L’anima e i confini dell’umano

Il Margine, Trento 2012
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Il sistema ticonico, com’è noto, cercò di mediare tra le nuove ipotesi scientifiche e le esigenze religiose. Sappiamo tutti com’è andata a finire. La questione, tuttavia, non risolse affatto il dilemma se fede religiosa e scienza siano conciliabili oppure non lo siano per nulla. Un tempo si affrontava l’argomento ponendo sui piatti della bilancia fede e ragione; a un certo punto, a quanto pare, la ragione è stata sostituita dalla scienza. Crediamo di sapere cos’è la scienza; ma forse abbiamo smarrito la ragione, nel senso che non sappiamo più cos’è. Una facoltà? L’esattezza dei calcoli? La saggezza? La conclusione rocambolesca porterebbe a dire che, non essendo chiaro cosa sia, nessuno può permettersi di dire di avere ragione. Per alcuni si spalanca l’abisso del relativismo, che, personalmente, fuggo come la peste.

Il libro di Straffelini sembra mosso dallo stesso intento ticonico. Certo gli auguriamo miglior sorte, ma sorge il dubbio se questo vizio di fondo, ossia il conciliare a tutti i costi la fede (cristiana? Non ne siamo sicuri) e la scienza, non risulti un sostare al bivio anziché percorrere fino in fondo una delle due strade. Si è tentati d’essere d’accordo con Carlo Alberto Defanti (medico curante di Eluana Englaro) che nella postfazione chiosa: «Apprezzo il sincero tentativo di accordare il punto di vista scientifico con quello religioso, anche se – a differenza dall’autore – credo che possano coesistere uno a fianco all’altro in quanto si muovono su piani diversi e, a mio modo di vedere, non suscettibili di interagire» (pag. 119).

Altrettanto problematico, anche perché frutto dell’impostazione che abbiamo descritto, si rivela l’uso del termine “anima”. Secondo Straffelini, non sussiste poi molta differenza tra termini come “anima”, “coscienza”, “mente”, “Io”, “Sé”, perché, anche se non indicano concetti coincidenti, «la consuetudine di considerarli sinonimi o intercambiabili riflette il fatto che descrivono, da prospettive diverse, lo stesso fenomeno: la manifestazione caratteristica e distintiva degli organismi viventi, la capacità cioè di possedere un certo grado di consapevolezza degli eventi esterni e, eventualmente, di sé» (pag. 19). A mio modesto avviso, in questo modo si rischia di rimescolare tutto in un gran calderone, in cui vanno perdute distinzioni importanti. Soprattutto, però, non ci sentiamo di condividere l’associazione di anima e coscienza, fino quasi a identificarle (come si vede nella stessa pag. 19 e poi, più esplicitamente nella pagina successiva dove è scritto: «Anima-coscienza». Nonostante ciò, in seguito, per chiarezza, useremo il termine “anima” nell’accezione di Straffelini). Anche in questo caso si può essere d’accordo con Defanti, che precisa l’origine filosofica e il sentore religioso del termine ‘anima’. Inoltre, «tutto quanto l’autore dice, con molta precisione, sull’anima-coscienza esaminata dalla neuroscienze è esatto, ma vale, a mio parere, soltanto per la coscienza intesa in senso stretto e non può essere esteso al discorso sull’anima, che si svolge su un altro piano: il piano della filosofia e più precisamente della metafisica» (pag. 177).

Tuttavia, il libro di Straffelini è molto chiaro e denso, pure nella brevità; quasi un pamphlet. Se il titolo recita Lanima e i confini dellumano, presto è detto cos’è l’anima (l’abbiamo visto) e dalle prime righe si chiarisce quali siano i confini esaminati, ossia i «problemi che riguardano l’inizio della vita umana – come l’aborto, la fecondazione assistita, la sperimentazione con le cellule staminali embrionali – e la fine della vita – come il trattamento delle persone in stato vegetativo, il trapianto degli organi, il testamento biologico, l’eutanasia» (pag. 7). Il tentativo, ormai è chiaro, è di utilizzare il metodo scientifico («il percorso obbligato da intraprendere per poter fare un discorso, per quanto possibile, universalmente valido», pag. 9), ma sopperendo ai suoi limiti facendo ricorso a un’istanza “superiore” rispetto al piano scientifico, ossia ricorrendo a Dio (cfr. ibidem).

