La manomissione delle parole

Rizzoli, 2010
3 Comments

«Chiamare le cose col proprio nome, questo è rivoluzionario»: ecco il senso de La manomissione delle parole, il nuovo libro di Gianrico Carofiglio, edito da Rizzoli nell’ottobre 2010. «Non è una lezione, non è un manifesto politico, men che meno è una riflessione filosofica. È stato un gioco» (p. 123), commenta lo stesso autore. Tuttavia non è di un mero gioco erudito che si tratta, destinato a pochi amanti del genere, come di primo acchito potrebbe sembrare, perché ci troviamo di fronte a un’analisi filologica e linguistica che affonda le sue radici nella realtà, presente e passata, storica e quotidiana, e che consente al lettore l’agio di trarre conclusioni tutt’altro che fumose.

Le prime pagine presentano l’intento di riabilitare parole che sono state rese, per via di usi impropri e abitudinari, sgualcite e inefficaci come “bozzoli vuoti”. Ma il testo fa dell’altro: mostra, e non solo sul piano teorico, la sottovalutata potenza dello strumento linguistico. «Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico» (p. 40), scrive Carofiglio citando Victor Klemperer, autore di LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo.

Sono tanti gli intellettuali cui l’autore fa riferimento: dai più distanti Tucidide, Sallustio, Platone, Aristotele e Dante, ai più vicini Primo Levi, Gustavo Zagrebelsky, Enzo Golino, Nadine Gordimer, John Rawls, Albert Camus e molti altri; persino Bob Marley fa capolino nella sua lista di ispiratori. L’apporto inconsapevole che tali uomini hanno offerto al saggio di Carofiglio non ne sminuisce affatto l’originalità, semmai lo impreziosisce enormemente. Perché quello che essi hanno saputo raccontare, in un arco temporale tanto esteso, non avrebbe altrettanta forza e chiarezza se parafrasato, e in certi casi non mostrerebbe con altrettanta evidenza l’universalità degli effetti nocivi di una lingua manomessa. Uno dei testi di cui l’autore si serve sapientemente è 1984 di George Orwell. Romanzo nel quale The Big Brother, al fine di sottomettere gli abitanti di Oceania, impone l’uso di una Neolingua che svaluta e annichilisce gli ideali più pericolosi per la sopravvivenza del regime semplicemente facendone dileguare il nome. «Onore, giustizia, morale, internazionalismo, democrazia, scienza e religione avevano semplicemente cessato del tutto di esistere. Poche parole avevano la funzione di ricoprirle, e ricoprendole le abolivano. Tutte le parole che si raggruppavano intorno ai concetti di libertà e di eguaglianza, ad esempio, erano contenute nella semplice parola psicoreato» (p. 88).

La riduzione delle parole porta alla riduzione del pensiero nella distopia orwelliana, e la riduzione del pensiero alla docile accondiscendenza al volere altrui. Proprio con questa chiave di lettura va interpretato l’invito di Carofiglio a guardare al linguaggio come a un termometro di civiltà oltre che di cultura, come a un salvadanaio di valori oltre che di semplici vocaboli.

Invito da non prendere sottogamba, nell’era di Facebook, dei termini abbreviati e polivalenti di un italiano pigro e frettoloso, che tende ad assorbire verbi e parole e si diffonde per lo più attraverso i media. Spunti di riflessione su cui soffermarsi, nell’era in cui questi stessi media appartengono in gran numero a qualcuno che tutto sommato, se non fossimo troppo sicuri della nostra invulnerabilità mentale, potremmo considerare pericoloso e potente quanto un prossimo Big Brother.

Lo scrittore addita coloro che modellano la lingua a proprio vantaggio come ladri di parole, e non si ferma a un’accusa vaga e ideale: presenta piuttosto le prove di tali furti. Riportando alla luce elementi di particolare interesse dagli archivi giornalistici, Carofiglio si sofferma, ad esempio, sul ruolo delle scelte lessicali all’interno della politica italiana. Spiega il potere fuorviante della denominazione di lodo adoperata nella designazione di proposte di legge di tutt’altra risma; argomenta l’uso improprio di una gamma di vocaboli che senza diritto è entrata a far parte delle orazioni propagandistiche e non solo; racconta di come diversi giornali abbiano riferito la notizia dell’assoluzione o ancor peggio della vittoria in tribunale di Silvio Berlusconi, nel momento in cui l’accusa di corruzione a questi imputata nel caso Mills era semplicemente caduta in prescrizione. Come se determinati termini giuridici fossero interscambiabili o di eguale portata, e come se la semplice scelta narrativa operata da parte di un telegiornale non si erigesse a verità nelle menti degli ascoltatori.

La stessa riabilitazione delle parole, promessa nell’introduzione del testo, non è lasciata a stagnare su un piano teorico, ma viene messa in atto. Carofiglio sceglie di riabilitare cinque parole, per cominciare: Vergogna, Giustizia, Ribellione, Bellezza, Scelta.

