Il senso della mente

Bollati Boringhieri, 2004
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La scienza è l’orizzonte della conoscenza umana universalmente valida. Tale orizzonte è però tutt’altro che lineare e integro: presenta difatti ampi tratti in cui il sapere umano è discontinuo, dove mancano definizioni universalmente valide di molti concetti e dove interi campi del sapere stentano a riconoscersi. Quello della psicologia è un caso esemplare di tale frammentarietà e il concetto di mente è quello che potrebbe mettere in crisi i protocolli di validità universale di questo orizzonte che è la scienza.

Il fulcro de Il senso della mente. Per una critica del cognitivismo (Bollati Boringhieri, 2004) è proprio la chiara presa d’atto del vacillare di tali protocolli nel momento in cui bisogna affrontare una “spiegazione” appunto scientifica della mente. La scienza diviene dunque l’oggetto di questo studio, giacché non è il concetto di mente a doversi rinchiudere negli ormai troppo stretti canoni della scientificità bensì è la scienza ad aver necessità di ampliare o ad ogni modo modificare la propria connotazione universalizzante. L’autore del denso ma fruibile volume, Felice Cimatti, insegna Filosofia della Mente all’Università della Calabria e si occupa del mentale partendo dalle analisi dell’ultimo Wittgenstein e di Giorgio Prodi. Non è un caso che proprio attraverso la lente fornita dai contributi del filosofo austriaco Cimatti legga le attuali dispute sulla mente e che grazie ad essi tenti di risolverle, o comunque di dirigerle verso una nuova prospettiva.

Quale sia questa nuova prospettiva risulta chiaro sin dalle prime pagine dell’Introduzione. L’obiettivo di Cimatti è proporre un monismo che naturalizzi la mente ma che al tempo stesso non riduca la “natura” alla materia. Gran parte delle dispute filosofiche sul mentale oscilla tra, da un lato, la possibilità di ridurre i fenomeni mentali a eventi descrivibili in termini fisico-chimici – canone attuale della scienza – con la conseguenza di non “spiegare” gran parte di tali fenomeni, e dall’altro la possibilità di concepire la mente come l’unica vera forma naturale, secondo un criterio che risulta difatti “antinaturalistico”. Si tratta in entrambi i casi di concezioni monistiche, che cioè escludono la possibilità, di matrice cartesiana, che il mondo della mente sia distinto epistemologicamente od ontologicamente dal mondo materiale, dunque, come si è accennato, è la scienza a diventare l’oggetto della disputa: essa deve ancora descrivere i fenomeni con criteri esclusivamente riduzionistici o può ormai aprirsi a nuovi criteri capaci di “spiegare” la mente finora “irriducibile”? Per Cimatti la risposta è obbligata: la scienza studia la natura e la mente è un fenomeno naturale; se dunque la scienza attuale non riesce a spiegare la mente, allora dovrà essere modificato il suo statuto.

Il volume si presenta chiaro, ordinato e assolutamente profondo, componendosi tanto di proposte teoretiche quanto di critiche storiche. Accennate le prime, passiamo in rassegna le seconde. Volendole elencare nell’ordine in cui si susseguono nei capitoli, esse prendono di mira Barrhus Skinner, Noam Chomsky, Claude Shannon, Jerry Fodor e l’analogia mente-software, Sigmund Freud, Alan Turing e John Searle; disseminata in tutto il testo, giustificando il sottotitolo del libro, v’è infine la critica al cognitivismo.