Così, il testo è diviso in due parti: la prima cerca di definire cosa sia l’anima, quali funzioni svolga e quali siano, grosso modo, i suoi rapporti con il corpo (più precisamente con il sistema nervoso centrale); la seconda indaga più direttamente i confini dell’umano, ossia cerca di definire le condizioni di inizio e fine della vita umana, per concludersi con il riconoscimento da parte dell’autore della sacralità della vita.

Procediamo con ordine. Per Straffelini l’anima è un epifenomeno: «Secondo le neuroscienze cognitive l’anima-coscienza […] è un epifenomeno, cioè un fenomeno emergente (con modalità e intensità diverse nel tempo) da un sistema complesso» (pag. 23). Lungo tutto il libro, tenta di associare le distinzioni dell’anima aristotelica al cono di coscienza di Hofstadter. Di pari passo, si affiancano a queste distinzioni le valutazioni sull’inizio e la fine della vita e sugli “obblighi” morali che dovrebbero aversi rispetto ai vari stadi. Anima vegetativa, sensitiva e intellettiva sono diverse forme della vita. La questione principale è se queste funzioni (tipi di anima) possano essere separate in un individuo che le possiede tutte e tre, come l’uomo. In estrema sintesi: un essere umano che perde l’anima intellettiva è ancora da considerarsi tale?

A questo proposito, Straffelini sostiene che tra l’anima-coscienza dell’uomo (o comunque tra gli esseri dotati di anima intellettiva: ma a questo proposito il testo non è chiarissimo, perché da una parte sembra che questo tipo di anima sia riconosciuta anche a qualche altro animale; ma poi si continua come se ci si riferisse solo all’uomo) e quella delle altre forme di vita vi è una differenza non solo quantitativa, cioè rispetto al numero di neuroni e sinapsi, ma soprattutto qualitativa. Ciò sarebbe dovuto al fatto che «molte delle conoscenze innate degli esseri umani sono diverse da quelle degli altri animali: per quanto riguarda, ad esempio, la capacità psicologica di intuire le intenzioni degli altri esseri animati (la Tom), e di credere nelle essenze degli oggetti e a forze invisibili» (pag. 50).

Forse dire che qualcosa sia qualitativamente diverso da qualcos’altro non significa immediatamente che vi sia una superiorità di qualcuno; ma quando la differenza qualitativa, come è il caso in esame, comporterebbe obblighi morali crescenti, allora è in gioco un qualche tipo di superiorità.

Ora, personalmente trovo davvero difficile stabilire se i tipi di credenze citati poco sopra siano di qualità superiore rispetto al non averne affatto; in effetti non si capisce perché mai il credere all’essenza dello zucchero sia qualitativamente superiore al mangiarlo e basta, oppure perché credere che il fulmine sia scagliato da Zeus sia qualitativamente superiore all’aver paura del fulmine e basta. Ci rendiamo conto che questo è un terreno molto scivoloso: la qualità intellettiva umana porta spesso alla depressione, mentre un cane appare quasi sempre felice; la qualità intellettiva umana ha portato tante opere d’arte, non v’è dubbio, ma ha portato anche i campi di sterminio e le bombe atomiche, mentre gli alberi, supposti qualitativamente inferiori, non hanno mai sterminato nessuno. Forse anche la qualità esiste solo per chi ci crede. A pag. 51 Straffelini cita Gazzaniga: «Gli altri animali utilizzano solo tratti percettivi: l’apparenza, gli schemi comportamentali, l’odore, il suono e il tatto. Per gli altri animali l’apparenza è la realtà». Forse bisognerebbe correggere il tiro: a ciascun animale la sua apparenza è realtà. Forse per noi un’apparenza è la qualità; quindi, per noi la qualità è realtà.

