Homo Cyborg

Elèuthera, 2004
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Sta profilandosi all’orizzonte culturale umano l’intersezione di due dei più potenti fenomeni che ereditiamo dai nostri genitori: il pancapitalismo e il postumanesimo. Due colossi dello sviluppo umano che, se o quando saranno uniti, genereranno gli scenari terrificanti che abbiamo letto nella produzione fantascientifica di quasi un secolo – da Metropolis di Fritz Lang (1926) a Matrix di Andy e Larry Wachowsky (1999) – ma che già, in maniera indipendente, hanno messo in crisi l’essere umano: il pancapitalismo (dacché imperante e senza altre vere alternative) da un punto di vista economico e sociale, il postumanesimo da un punto di vista psicologico. A differenza del primo, però, il postumanesimo è una necessità: l’uomo, per quanto possa dominare la propria evoluzione, è soggetto ad essere superato da se stesso, in una sua versione evolutiva superiore. Che sia decadenza o altro, non è il caso di discutere. Di certo, il tempo post-umano verrà, se già non è arrivato. Il tempo pancapitalistico invece è una forma di masochismo gratuito e assolutamente non necessario, semmai deprecabile e da abbandonare quanto prima sarà possibile.

Naief Yehya (Città del Messico, 1963) è molto attento a questo pericoloso intersecarsi dei due fenomeni e ne discute nel suo Homo cyborg. Il corpo postumano tra realtà e fantascienza (El cuerpo transformado, 2001; trad. it. di C. Milani e R. Schenardi, Elèuthera, Milano 2004)1.

La scienza, la religione, la politica (sociale, economica e militare) e la sessualità sono tutti aspetti che trattando della natura umana vengono necessariamente chiamati in causa e discussi in questo agile (160 pagine) e attualissimo volume.

Si parte dal presupposto – dallo spirito wittgensteiniano – che anche «se la scienza è riuscita a sezionare il corpo umano dal punto di vista anatomico, biologico e fisiologico, non ha per questo risolto i veri enigmi della vita» (Ivi, pag. 108), perché «il corpo è la vera chiave per decifrare l’enigma dell’essere» (Ivi, pag. 121), scrive Yehya.

Fino al ventesimo secolo, i tentativi di superare in modo decisivo le limitazioni biologiche e fisiche si identificavano fondamentalmente con l’occulto e si incarnavano nel sacerdote, nello stregone e nell’alchimista. Ai nostri giorni, questa ricerca prosegue nelle mani degli scienziati, che cercano le stesse cose con nuovi strumenti. In un’epoca nella quale la scienza ha lottato per distruggere l’idea della vita eterna nei cieli, ci sono scienziati che si sforzano di offrire la vita eterna in cambio dell’accettazione del fatto che il corpo non è più il supporto vitale del DNA, una macchina di carne programmata per preservare al di sopra di qualsiasi cosa il gene «egoista», come è stato battezzato da Richard Dawkins. (Ivi, pagg. 121-122)

Proprio sui corpi – e con i propri corpi – religiosi e scienziati dibattono incessantemente, alla luce delle nuove sperimentazioni tecnologiche. Rileva però l’autore, a proposito di una di queste sperimentazioni più recenti, una serie di paradossi.

Il paradosso è che i sette gemelli non sono il prodotto della natura, bensì dell’utopia di una vita migliore grazie alla chimica. Analogamente, è paradossale che i gruppi religiosi che si oppongono all’aborto e ai metodi anticoncezionali non condannino il ricorso ai farmaci fertilizzanti che hanno trasformato Bobbi [la madre] in una superincubatrice umana, in un esperimento delle potenzialità della donna come ape regina, e in un cybermito istantaneo. (Ivi, pag. 95)

Scienza e religione si incontrano in modi talvolta imbarazzanti: Yehya si sofferma infatti a trattare un testo recentemente uscito di un noto e prestigioso fisico, Frank Tipler, nel quale viene dimostrata con una teoria presunta scientifica tanto l’esistenza di Dio quanto il paradiso e la vita eterna, per mezzo della maccanica quantistica, della relatività generale e della teoria dell’informazione2. A proposito del dibattito sul creazionismo, Yehya scrive:

È incredibile che, malgrado si sia nell’epoca dell’informazione e si stia penetrando nel dominio dell’origine della vita, demolendo il mito della creazione, si debba continuare a conservare l’illusione di un ordine divino fabbricato da un essere onnipotente. (Ivi, pag. 138)

Di fronte alle ultime scoperte, infatti, i rapporti tra scienza e fede diventano sempre più difficili anche e soprattutto perché in mezzo sta sempre – come detto prima – il capitalismo: «Il fatto che l’uomo si appropri del codice della vita per sfruttarlo sul mercato è una colossale bestemmia per coloro che sostengono che la vita è stata creata da Dio» (Ivi, pag. 139).