Cimatti argomenta l’attacco al comportamentismo di Skinner (aggettivato bonariamente con termini quali «rozzo», «brutale» e «aborrito») sottolineandone l’assoluto disinteresse al «senso» di cui il linguaggio umano è intriso: la nozione skinneriana di «stimolo» (e di linguaggio ridotto a comportamento esterno) pretenderebbe la pertinenza al solo campo della materialità mentre, nota Cimatti, esso rinvia inevitabilmente al concetto di «mente» legato a quello di «significato», necessariamente sociale. Allo stesso modo è riduzionista Chomsky che, ribaltando la posizione di Skinner, riduce il linguaggio non a comportamento ma a grammatica universale innata («relazioni fra forme»), dove il senso «non è un fenomeno reale» (p. 59) e dove la comunicazione è un «epifenomeno», riducendo la mente al cervello. A trascurare ingenuamente il senso è anche il concetto fondamentale di «informazione», la cui formulazione classica fornita da Shannon (e Warren Weaver) presenta, sottolinea Cimatti, un «salto logico dal (presunto) non intenzionale all’intenzionale» (p. 83) che condurrà all’inefficace metafora fodoriana della mente come software, fondamento a sua volta dell’approccio cognitivista. Questo «salto» consiste nel ritenere l’informazione dotata di senso a prescindere da chi ne fa uso, mentre «qualcosa è informativo non di per sé, ma perché per qualcun altro ha un valore ulteriore che trascende il suo mero esserci come qualcosa [e, di conseguenza], solo per una mente esiste qualcosa come una informazione» (p. 82). Così, nell’ottica di Cimatti, l’unica differenza tra Skinner e Fodor resta il collocare le «cause» (materiali) per il primo all’esterno, per il secondo all’interno del cervello; per il resto entrambi riducono la mente a una «cosa» che solo come tale è scientificamente descrivibile: «nella mente cognitiva [di Fodor] la semantica non può trovare alcun posto, perché questa è rigorosamente una mente formale, sintattica» (p. 102). In trenta pagine Cimatti spiega perché la mente immaginata da Fodor sia scientificamente analizzabile solo se «svuotata» di contenuti (e di senso), dacché, insomma, «una teoria non intenzionale dell’intenzionalità presuppone proprio ciò di cui pretenderebbe sbarazzarsi» (p. 109), ossia la relazione semantica. E’ dunque il concetto di «causa» quello che oggi separa una teoria scientifica da una che si fonda su «ragioni»: le cause materiali dei traumi e dei fenomeni psichici erano quelle cercate con affanno da Freud nel tentativo di conferire scientificità alla psicanalisi. Cimatti critica dunque il tentativo di Freud perché modello degli atteggiamenti odierni di quegli ambiti di ricerca che si occupano dei fenomeni mentali, primo fra tutti la filosofia della mente. Tutto un interessante capitolo è dedicato dall’autore proprio a denunciare l’«arroganza delle cause» in ambito scientifico, concedendo poco spazio alle «ragioni» e alle «spiegazioni», necessarie per le azioni umane intrise di senso. Dopo aver criticato il modello mentale di Turing che assegna alla sua macchina la capacità di «leggere», dotandola quindi di un potere in realtà intenzionale, Cimatti dedica qualche pagina a prendere le distanze da chi tenta di evitare questo «disagio delle ragioni» di fronte alle cause, conferendo dei determinati «poteri causali» al cervello capaci di far «emergere» le qualità mentali. Difatti per l’autore «qui è evidente una grave confusione concettuale», perché «intenzionalità e causalità si collocano su piani logici distinti, e la soluzione di Searle è assolutamente equivalente (e insoddisfacente per gli stessi motivi) della ghiandola pineale di Cartesio» (p. 190), cadendo nell’«antinaturalismo».

Perché dunque il cognitivismo fallisce? Perché «ha molto da dirci sul cervello, ma nulla sulla mente» (p. 11): esso, secondo l’analisi di Cimatti, ignora la distinzione fregeana tra «senso» e denotazione», e rappresenta un passo indietro «già rispetto alla critica hegeliana alla frenologia, l’antecedente settecentesco della attuale teoria modulare della mente» (p. 29), che aveva sottolineato la distinzione tra un cervello, muta «cosa», come un cranio, e un movimento cosciente. Cimatti recupera alla fine il «terzo regno» postulato da Frege – etichettato come «mitologia» dal cognitivismo – in quanto «utile e anzi indispensabile per delimitare il campo del mentale» (p. 31).

Analizzate le critiche di Cimatti alla luce della sua prospettiva, è ora possibile capire in profondità la portata della sua proposta teoretica, tenacemente ancorata ad una lettura dell’ultimo Wittgenstein. Infatti la lettura del testo è accompagnata da un basso continuo rappresentato dal pensiero wittgensteiniano, posto come chiave interpretativa di ogni passaggio. Cimatti individua nella capacità di partecipare alla «forma di vita» dei «giochi linguistici» il «senso della mente». Ecco la «fallacia del riduzionista», ecco perché il riduzionismo è «scientificamente e biologicamente» inadatto a spiegare la mente, «perché cerca qualcosa dove logicamente non può esserci, cerca la vita nella non vita, il senso nelle cose, il linguaggio nello stimolo» (p. 64) mentre la vita è «quel che i viventi trattano come vivente» (p. 153), vivere è interrogarsi sul senso, che è il «gioco linguistico» in azione esteso alla comunità intera e interagente dei viventi capaci di linguaggio: «qualcosa può valere come stimolo […] solo perché un preesistente “gioco linguistico” lo considera pertinente» (p. 44), «c’è mente se ci sono già altre menti» (p. 198). In definitiva «il senso è quell’atteggiamento […] in base al quale mi viene spontaneo trattare un certo oggetto con cui interagisco […] come una cosa che vive» (p. 152). Quello che Cimatti propone è un «monismo biologico-linguistico» giacché «il linguaggio, come la vita, è appunto ciò che è, senza ulteriori qualificazioni» (p. 205). Come ebbe a dire Wittgenstein, citato nel testo, «la difficoltà, qui, sta nel fermarsi». Che la biologia umana coincida con il suo linguaggio è in fondo una tesi evoluzionistica molto più antica dell’evoluzionismo stesso, distinguendo l’uomo dagli ominidi proprio grazie alla capacità linguistica. Ed essendo, per Cimatti, mente e linguaggio «coestensivi», la mente si spiega solo con un monismo «che si basi sulle modalità tipicamente umane di rendere conto del mondo» (p. 145).

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