive di pensiero, pur non disdegnando talvolta di assumerle in sè in maniera eclettica. E’ per questa via che il papa può trovare motivi di consonanza perfino tra speranza cristiana e prassi marxista. Mi si permetta infine un esempio: nulla, negli ultimi scritti e discorsi della Chiesa cattolica, se sono stato un attento osservatore, getta luce sui processi di massificazione ormai evidenti a tutti che percorrono tutti livelli e gli ambiti della società (non solo occidentale). Si criticano con una certa regolarità il consumismo e i modelli edonistici (qui Epicuro c’entra poco per fortuna) ma non si capisce che il tutto vive prospero all’interno del sistema di masificazione. E del resto, come potrebbe la Chiesa accorgersene o condannarlo se poi ne fa un saggio uso? Cosa esiste di più massificante dell’uso della televisione (forse la sua fruizione) o dei grandi raduni o dei grandi pellegrinaggi? Cateno, servendosi di Heidegger, sottolinea come due fedi totali, al di là di appariscenti schermaglie tattiche, si somiglino nella loro essenzialità. Eccone un esempio: vicino a dove abito io hanno costruito due centri commerciali e alla confluenza delle strade che li collegano (si tratta di poche decine di metri di distanza) hanno posto una statua della Madonna: il consumo materiale e il suo corrispettivo religioso fanno il paio.

  3. Dove il commento – sorprendentemente e piuttosto ingenuamente – difetta è proprio la non considerazione che si tratta di un'enciclica, cioè di un documento magisteriale scritto ad illustrazione di una virtù "teologale" quale è la speranza: di qualcosa, insomma, che Dio fa nella coscienza e nell'anima di un essere umano. Ora, è comprensibile che uno che non conosca Dio si trovi in imbarazzo di fronte a certe affermazioni dell'enciclica, ed è comprensibile/apprezzabile anche che cerchi di giustificarle a partire dalle sue proprie categorie. Ma tale precomprensione deve dichiararsi serenamente e assolutamente inadeguata rispetto all'oggetto di cui si tratta, cioè a questa azione compiuta da Dio nell'essere umano che si chiama "speranza".

    Delle due una: o si prova a capire che cosa/chi dovrebbe essere questo Dio (asserito agente della speranza) di cui parla l'enciclica, o si lascia perdere e non si commenta, continuando coerentemente a dichiarasi incapaci di avere a che fare con lui, senza tirare in ballo la solita menata della spiegazione data a posteriori (cfr. Antonio). Non di spiegazioni a posteriori, si tratta: la questione è impostata a partire da un fondamento inevidente ma per niente irrazionale, che giustifica e sostiene tutto il processo successivo.

    Spiace verificare che Flores d'Arcais abbia epigoni così modesti. Per il futuro, consiglierei la lettura dell'enciclica al tavolo di studio (non nelle citazioni dei commenti già stesi da altri) e sconsiglierei anche la lettura fatta in bagno la mattina, appena alzati, o la sera tardi, che è lo stesso. Absit iniuria verbi.

    P.s. per Davide Dell'Ombra: "segnalo un'importante segnalazione" è un attimino tautologico.

  4. Efficace testimonianza, questa di Paolo Asolan, di una intrinseca incapacità di dialogo.

    L’autore del commento, infatti,

    – ritiene che per analizzare un testo pontificio o teologico sia necessario “conoscere Dio”, dichiarando, evidentemente, di avere una intrinseca familiarità con Lui;

    – invita al silenzio tutti coloro che non condividono il presunto «fondamento inevidente ma per niente irrazionale, che giustifica e sostiene tutto il processo successivo»; se seguissimo questo consiglio (o è un ordine?) l’unico dialogo possibile sarebbe tra soggetti che sono già d’accordo;

    – non reggendosi comunque all’altezza di simili presupposti, precipita negli insulti ad personam parlando di "modesti epigoni”, di letture distratte «fatte in bagno» (ecco il livello di Asolan!) o persino accusandomi di non aver neppure letto l’enciclica…

    La fede cristiana e la confessione cattolica si meritano assai di più e di meglio di apologeti che ricorrono a un simile armamentario polemico. L’”attimino” finale (una delle parole più orribili del linguaggio televisivo) rappresenta il degno compimento di questo testo.