Gli esempi di produzione scientifica alquanto – per così dire – borderline non si limitano alla fisica, ma spopolano nell’informatica e in quella disciplina chiamata Intelligenza Artificiale: Hans Moravec ne è un esempio.

Anche se talvolta la sua prosa sembra fantascienza pura (o fantaeconomia, come in alcuni capitoli del suo libro Robot), Moravec è considerato uno scienziato serio, e i suoi libri si trovano negli scaffali dedicati alla scienza delle biblioteche e delle librerie. Le sue proposte, più che somigliare ai deliri ossessivi di qualcuno che si sia nutrito di fantascienza e provi un profondo disgusto per il corpo, hanno una sinistra connotazione tecnofascista, perfettamente in linea con l’ideale consumistico del capitalismo e con le brame tecnologiche delle grandi multinazionali. (Ivi, pag. 82)

Il disincantato Yehya ci illustra l’habitat naturale prospettato da Moravec per l’essere umano futuro come un deserto senza flora né fauna, senza variazioni climatiche, in cui i corpi – umani? – saranno «versatili transformer, indistruttibili, esenti dalle malattie come dall’alito cattivo» (Ivi, pag. 83); questo perché «La storia ci ha insegnato che dal momento in cui qualcosa è tecnicamente realizzabile, viene sempre portato a termine, a prescindere dalle conseguenze» (Ibidem). Questi pensatori presentano – spesso per loro stessa ammissione – molti tratti comuni con il profeta delle sette religiose, a conferma del rapporto ambivalente che può instaurarsi tra scienza e fede.

Altrettanto pericoloso può essere – come è – il rapporto tra scienza e potere militare (cioè economico). Lo stesso ideatore della cibernetica, Norbert Wiener, dovette affrontare molto presto il problema dell’applicazione militare della tecnologia: egli, ci racconta Yehya, «nel 1941 si dimise dall’Accademia nazionale delle scienze per protestare contro il modo in cui l’esercito finanziava certe aree di ricerca» (Ivi, pag. 30), non cercò più fondi statali per le sue ricerche e cominciò a scrivere di etica della scienza. Tuttavia «non si può parlare di cibernetica senza tener conto del fatto che si tratta di un prodotto della guerra» (Ibidem): grazie alle tecnologie descritte nel volume, «il soldato minaccia di trasformarsi non solo nel primo vero cyborg di primo livello, ma anche nell’esempio di come si possa migliorare il corpo in modo che svolga compiti specifici al servizio di una multinazionale» (Ivi, pag. 75). Difatti, sostiene l’autore, «Il cyborg è un prodotto della Guerra Fredda che è diventato il portavoce dei desideri e delle fantasie della postmodernità» (Ivi, pag. 51).

Considerevole parte del volume è dedicato al rapporto tra sessualità e tecnologia, all’interno delle meccaniche del potere. L’autore rintraccia con precisione e perspicacia l’origine dello sviluppo tecnologico delle intelligenze artificiali non solo nel conflitto tra i sessi per la conquista del potere, ma anche nell’insoddisfazione per la componente corporea che siamo. Nel rigetto del corpo in sé. L’attuale «onanismo cibernetico» (Ivi, pag. 24) sarebbe infatti il frutto di millenaria insicurezza maschile nei confronti della donna, sebbene nei tempi più antichi fosse ritenuta la madre della Terra.