Concediamo pure, per il momento, che l’uomo sia qualitativamente differente (e, si sottintende, superiore) rispetto agli altri animali. Se è vero che si vuole rinunciare a ogni tipo di dualismo, come Straffelini dice di voler fare e come anche io sono convinto si debba, allora per coerenza bisogna rinunciare alla separabilità dei tipi di anima, al dualismo anima-corpo, al credere in un qualche tipo di sopravvivenza dell’anima senza il corpo (e con ciò, dunque, alla vita dopo la morte). L’anima dell’uomo possiede determinate caratteristiche e funzioni che permettono di aggiungere l’aggettivo “intellettiva”; per quanto abbiamo detto, questo tipo di anima non è separabile dalle altre funzioni (sensitiva e vegetativa). Si obietterà che, in effetti, in alcuni casi particolari noi vediamo che la funzione intellettiva difatti non sussiste più, pur continuando a sussistere le altre due. In altri casi ancori non sussistono più né la facoltà intellettiva né la sensitiva e rimane solo la vegetativa. Se abbiamo rinunciato alla separabilità dell’anima, possiamo sempre dire che separabili sono le sue funzioni. Tuttavia, se l’uomo è tale perché ha l’anima intellettiva, una volta che questa funzione viene a cessare del tutto, ci troviamo ancora di fronte a un’anima umana? Secondo Straffelini la risposta è sì, perché l’anima umana è intrinsecamente intellettiva (per esempio, cfr. pag. 89).

Mi sembra che la cosa, però, non sia così pacifica. Cosa significa essere intrinsecamente in un certo modo? Significa che mai e poi mai si può perdere questo carattere, mai si può mutare nell’essenza. A rigor di logica, però, se, come abbiamo detto, l’anima è un epifenomeno, allora non può essere intrinsecamente se non ciò che la rende la struttura che la produce. Se cambia la struttura, cambia anche l’anima. Qualsiasi cosa è intrisencamente qualcosa di determinato solo se questo suo essere determinato non dipende da altro che da se stessa. Così non è per l’anima come intesa da Straffelini, perché l’epifenomeno dipende dalla struttura che lo genera.

La questione della qualità, poi, genera un altro conflitto. Se insistiamo sulla specificità umana e sulla differenza qualitativa della sua anima (e della sua vita), non possiamo sostenere anche che questa qualità rimane immutata quando la funzione intellettiva viene persa, oppure quando, pur mantenuta, si è costretti perennemente all’immobilità totale. Per esempio, riguardo al testamento biologico, Straffelini sostiene: «Il rischio, nella stesura del testamento biologico […] è di accettare e perpetuare solamente la (generalmente falsa) visione che tendono a sviluppare le persone sane, e che cioè una vita cosciente ma rinchiusa in un corpo-scafandro (e quindi privo delle vacanze al mare, dello shopping, del tennis e così via) sia poco degna di essere vissuta» (pag. 99). Se insistiamo tanto sulla differenza qualitativa della vita umana, mi chiedo che senso abbia poi difendere una condizione in cui questa qualità viene a mancare quasi del tutto. Rimarrebbe solo il vuoto involucro della coscienza.

Ecco, un altro punto fondamentale riguardo la definizione di morte. Straffelini prende in esame tre diverse possibilità: la morte corticale, la morte cerebrale e la morte per arresto cardiaco (cfr. pagg. 86-91). Possiamo concordare che la migliore definizione sarebbe l’ultima, la morte per arresto cardiaco, considerata anche la più “naturale”: qui si ha «l’unico criterio […] che non prevede una visione dualistica anima-corpo che […] non ha una concreta valenza scientifica; e l’unico criterio che accoglie una visione integrata dell’essere vivente e che è sostanzialmente compatibile con la definizione di morte termodinamica» (pag. 91). A questo proposito, è ovvio che la morte per arresto cardiaco cozza inevitabilmente con il mantenimento in vita per mezzo delle macchine, per non dire del cosiddetto accanimento terapeutico. Qui Straffelini si mostra coerente fino in fondo e suggerisce che «una strada percorribile è quella di operare ogni volta in modo da garantire il soccorso alle persone in pericolo di vita […] fino, se l’intervento fallisce, alla morte per arresto cardiaco» (pag. 100).