  5. Caro Prof. Biuso, nel mondo dei blog e dei forum solitamente si direbbe: "don't feed the troll!" Ma, in questo caso, ha fatto benissimo a rispondere.

    Paolo, spero proprio che non ripasserai presto da queste parti. Sarebbe un attimino fuori luogo.

  6. Caro Giofilo,

    derogo alla tua speranza giusto il tempo di rispondere, considerando l'evidente attitudine dialogica del signore che mi ha risposto. Poi stai sicuro che non dispongo di così tanto tempo da poterne perdere a leggere considerazioni arroganti di persone piuttosto ignorantelle (pazienza, chi non lo è?) ma saccenti.

    – Innanzitutto, l'enciclica è diretta "ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, alle persone consacrate e a tutti i fedeli laici sulla speranza cristiana". Così recita l'esergo. A casa mia il destinatario determina anche la scrittura del documento. I destinatari sunnominati non mi appaiono atei.

    – Secondo punto: è nella natura del lavoro teologico (in quanto "scientia Dei" o "scientia fidei") presupporre la fede e dunque la conoscenza di Dio. Pensavo fosse addirittura un'evidenza interna della teologia.

    – Nessun invito al silenzio. Se le parole hanno un senso, c'era l'invito ad un'alternativa, e non solo al silenzio.

    – E' sorprendente che l'autore del commento – dai toni, questi sì, sprezzanti e arroganti, specialmente nella seconda parte – si senta offeso da quel che ho scritto. Comunque confermo la sensazione che si ricava da quel commento, di una lettura affrettata, piena di preconcetti, con giudizi che debordano dall'argomento per travolgere il magistero o la chiesa nel suo insieme ("il Magistero cattolico crolla al livello settario e arrogante che purtroppo intride di sé anche questo testo"; sottolineerei l'anche). Difficile cogliervi una completa lucidità razionale: e questa non vuol essere un'offesa, quanto l'ipotesi di interferenze emotive o biografiche che nulla hanno a che fare con la questione di che cosa sia la speranza e della possibilità che il papa di Roma sia abilitato a parlarne.

    – circa il riferimento a D'Arcais, voglia l'autore del commento rileggersi il numero di Micromega dal titolo "Dio esiste?" riedito per l'elezione di Ratzinger e si accorgerà di citazioni quasi testuali. Così pure il famoso libello "Contro Ratzinger". Anche qui, nessuna offesa.

    – D'accordissimo che la fede cristiana e la confessione cattolica si meritino assai meglio di me. Anzi: sono convinto che non ne abbiano proprio bisogno, se gli "avversari" (virgolettato, e usato solo per intenderci, dunque senza livore) sono di questo livello. Anche questo, detto senza offesa.

    – Ultimissima cosa: mi sarei aspettato, da un maestro dell'ironia e della battuta ad effetto, piena comprensione della presa in giro dell'attimino finale. Ai ai ai, signora Longari!

  7. Allora: «ignorantello, saccente, arrogante, plagiatore» (di Flores d’Arcais, che non leggo mai), «privo di lucidità razionale, emotivamente disturbato (“interferito”)», e soprattutto «ateo», cosa che non sono proprio…

    Ma è questo, caro Padre Asolan, il modo di essere fedele al suo Maestro? Di non giudicare per non essere giudicato, di rimanere mite e umile, di amare il prossimo, di abbracciare i nemici? Che Dio la perdoni!