Diventando più sofisticate, le civiltà hanno adottato religioni celestiali che collocavano i loro dèi in cielo, cosicché le dee terrene, così vicine al limo originario (nel quale si fondono il fango primigenio e il sangue mestruale), sono state cacciate e sostituite da divinità paterne e immacolate che fluttuavano sulle nostre teste. Il colpo fatale per i culti della Terra è stato la comparsa delle tre grandi religioni monoteiste – il giudaismo, il cristianesimo e l’islam – e in particolare l’universalizzazione dell’idea che le viscere della Terra occultassero l’inferno. (Ivi, pag. 109)

Allontanandosi dalla terra, l’uomo tenta di allontanarsi dai cicli naturali terrestri (come quelli femminili) e addirittura

Per sottrarsi al debito con la natura, l’uomo ha creato universi alternativi retti da leggi proprie; analogamente, per contrastare la propria incapacità di generare la vita, ha inventato la filosofia, la scienza, l’arte, la politica, gli sport e la tecnologia. In altre parole, la cultura cyborg è, almeno in parte, il risultato dell’insicurezza maschile di fronte al potere femminile. (Ibidem)

Ciò è rispecchiato ancora oggi nei contenuti proposti dal cinema e dalla televisione, seppure il cinema hollywoodiano – afferma Yehya – talvolta ha corso il rischio della censura per aver deciso di affrontare temi alternativi allo schema imperante3. Ed è in quest’epoca «malata di incontinenza dei media e infestata da tentazioni erotiche inorganiche» (Ivi, pag. 130) che si accentua l’insofferenza diffusa per le limitazioni del corpo, laddove la tecnologia è pronta illusoriamente ad assicurare «che tutto ciò che si può clonare può essere preservato, che si tratti della nostra cultura (sotto forma di copie digitali di documenti, immagini, film, suoni e musica), del nostro ambiente (microrganismi, piante e animali) o, naturalmente, di noi stessi» (Ibidem).

Per secoli l’Occidente ha trattato il corpo come se fosse obsoleto, sudicio e insignificante. Al giorno d’oggi, malgrado l’estesa conoscenza che abbiamo del nostro organismo, il corpo rimane un mistero, così come un motivo di frustrazione e di angoscia. (Ivi, pag. 129)

A caratterizzare Homo cyborg come utile, perché davvero breve, manuale sul postumano sono quelle parti nelle quali l’autore spiega con chiarezza la distinzione terminologica che esiste tra il cyborg, il robot e l’androide – entità spesso confuse. Esse, «sebbene siano tutte e tre creature artificiali, sono diverse per essenza» (Ivi, pag. 36). Mentre il robot è la macchina pura e semplice – come può esserlo una lavatrice – e l’androide è il frutto dell’immaginazione dei grandi autori  di fantascienza (per uno dei più grandi, Philip K. Dick, essi sono dei pericolosi simulacri dell’essere umano), la via di mezzo è il cyborg – un uomo ibridato con la propria tecnologia. La particolarità è che la tecnicità costitutiva dell’essere umano fa di ogni uomo un vero cyborg, dal presbite all’astronauta. «Il cyborg è una miscela di organico, mitologico e tecnologico; è un essere che ci ingloba e che ci portiamo dentro» (Ivi, pag. 37). Al di là delle nostre aspettative, piuttosto che «colonizzare le galassie, il cyborg ha conquistato lo spazio domestico» (Ivi, pag. 35). Meno entusiasticamente, Yehya afferma che

Il cyborg è il figliol prodigo del capitalismo patriarcale occidentale e della corsa agli armamenti, ma non è un essere rispettoso della propria eredità, e la sfida principale che affronta consiste nel superare il proprio creatore. (Ivi, pag. 53)

Tale superamento però avverrà probabilmente all’interno dell’essere umano, nel rispetto dell’essenza del cyborg: in fin dei conti, le sfide del postumanesimo sono quelle che vedono nella sempre crescente ibridazione dell’uomo e la macchina il futuro dell’essere umano.

Si può immaginare un mondo in cui alcune persone avranno delle interfacce installate nel midollo spinale fin dalla nascita o dall’infanzia, che cresceranno con loro e potranno collegarsi a qualsiasi tipo di macchine e database. Questo genere di integrazioni farebbe di noi dei degni rivali dei computer superintelligenti che compariranno nei primi decenni del ventunesimo secolo. Tutto ciò segnerebbe la fine delle scuole come le conosciamo e dei metodi educativi4. (Ivi, pag. 43)