Tanto di questi termini viene a galla, tanta forza ed emotività che il loro abuso tende invece a compromettere e far sbiadire. Lavoro compiuto per mezzo della suggestione letteraria, della ricerca etimologica e della componente storica che in un certo senso appartiene alla suddetta costellazione di vocaboli. Persino l’elencazione dei contrari proposti da un dizionario gioca un suo ruolo nel testo di Carofiglio. Un esempio su tutti (p. 117): alla parola Scelta accosta il contrario Indifferenza, che Antonio Gramsci, nel manifesto Contro gli indifferenti, definì come

la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall’impresa più eroica.

Quale nuova luce dà questa definizione di indifferenza, all’opposta scelta?

A conclusione del suo libro, lo scrittore pugliese pone un’inaspettata riflessione intitolata Le parole del diritto, nella quale accusa i giuristi di adoperare un linguaggio che si allontana dalla realtà, che complica volutamente ciò che potrebbe venir espresso in maniera infinitamente più chiara e sintetica, rendendolo inaccessibile a chi non pratichi la burocrazia.

Nulla di nuovo sotto il sole, questo è evidente. Ma a ben guardare l’intento dello scrittore pare proprio quello di farci notare cose che abbiamo già sotto il naso: processi di degenerazione linguistica che lasciamo progredire senza obiettare; utilizzi impropri di termini tecnici, che sminuiscono la gravità di provvedimenti legislativi, in maniera apparentemente solo formale; parole che conosciamo da sempre, ma di cui forse abbiamo dimenticato il cuore. Quello che l’opera si augura è che si diffonda (o in certi casi non si perda) l’uso di un linguaggio che «stringa la realtà in modo che non scappi» (p. 135). E che, sebbene suoni come un’utopia, possa trattenerne e accrescerne la parte migliore. Del resto se, come vuole dimostrare l’autore, la manomissione delle parole può soggiogare la realtà, il rispetto e la riscoperta delle stesse può avere potenzialità impreviste.

3 responses to “La manomissione delle parole

  1. No, confermo, l’intento dell’autore non è assolutamente quello di fare una ramanzina da purista. Degenerazione e manomissione sono senz’altro nozioni controverse in linguistica, hai perfettamente ragione. Una lingua deve “sporcarsi” per restare viva. Ma dato che né la linguistica né la sociolinguistica sono scienze esatte, vale la pena ogni tanto ascoltare la sensibilità dell’utente. L’autore non fa riferimento ad una degenerazione intesa come, per esempio, un passaggio di un gruppo di termini di un registro basso a un gruppo di termini di un registro alto, ma parla di tuttaltro, forse ho dato modo di fraintendere il discorso. Quando scrive “non è una lezione, è un gioco”, dice proprio questo: sto giocando con delle parole per rimetterle al mondo, e sto evidenziando utilizzi di determinate parole che la mia sensibilità di utente ritiene impropri. Invitando ovviamente ad una riflessione personale!
    Le cinque parole che “riabilita”, non sono parole di cui dice in che contesto vadano usate e in che contesto non vadano usate, ma sono parole di cui racconta in un certo senso la storia. Mentre le parole che considera “non al posto giusto” sono, per citare un esempio, parole quali “amore, odio e nemico” in politica, o meglio nella politica di una repubblica democratica. Più che manomissione qui, si potrebbe parlare di strumentalizzazione. Parla poi di manomissione poi quando vuole indicare una sostituzione di un termine con un altro dal significato ben diverso. Neanche qui quindi nel senso di “appropriatezza linguistica”, semmai semantica. Infine: hai ragione, se si usa una lingua che non sia cristallizzata e approvata dai linguisti e studiosi, non bisogna essere accusati di inciviltà. Ma Carofiglio non si riferisce a questo nel parlare di “lingua come termometro di civiltà” ma proprio all’esempio che hai ripreso sulla Neolingua orwelliana. La funzione nociva della Neolingua non sta soltanto nel conferire un’accezione negativa indicando come psicoreato le parole appartenenti al gruppo semantico libertà-eguaglianza, da cui la tua ipotesi (libertà, psicolibertà). Ma nella sostituzione di così tante parole con UNA, che non potrà mai esprimerne le tante sfumature e differenze. Se la manomissione non è intrinsecamente negativa, la povertà lo è. La povertà linguistica è regressione. Questo libro offre riflessioni, non precetti. Perché se offrisse precetti in questo campo, hai ragione, sarebbe un continuo rientrare di problemi dalla finestra :).

  2. speravo francamente che uno scrittore come Carofiglio, di cui ho letto tutti i libri, evitasse sterili commenti politici e così ripetuti in tutto il libro.
    Alle volte più che la manomissione delle parole sembra una tribuna politica senza neppure due interlocutori capaci di dialogare.
    L'idea di questo libro era molto buona, l'argomento molto interessante ma, svilito da una propaganda politica del tutto immotivata.

Scrivi un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.