Chiudiamo con un tema particolarmente difficile da trattare e che, pertanto, può solo essere accennato. Nel libro si dice che l’esistenza (e anche l’inesistenza) di un qualche dio non può essere dimostrata: «Concepire l’esistenza di Dio, pertanto, è una scelta» (pag. 55). Scelta che Straffelini compie, ma che non si riserva di giustificare anche sulla base di presupposti scientifici.

Per esempio, si pone la questione del libero arbitrio, che dovrebbe essere negato dal paradigma scientifico meccanicista. Tuttavia, esso potrebbe essere spiegato facendo riferimento alla «natura quantistica dei contatti alle sinapsi, [anche se] il meccanismo scientifico responsabile di ciò appare misterioso» (pag. 45). Il libero arbitrio sembra aprire una breccia nella rigida chiusura causale del meccanicismo; Straffelini non lo dà per assodato, ma anche qui sostiene che possa essere opera di Dio, che agirebbe nascostamente, a livello non solo subcosciente, ma addirittura subatomico. In ogni caso, però, in questo modo sembrerebbe che questo dio agisca fin troppo di nascosto e non se ne capirebbe il perché.

In aggiunta a ciò, viene portato avanti l’argomento dell’improbabilità della formazione della cellula procariota, poi di quella eucariota e infine dell’anima intellettiva. Questi tre eventi altamente improbabili (cfr. pagg. 36 e 46) potrebbero essersi verificati per la “magia dei grandi numeri” e per il lunghissimo tempo a disposizione. Pertanto sembra legittimo chiedersi: «Se si può accettare che il caso abbia permesso la nascita della vita e il decorso dell’evoluzione, realizzando transizioni caratterizzate da improbabili aumenti di estropia e da probabilità infinitesime di avvenire spontaneamente (e pertanto sostituendosi a un programma intelligente), come si può escludere l’esistenza di Dio in quanto altamente improbabile?» (pag. 54).

A mio modesto modo di vedere, però, questa domanda non tiene conto di una cosa. Per quanto riguarda i tre eventi improbabili, il loro risultato è sotto gli occhi di tutti e si è cercato solo di spiegare il più razionalmente possibile come sia avvenuta la loro formazione: la loro esistenza è certa, la spiegazione è plausibile. Per quanto riguarda l’esistenza di un qualche dio, il caso è diverso, in quanto innanzi tutto se ne deve ammettere la possibilità dell’esistenza, poi la si deve postulare e, infine, si deve andare alla ricerca di come sia possibile. Nel caso dei tre eventi altamente improbabili, si parte dall’esistenza e si cerca il modo in cui si sia potuta verificare; nel caso di dio, Straffelini sembra procedere in maniera opposta e forse anche un po’ contraddittoria: prima si dice che è possibile l’esistenza di dio, poi questa esistenza viene postulata (ossia ‘scelta’) e infine si ricercano prove di dove possa annidarsi l’azione di dio.

Anche per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, ossia l’azione di dio, la faccenda non è chiara. Da una parte si sostiene che Dio è «in grado di interagire, dall’alto e non dal basso, nella profondità delle cellule, così come ha agito e agisce nei meccanismi evolutivi, attraverso le oscure, e per noi inconoscibili, vie del mondo subatomico» (pag. 56). Questo passo può essere fatto rientrare nell’occasionalismo di Malebranche, che vede Dio intervenire costantemente, in ogni singolo evento che abbia a che fare con le nostre attività mentali.

D’altra parte, poco sotto, si dice che «il credente può riconoscere nella relazione continua di Dio con la materia vivente la modellazione dell’anima ai suoi diversi livelli di manifestazione. Un po’ come se, usando un’immagine senz’altro ingenua, il nostro sistema cellulare fosse costituito da tante antenne in grado di vibrare in armonica risonanza con lo spirito divino e da esso acquisirne informazioni vitali» (ibidem). Qui sentiamo risuonare senz’altro l’armonia prestabilita di Leibniz.

