Max Stirner

Bibliosofica, Roma 2013, trad. it. di Claudia Antonucci.
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A volte il destino di un libro è imperscrutabile. Da anni vagheggiavo la traduzione dell’unica biografia di Max Stirner. Mi chiedevo se il signor Adelphi stesse dormendo o chissà cosa, mentre in realtà aveva già liquidato la questione in quattro righe, accompagnando la traduzione de L’unico.
Almeno Guanda dovrebbe farlo – mi dicevo –, se non altro per collocare il pezzo mancante tra lo stesso Unico e quell’Eumeswil di Jünger (tradotto maluccio per Guanda, appunto) in cui tanto spesso la vita di Stirner è appigliata agli scarni dati raccolti da Mackay. Mi sarei accontentato anche di una traduzione Mondadori, visto che sulle biografie ci marciano parecchio; ma evidentemente Stirner rimane troppo scomodo anche solo per essere nominato in certi ambienti (in realtà questa è un mia pia illusione, ormai tutto fa brodo: il maggiore editore italiano potrebbe pubblicare la vita di Stirner e noi ne saremmo pure contenti).
Non si può fare a meno, dunque, di salutare con gioia questa apparizione, questo risultato di una piccola casa editrice in barba ai magnati della beota editoria nostrana. (Debbo confessarlo: la saluto anche con un pizzico di invidia, come un colpo che m’hanno soffiato. Onore al merito e alla rapidità.)
E si possono perdonare anche i peccatucci di ingenuità, come qualche refuso di troppo, qualche frase non proprio lineare, qualche dubbio sulle opportune scelte di traduzione: due su tutte si notano anche a una rapida lettura: a pagina 160 la traduttrice rende l’originale tedesco Empörung con “indignazione”, significato che pure è corretto, ma – come spiega anche Leonardo Amoroso, traduttore italiano de L’unico – Stirner la utilizza nel senso di “ribellione”, salvo rivendicare in nota il suo significato etimologico per sottrarsi alla censura; a pagina 170, poi, risulta quantomeno azzardato tradurre Wesen con “natura” anziché con “essenza”, in riferimento all’opera di Feuerbach Das Wesen des Christentums.
In ogni caso, ci si ritrova, così, nella strana e difficile posizione di dover “recensire” un libro la cui ultima edizione risale a cent’anni fa, giusto nel 1914. Eppure, leggendolo, si ha finalmente contezza della difficoltà editoriale che presenta quest’opera di difficile collocazione: comprendo bene Calasso, questo libro sarebbe suonato come una nota stonata nella sapiente orchestrazione adelphiana. Il buon Mackay ha dato fondo a tutta la propria buona volontà, ma il risultato non ha potuto essere dei migliori: una serie di dati e date che velano l’uomo, che ne lasciano intravvedere i contorni ma che non riescono a fornircene un ritratto compiuto.
Una vita piatta, increspata da due amori finiti male (la prima moglie muore di parto, la seconda lo abbandona e per tutta la vita ne parlerà con acredine), i fulgidi anni berlinesi con i “Liberi” (Bruno Bauer in testa), la pubblicazione de L’unico, la miseria, i debiti e la prigione, la morte quasi cinquantenne.
Non una parola che esca dalla bocca di Stirner, non un gesto compiuto da Johann Caspar Schmidt. Solo vaghi ricordi, frasi smorzate, un profilo disegnato da Engels a cinquant’anni di distanza.
Mackay è puntuale: coi pochi dati avuti a disposizione riesce a costruire un intero libro. Tuttavia, alla fine si ha la sensazione che è come se il progetto più importante della sua vita, quello per cui ha speso le migliori energie sia stato inseguire una chimera, cercare di afferrare un sogno, un’immagine evanescente. Certo, lui rifiuta la “santità” che Marx ed Engels hanno appioppato per scherno a Stirner; eppure non sono certo il primo a notare che la sua biografia conserva qualcosa di apologetico, se non di messianico. Non solo perché è preoccupato a difendere sempre a spada tratta qualunque fatto possa intaccare l’integrità umana e morale del maestro che lo ha folgorato, ma anche e soprattutto perché sostiene che con L’unico si sarebbe avuto (o si avrà) un cambiamento nella condizioni di vita «tanto enorme, e relativamente altrettanto veloce, quanto sicuro e non cruento, che il suo libro immortale eguaglierà soltanto quello della Bibbia in quanto a importanza. Così come questo libro “sacro” sta all’inizio del calendario cristiano e avrà i suoi effetti devastanti per due millenni quasi fino all’ultimo angolo della Terra abitata dagli uomini, questo egoista cosciente di sé e non sacro, sta all’ingresso della nuova era, all’insegna della quale viviamo, per esercitare un’influenza, altrettanto benefica, quanto è stata deleteria quella del “libro dei libri”» (pag. 180).
Makcay in tal modo diviene l’apostolo del verbo stirneriano. Non sono il primo a notarlo, dicevo. Basti questo passo del citato Eumewil: «In ogni sarcasmo si cela un granellino di verità, così anche nel “santo” Max. Stirner ha trovato in John Mackay il suo Paolo; costui prendeva sul serio la santità — così ad esempio elevando l’Unico al di sopra della Bibbia» (tr. it. di M.T. Mandalari).
Leggendo questa biografia si ha quasi l’impressione, ovviamente peregrina, che Stirner abbia volutamente vissuto tanto discosto, lontano dai riflettori, attento a cancellare ogni traccia del suo passaggio, fino al punto da non farsi mai fotografare né ritrarre, se si esclude – forse – un ritratto sul letto di morte, probabilmente a cose già fatte. Come la sua opera che in fondo è stata riscoperta filosoficamente solo molto tempo dopo la sua morte, sembra che anche la sua vita quotidiana sia stata del tutto postuma: ogni traccia che ne abbiamo ci è stata tramandata da ricordi sbiaditi, da ritratti a memoria, da date e documenti freddi e muti.
Le parti più vive di questo libro sono quelle dedicate al circolo dei “Liberi”: li vediamo giocare a carte o a biliardo, fumare sigari, bere birra a scrocco, celebrare le nozze di Stirner in maniche di camicie e con anelli d’ottone. Per un attimo si ha l’illusione fugace della vita. Poi tutti fanno una fine o brutta o triste: chi contadino, chi reazionario; questo in miseria, quell’altro in prigione.
Resta valido il giudizio di Mackay sull’opera di Stirner: «Non è un libro che si lascia leggere tutto d’un fiato. Non è neanche un libro che si può soltanto sfogliare. Deve essere continuamente ripreso e riposato, perché i pensieri che suscita si attenuino e i sentimenti di ribellione vengano filtrati. Ogni volta che ci si avvicinerà di nuovo però il suo effetto sarà più persistente e il suo fascino più intenso. Così ci accompagnerà attraverso la vita e così come non potremmo viverla mai tutta fino alla fine, allo stesso modo non potremmo mai analizzarlo completamente… Perché questo libro è la vita stessa» (pag. 163).
Mackay appiccica questo giudizio alla vita intera, alla nostra vita; ma possiamo in tutta serenità schiacciarlo sull’esistenza di Johann Caspar Schmidt: perché Schmidt è Stirner; — ma Stirner è l’ineffabile e inesauribile Unico.

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