  8. Pongo una sola domanda; non pretendo certo di entrare nel merito delle questioni inerenti all'enciclica con possibili obiezioni al nostro pio e devoto visitatore trevigiano. Del resto a quali argomenti dovrei obiettare? Però mi chiedo un attimino (viva le maleparole amate dal popolino sempre orgoglioso di sè!) come sia possibile che un cotanto dotto uomo illuminato dalla grazia divina risponda a degli asini che ragliano. A mio avviso è stolto se non perfino insano cercare di comunicare con un asino e personalmente non l'ho mai fatto. Detto questo mi chiedo se quella grazia divina faccia effetto sull'intelletto che ne dovrebbe beneficiare (ahinoi non ne beneficiamo) tanto quanto l'acqua santa del ridente centro turistico di Lourdes ne fa sul corpo.

  9. In merito al tema dell'Enciclica, ho da poco letto una intensa e vera affermazione di Marc Augé:

    "La storia è lenta e l'individuo invecchia alla svelta. Ma qualcosa nell'allegria sempre rinnovata dei politeismi (più preoccupati di rinascita che di eternità), nella serenità senza enfasi dello stoicismo e degli epicurei, ci dà a intendere che né la felicità né la coscienza hanno bisogno della speranza".

    (Genio del paganesimo, Bollati Boringhieri, 2002, pag. 301).

  10. Ho letto con molto interesse la recensione di Alberto Giovanni Biuso dell’enciclica di Ratzinger – Spe Salvi, credo l’ultima. La sua rilettura mi ha condotto a riflettere su qualcosa che ritengo un presupposto disputabile, e cioè che sperare che p comporti credere (con giustificazione, mettendo da parte la fonte della giustificazione, ragione o rivelazione o altro ancora) che p. La tesi principale di Ratzinger – ma credo di poter dire della dottrina cattolica – dice che fede e speranza vengono in un unico pacchetto, o meglio: non è che non ci siano fede e speranza al di là di quella unità, ma ciò che in questa zona troviamo è una fede o una speranza non autentiche. Ma è proprio così? Credo che alla base del presupposto che discutiamo ci sia la convinzione che se ciò che speriamo non è giustificato, allora noi non speriamo ma disperiamo. Vorrei suggerire di pensare alla disperazione in modo per così dire più naturale, e cioè come privazione di speranza. Non sto ovviamente sostenendo che alla speranza non si debba dare giustificazione, ma semplicemente che c’è speranza anche senza giustificazione e forse anche senza la possibilità di una giustificazione. Forse alla radice della mondanizzazione della speranza c’è l’esigenza di relegarla nell’ambito della dimostrabilità e più in generale della giustificazione. Quanto all’oggetto della speranza di cui tratta l’enciclica: personalmente non ho speranza nelle cose che non mi interessano e la vita eterna è qualcosa che non mi interessa, ma se ad essa comincio a guardare come a una possibilità di rincontrare persone care scomparse, di ricominciare daccapo relazioni definitivamente perdute, allora comincio a sperare, benché questo non significhi o non significhi ancora credere e a fortiori credere con giustificazione.

  11. IL PONTEFICE COME GIUSTAMENTE EVIDENZIA UN MIO AMICO ERRA NEL RITENERE I POPOLI PAGANI POLITEISTI,COMUNQUE ANTECEDENTI A CRISTO SENZA DIO, E NEL BUIO,SENZA SPERANZA.QUESTA SPERANZA INFATTI NON PUò ESSERE CHE CONSIDERATA INTRINSECAMENTE CONNESSA AL CONCETTO DI AMORE(A-MORS)CIò CHE NON MUORE MAI,E SE DEUS CARITAS EST è NATURALE PENSARE CHE QUELLE PERSONE ERANO CON DIO E DIO ERA CON LORO QUANDO AMAVANO,COME ACCADE ESATTAMENTE OGGI QUANDO FACCIAMO RIFERIMENTO AI COSIDDETTI ATEI E AGNOSTICI.SI CREDE IN DIO E SI CONOSCE DIO QUANDO SI ESPRIME QUESTA TRAVOLGENTE FORZA IMMORTALE CHè è L'AMORE SPERANZA DI SALVEZZA ETERNA

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