In ogni caso, il libro ha il pregio di essere umile e di non cercare di imporre soluzioni definitive, offrendo, tra l’altro, un quadro sintetico ma molto preciso delle diverse posizioni sugli argomenti trattati. A dispetto di chi si arrocca a oltranza nelle proprie posizioni, Straffelini possiede una notevole onestà intellettuale, che gli permette di scrivere (e questo conta più di tutto): «Ovviamente nessuno è obbligato a credere in Dio e alla sacralità della vita umana […]. L’approccio normativo a tutta la problematica deve quindi essere necessariamente laico e razionale» (pag. 99). Ulteriore conferma di ciò la troviamo nella bibliografia, che non si limita a un semplice elenco, ma offre una panoramica ragionata sui libri ritenuti fondamentali dall’autore e che non necessariamente condividono le sue posizioni.

Queste caratteristiche rendono il libro una buona pubblicazione divulgativa, che se non altro ha il merito e il coraggio di tentare percorsi personali, non identificabili né con la vulgata scientifica, né (almeno per quanto riguarda i brevi cenni teologici) con la dottrina ortodossa del cattolicesimo. Le posizioni personali sono sempre sostenibili, specie quando pongono sui piatti della bilancia fede e scienza. Perché così la ragione, e ciò è senz’altro un bene, sfugge a tutti: negli spazi sconfinati delle migliaia di posizioni personali, inevitabilmente finisce per smarrirsi.

2 responses to “L’anima e i confini dell’umano

  1. Sono scienza e fede conciliabili? Sinceramente penso di si, anche se nel mio libretto non ho avuto la pretesa di rispondere a questa domanda; ho voluto solo evidenziare che almeno su alcuni temi, e in particolare alcuni di quelli che toccano l’inizio e la fine della vita umana, scienza e fede sono più vicine di quanto generalmente si ritiene, nel senso che muovendo da considerazioni scientifiche e da considerazioni basate sulla fede si può giungere a posizioni abbastanza vicine tra di loro.

    Innanzitutto penso sia chiaro che scienza e fede occupano due magisteri ben distinti, e che in generale si possa affrontare i temi della vita (e trovare un senso alla vita) partendo da una visione del mondo atea oppure di fede. Come è chiaro che l’approccio normativo ad ogni problematica sociale, comprese quelle che toccano l’inizio e la fine della vita, non possa che essere laico e razionale. Ma ognuno di noi nasce con un’attitudine a credere nell’esistenza di un ente esterno creatore; si tratta di un credenza innata, di origine evoluzionistica (o costitutiva?). Non solo. Consideriamo alcuni fenomeni naturali, come il Big Bang (chi l’ha causato? cosa c’era prima?) e il mistero della coscienza (come nasce la consapevolezza dei colori e della bellezza del mondo, dal chilo e mezzo di materia grigia racchiusa nel nostro cervello?): a questi “ardui” dilemmi la scienza (cioè l’applicazione del metodo scientifico) non ha ancora dato risposta; si può benissimo pensare che la darà in futuro (come scrive Dawkins) o si può benissimo vivere nel dubbio che magari una risposta mai ci sarà (come scrive Hack). Ma si può anche vedere in questi “misteri” indicazioni che portano razionalmente a concepire l’esistenza di un ente esterno non fisico (Dio). Appare dunque chiaro che accogliere la fede è una “scelta”. E chi sceglie di credere può pensare che dentro il mistero della coscienza ci sia la presenza continua ad efficace di Dio (ho usato il termine Logos nel libro per il suo significato, e perché mi piace molto l’inizio del Vangelo di Giovanni); non mi pare che ciò debba causare uno stupore particolare, si tratta di scelte personali. Una volta scelto di credere nell’esistenza di Dio si può insomma credere che Dio “interagisca” col mondo, anche se non si fa mai riconoscere esplicitamente, cioè in modo dimostrabile sperimentalmente.

    Un punto centrale del mio testo è l’associazione dell’idea di anima a quello di coscienza. Ora, l’idea di anima tradizionale e/o religiosa per la scienza non ha senso; l’anima come pneuma, soffio vitale, essenza vitale… non ha senso perché non è sottoponibile a sperimentazione oggettiva. Ma possiamo considerare l’anima come quell’ente che distingue i sistemi viventi da quelli, appunto, “inanimati”. E allora: cosa può essere l’anima da questo punto di vista?

