Introduzione al pensiero politico di Habermas

Mimesis, 2010
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Il perno su cui poggia la riflessione di Agnes Heller a proposito della questione etica consiste in un’estensione del discorso aristotelico: se per Aristotele la prudenza (la ben nota e multiforme phronesis) e la saggezza hanno «rilevanza morale» ma non sono in grado di «generare norme morali», per Heller «soltanto la ragione dialettica può pretendere a questo ruolo», solo «il ragionamento dialettico sulla validità delle norme» è in grado di fondere ragion pratica e ragione teoretica1. Possiamo allora guardare al profilo teorico di Jürgen Habermas come la speculare configurazione politica della riflessione etica di Agnes Heller. Habermas tenta infatti di riportare la questione politica all’interno della più ampia questione linguistica, posizionando ben al centro tra la società e le istituzioni la capacità deliberativa — il dialogo. Il dialogo è per Habermas il nucleo della politica del XX secolo, e dev’esserlo ancor di più nel XXI (l’Italia, diciamo così, parte allora dall’estrema periferia). Il rischio sta tutto nel “dilagare” della ragione dialogante, un dilagare che offusca il precipuo valore del dialogo all’interno di una società: la sua stessa razionalità.
Di questo dilagare, della condizione in cui versa il dibattito filosofico attuale sull’antica dialettica razionale e di come Habermas affronti la vexata quæstio politica, anche attraverso il confronto con la religione, si occupa Francesco Giacomantonio, dottore di ricerca e docente a contratto presso l’Università di Bari, nella sua Introduzione al pensiero politico di Habermas. Il dialogo della ragione dilagante (Milano, 2010). Si tratta di poco meno d’un centinaio di pagine, un volumetto agile e snello adatto agli atletici programmi didattici dell’attuale sistema universitario (ma potrebbe tristemente essere vero anche il contrario: l’attuale sistema universitario sembra infatti confezionato proprio a misura di testi agili e snelli come questo). Uno dei pochi difetti dell’agilità consiste nel muoversi talvolta con eccessiva disinvoltura: ecco allora che questioni delicate come il nichilismo heideggeriano2 vengono toccate troppo di corsa e, mettendosi nel mezzo anche i tipi troppo corsivi della casa editrice (quante virgole ci vogliono tra un soggetto e il suo predicato?), il risultato può apparire una staffetta concettuale fatta per cenni. Lo stesso Giacomantonio, nel recensire un testo di Giorgio Galli3, lamentava la stessa disattenzione nei confronti di Habermas e di altri fondamentali autori. Il punto, però, è che il testo di Galli (su Il pensiero politico occidentale) sfiora le cinquecento pagine proponendosi come ampio compendio delle questioni trattate, mentre quello di Giacomantonio s’impone scientemente di correre il rischio dell’eccessiva sinteticità per risultare, come in effetti risulta pienamente, un efficace résumé del pensiero politico di Habermas4. Messi di canto questi «dettagli interpretativi non sostanziali» (come lo stesso Giacomantonio rilevava in quella recensione), torniamo al punto in cui c’eravamo fermati e su cui ci soffermeremo fino alla fine: il rapporto tra politica e linguaggio.
«Habermas – afferma Giacomantonio – perviene nella sua teoria a un modello democratico definito deliberativo, che, a sua volta, si fonda su una concezione deliberativa della politica, basata su un procedimento che crea una connessione tra trattative, discorsi di autochiarimento e discorsi di giustizia»5. “Deliberare”, stando alla filosofia del linguaggio degli ultimi decenni, indica un processo che dalla sfera del linguaggio giunge diretta alla sfera della pratica, trasformandosi da intreccio di parole a rito sociale, “performando” la realtà dei parlanti; nel caso di una delibera politica, a essere toccate sono le sorti molto fisiche dei soggetti politici — di tutti noi. La legge è il più valido esempio di parole che si toccano con mano; più delle altre, quantomeno. Quello che Habermas al tempo stesso descrive e auspica è che la trattativa, l’autochiarimento e la giustizia camminino di pari passo: che il patto sociale sia basato su un ragionamento condiviso, non su un comando. Fuori luogo sarebbe qui discutere di quanto lontano sia da questo patto chi si contenta di un “contratto”. Ma, aggiunge Giacomantonio, «la democrazia deliberativa dipende (…) dalla vitalità del processo comunicativo che conduce alla formazione dell’opinione pubblica e delle decisioni»6. Ciò significa che la razionalità di un discorso politico poggia necessariamente sulla qualità della formazione del pubblico tenuto a partecipare alla conversazione: la capacità deliberativa di una democrazia è quindi direttamente proporzionale alla capacità di quel demos di maturare. Le cose, insomma, si complicano. E da ciò Habermas è avvertito, distinguendo infatti quei paesi il cui grado interno di «autoidentificazione collettiva» e «integrazione sociale» è piuttosto alto da quegli altri paesi che invece stentano ancora, per esempio, a separare l’«attività amministrativa da quella economica»7 (cosa di non poco conto). Ad ogni modo, la teoria comunicativa di Habermas intende scuotere la centralità logica dello stato nazionale per far posto ad un’idea più ampia di partecipazione politica, secondo cui il discorso politico sulle norme, la giustizia stessa e più in generale la ratio politica devono essere il frutto del dialogo col diverso, col distante, col differente. Più esplicitamente: l’«Europa avanguardistica del nocciolo duro non può rattrappirsi in una piccola Europa; deve piuttosto – come è spesso accaduto – fare da locomotiva» e dimostrare «che in una società mondiale complessa non contano soltanto le armate, ma anche il potere soffice dei negoziati, delle relazioni e dei vantaggi economici»8. Il dialogo politico, forma che intende oltrepassare, giovandosene però ampiamente, quella delineata dal concetto di ‘nemico’9, consiste dunque nella diplomazia — l’arte burocratica di ‘raddoppiare’ (diplóos) i documenti legali usata dagli antichi Romani per estendere la cittadinanza dell’impero, ovvero la più schietta politica dell’integrazione.