Abbiamo detto all’inizio che, a differenza del pancapitalismo, il postumanesimo è una necessità evolutiva. Ciò si configura come un compito politico. Se è vero che «Nella società pancapitalistica il corpo, proprio come le macchine, le città, le fabbriche e altri prodotti della cultura, può – anzi, entro certi limiti deve – essere riconfigurato, perfezionato, sottomesso e guidato perché si conformi alle norme e ai valori imperanti» (Ivi, pagg. 71-72), allora sarà facile credere che

Forse una delle differenze più evidenti fra le classi sarà che gli individui privilegiati arriveranno in media a centocinquant’anni. E (…) in futuro la frattura fra poveri e ricchi si amplierà in maniera così drastica che gli individui appartenenti a una classe non potranno riprodursi con quelli dell’altra. Dopo qualche generazione in cui praticheranno diverse modificazioni genetiche senza mischiare i loro geni al di fuori del loro ambito sociale, le classi più ricche si trasformeranno via via in quello che gli aristocratici di tutto il pianeta hanno sempre sognato di essere: una specie diversa. (Ivi, pag. 104)

O ancora peggio, nella convivenza con cyborg di vario ordine e grado, l’uomo si troverà disadattato al mondo che un tempo era il suo: «gli uomini verranno emarginati da numerose attività, diventeranno incapaci di approfittare di progressi tecnologici o di capirli, proprio come oggi la grande maggioranza dei settantenni è incapace di usare Internet» (Ivi, pag. 150). Se è vero che bisogna abituarsi all’idea di essere costitutivamente ibridazioni, riconoscendo quindi che «il fatto di essere nati uomini non comporta necessariamente che si debba morire come tali» (Ivi, pag. 154), resta il fatto che il postumanesimo non rappresenta «un nostro nemico né un estraneo: è soltanto il nostro riflesso nello specchio della tecnoscienza. Il suo avvento, perciò, non è l’annuncio drammatico dell’apocalisse dell’umanità, ma un avvertimento dell’ultima fase di decadenza e dissoluzione della specie» (Ivi, pag. 84). Ecco la sfida del post: che ciò che è ante colga nel passaggio non una fine ma un nuovo inizio. Contrariamente a quanto sostenuto dal filosofo Eugenio Mazzarella nei suoi numerosi scritti5, «Per il postumano, i limiti del soggetto sono un’invenzione della cultura e non una certezza biologica» (Ivi, pag. 148); invece probabilmente in accordo con lui, Yehya conclude che

Il rischio principale imposto dallo sviluppo tecnologico, indipendentemente dai grandi e rapidissimi successi della scienza e della tecnologia, è quello di vivere in un’era dominata da utopie egoiste, segnate dalla promessa di rendere eterna la vita (o perlomeno di prolungarla senza limiti), di offrirci una prodigiosa abbondanza generata dalla nuova economia digitale, e in particolare di garantirci una libertà assoluta, non solo da autorità, governi, Stati e istituzioni, ma anche dai nostri simili e dai nostri stessi corpi. L’utopia socialista, in compenso, è stata distrutta, screditata e ridicolizzata, e ci si è lasciati alle spalle il sogno di una comunità umana solidale e fraterna. (…).

La nostra specie si definisce attraverso la preminenza e l’irreversibilità dei cicli vitali. La mortalità è la certezza del fatto che ogni istante è unico, e che la vita è irripetibile e preziosa. In un mondo dal quale sia stata sradicata la tragedia umana, morire senza lasciare traccia sarà forse l’unico atto rivoluzionario. (Ivi, pagg. 157-158)

Morire senza lasciare figli equivarrà allora a sradicare dal mondo la tragedia umana nell’immediato. Come dire – «Chi non fa figli fa un’altra cosa, rivoluziona il mondo»6.

10 responses to “Homo Cyborg

  1. E' una sorta di Posthuman in miniatura :-)

    La parte sul pancapitalismo ed i suoi legami con il postumanesimo, però, è interessantissima: nel libro ne parla molto e in maniera più approfondita?

  2. Sì, certamente. Tuttavia, avendo puntato molto l'attenzione su questo aspetto nello stendere la recensione (proprio perché come te l'ho trovato molto interessante), credo di aver reso la gran parte dei nodi concettuali della questione, in buona sostanza.

  3. Ritorno incidentalmente sul mio commento n. 4: mi sono espresso malissimo. Intendevo dire di aver espresso alcuni nodi concettuali del volume e non certo la gran parte – proprio perché mi sono concentrato su quelli economico-sociali, per così dire.

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