    Ebbene, nel libro ho dedicato praticamente i primi due paragrafi ad argomentare che questo qualcosa è il “programma” cioè il contenuto informativo che contraddistingue “qualitativamente” i diversi esseri viventi (nel programma, come minimo denominatore comune, c’è anche la capacità di riproduzione biologica). Possiamo dunque associare al genoma l’idea di anima? Direi di si, anche se ciò è poco utile; il genoma di per sé dice poco sull’“umanità” di una persona (e anche sulle caratteristiche di animali e piante); meglio allora riferirsi al “repertorio di capacità di reazione alle sollecitazioni del mondo” proprio di ogni essere vivente: tale repertorio (che rappresenta la “coscienza” in senso stretto) dipende ovviamente dal genoma ed è legato alla materialità del sistema complesso che costituisce l’essere vivente (e su tali basi non c’è dunque dualismo tra corpo materiale e repertorio di capacità). Quindi, l’idea di associare il concetto di coscienza a quello di anima serve come metodo descrittivo che raggiunge il suo culmine espressivo (diciamo così…) nel cono della coscienza (o cono di animatezza) di Hofstadter. Le piante, pertanto, hanno un repertorio limitato, gli animali grande, gli uomini molto grande. Non c’è altro, per la scienza, oltre alla materialità dei neuroni, delle altre cellule, delle molecole del Dna, e del loro funzionamento chimico-fisico.
    (Per cui, considerando la definizione di anima come quell’ente che distingue i sistemi viventi da quelli inanimati, ci si può anche spingere a vedere nella coscienza il corrispettivo “laico” dell’anima; perché no?).

    Su tali basi, non capisco quale sarebbe il “piano della filosofia”, come scrive Defanti, che si occupa di studiare l’anima. Il piano è fisico o è metafisico, non mi risulta che possa esistere una “terza via”. Siccome la filosofia è nata proprio per superare le credenze del passato (legate al piano metafisico, evocato ogni volta che si doveva cercare di spiegare qualcosa di incomprensibile), essa non può che occuparsi del piano fisico. Quindi piano scientifico e piano filosofico devono, almeno su questi temi, necessariamente coincidere. Analogamente non capisco neanche quali potrebbero essere le “distinzioni importanti” che perdiamo rimescolando insieme anima, coscienza, mente, sé…

    Come ho detto, il repertorio di possibili reazioni agli input esterni (la coscienza) è diversificato tra gli esseri viventi anche in modo “qualitativo”. Come discusso bene da Ageno e da una crescente letteratura sul tema, non si può applicare tout court la teoria della comunicazione di Shannon ai sistemi biologici: quando si analizza l’informazione presente nel genoma non è sufficiente vedere quanta informazione è trasmessa ma bisogna vedere anche quale informazione è trasmessa, cioè quale è il significato semantico dell’informazione trasmessa. E tra gli animali e gli esseri umani tale differenza c’è: gli esseri umani hanno un repertorio di capacità più ampio e più diversificato degli (altri) animali. Questo è un dato di fatto. Se poi ciò possa giustificare un diverso comportamento morale, come spiegano Singer e altri, a me sembra ragionevole; ma il tema è aperto alla discussione. Sono infatti consapevole che questo argomento è molto delicato e sensibile; tra l’altro sia Singer che Hofstadter sono animalisti e vegetariani, e anch’io ho molto rispetto per gli animali.

    Un’ulteriore considerazione riguarda il tema dell’anima “intrinsecamente” intellettiva, introdotto per argomentare come anche le persone in stato vegetativo o in stato terminale dei morbi di Parkison/Alzheimer siano vive, in contrasto di chi le considera morte sulla base del criterio della “morte corticale”. Scrive giustamente Cateno Tempio: “l’anima è un epifenomeno, allora non può essere intrinsecamente se non ciò che la rende la struttura che la produce. Se cambia la struttura cambia anche l’anima”. Perfetto. In una persona in stato vegetativo, la “struttura”, vale a dire la corteccia cerebrale, non cambia, solo che non è più attivata dal tronco encefalico o, meglio, è attivata solo parzialmente. La situazione è molto simile al sonno in assenza di sogni (a onde lente), quando l’attivazione ascensionale del tronco encefalico è ciclicamente sospesa. Certo, chi dorme quasi sempre poi si sveglia, mentre chi è in stato vegetativo quasi mai (se lo è da tanti mesi) poi si sveglia. Basta questo a cambiare sostanzialmente i termini della questione? Io penso di no, ma anche su questo si può discutere, la mia è una proposta di riflessione.