A questo punto si fa chiaro, come ci ricorda giustamente Giacomantonio, che il terreno su cui si muove Habermas è quello smosso da Carl Schmitt. L’«unità politica», che per quest’ultimo, in base a questioni prettamente etniche, è impossibile a realizzarsi, è per il primo (potremmo dire) un processo di ‘sdoppiamento’: duplicare l’editto nazionale per estenderlo all’«altro» e fare così di due — uno. Per questo è un affare ontologico, che per Giacomantonio si esplica in termini ben precisi: «la differenza più generale – scrive l’autore – tra una visione di tipo habermasiano e una di tipo schmittiano dello Stato si lega a una dimensione di percezione temporale dell’essere: mentre la prima, infatti, appare orientata al futuro e alla possibilità, la seconda è saldata al passato e alla necessità»10. Tra le due vie manca la terza: quella immersa nel presente. Piuttosto che discutere della politica in un caso come dialogo (Habermas) nell’altro come decisione (Schmitt), è forse più opportuno in questa sede (s’era promesso di parlare di linguaggio) concentrarci sul fatto che la «crisi dello Stato nazione» di cui Habermas intuisce i lineamenti corrisponde in realtà, con grande precisione, alla crisi della nozione di «stato». Grammatica11 insegna che l’essere politico si coniuga come “participio” (non a caso si dice, infatti, che la politica è partecipazione) e, a seconda del suo rapporto con il tempo, si divide in «ente» e «stato». L’ente è la partecipazione presente, la società per quella che è. Un intreccio vitale tra le istituzioni e la società ‘civile’ si configura necessariamente quale ente (perciò gli enti sono per lo più “locali”, ma possono e debbono essere più che altro sovranazionali). Lo stato, invece, piuttosto che intemporale (figurarsi!), è fuori dal tempo, ovvero è – come direbbe un franco italiota – senza Ètat. Lo Stato è un’astrazione, un’immagine storica, un idolo; l’Ente è invece la partecipazione attiva e concreta della cittadinanza (di qualsivoglia “entità”) alla politica. Lo «stato» configura la teoresi, l’«ente» la prassi; e tanto l’uno quanto l’altro restano allora in stretta relazione con la politica: il primo in quanto concetto, il secondo in quanto attività. Quando allora parliamo di «stato» dobbiamo escludere la possibilità di un suo ‘intervento’ politico nella vita reale dei cittadini: a intervenire (giungere cioè nel mezzo, tra istituzione e società) è e deve essere quell’ente che ci ostiniamo a indicare con il passato. Confondere «ente» e «stato» non è solo frutto di ignoranza grammaticale, è ancor più una mancanza di vivo senso politico: se la politica deve toccare la nostra vita, essa deve essere un’istituzione viva e vegeta, non una cristallizzazione minerale dello spirito statale, cioè di un concetto (per Hegel, il concetto). È una questione di regno: minerale è lo Stato come il quarzo, vegetale è l’Ente come ogni entità politica, animale è l’uomo che per vivere tiene insieme e sotto di sé gli altri regni. Il concetto, pesante come una pietra (se le parole sono pietre, Terminus è detta la pietra di confine), si sposta al pari di chi lo pensa e, quando viviamo dentro un concetto come lo Stato, esso per noi è un Ente. Se dunque lo stato è il passato, gli enti sono il presente (il participio non ha futuro, quantomeno dalla caduta dell’impero «dell’integrazione»).
È chiaro come il sole che coi concetti ci siamo mossi un bel po’ rispetto al testo di Giacomantonio, ma qual è il significato di un testo se non quello di spostare i concetti? Per questo i migliori libri, quelli che battono sentieri prima sconosciuti e ci portano lontano, li chiamiamo — pietre miliari.

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