    Ultimo punto di rilievo è quello del libero arbitrio. Noi siamo il nostro cervello, siamo la materialità dei neuroni e delle reazioni elettrochimiche che avvengono alle sinapsi. Certo, siamo sistemi molto complessi, ben più complessi di uno sciacquone del bagno (Hofstadter e Dennett dixerunt), ma non c’è in noi nessun Io, sé, me, omuncolo, direttore d’orchestra, maggiordomo, comandante della nave e avanti con la fantasia, a dirigere le operazioni e decidere “liberamente” cosa fare. Pertanto non siamo liberi: è il nostro cervello che materialmente decide cosa fare (in modo “prevalentemente” deterministico), e ogni tanto, molto di rado peraltro!, ci informa delle decisioni prese; la nostra coscienza (compresa la nostra saltuaria consapevolezza degli eventi), è un epifenomeno, una illusione. Questo è il piano della scienza. La filosofia offre un piano diverso? Non credo. Offre semmai interpretazioni, consolazioni, variazioni sul tema (peraltro tutti pattern neuronali).

    Anche l’idea di Dio è un pattern neuronale, ma a me pare che offra qualcosa di più di una consolazione; è solo un mio parere, una mia sensazione. Chi sceglie di credere, dicevo, può ben pensare che Dio interagisca continuamente col mondo, anche nella profondità dei contatti quantistici alle sinapsi; e che tale interazione renda dunque possibile la magia della nostra coscienza colorata, e della nostra libertà. Molti pensano che questa (minima!) aliquota di casualità ai contatti sinaptici basti da sola a garantire (non si sa come) la nostra libertà, senza dover invocare Dio. Può essere, e mi da sollievo che ci sia sempre una possibile, anche se vaga, “opzione scientifica”. A me sembra, però, che una minima casualità su tempi così brevi possa produrre solo il caos se non è guidata da una mano esterna. Ma tant’è, è sempre una questione di scelta (che, è bene ribadire, nessuno può imporre ad altri).

  2. Non posso che essere contento di questa risposta, perché, tra le altre cose, ha dato un senso a quanto ho scritto a proposito del libro.
    Entrando brevemente nel merito, il nodo che mi sembra più difficile da sciogliere è il ribadire con convinzione di non credere al libero arbitrio e poi, d’altro canto, parlare di scelta a proposito della fede. Perché o si è liberi di scegliere (e quindi si è liberi in tutto) o non si è liberi affatto. Se diciamo, poi, che la credenza in un qualche dio o in un’entità soprannaturale in senso generico sia inscritta in noi, sia innata, allora due cose: 1) se anche fosse, non sarebbe lo stesso una scelta; 2) a me non sembra che le cose stiano affatto così, perché io (come penso molti altri) non ho questa attitudine.

    Ancora brevemente, mi chiedo cosa vieti di eliminare il termine “anima” nell’accezione da te intesa, Giovanni, e di utilizzare semplicemente il termine “vita”. Se “possiamo considerare l’anima come quell’ente che distingue i sistemi viventi da quelli, appunto, “inanimati””, allora non c’è bisogno di questo termine. Ciò che distingue i sistemi viventi da quelli non viventi è la vita. Con un bel colpo di rasoio ben assestato, possiamo far fuori un termine che ne duplica un altro. Anche perché la vita l’abbiamo tutti sotto gli occhi; l'”anima”, così intesa (ma anche intesa in altri modi) no.
    Se parliamo di coscienza, allora il caso è diverso. Ma forse qui sta il cuore della mia obiezione a identificare anima e coscienza. Tutti i viventi hanno vita allo stesso “grado”, ma il “grado” di coscienza mi pare diverso. Forse alcuni esseri viventi non hanno affatto coscienza (come le piante, o certi tipi di organismi più semplici); ma hanno vita. Facendo coincidere anima e coscienza, secondo me, la faccenda si complica, forse inutilmente.

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