Menti simboliche

Carocci, 2005
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Spesso le introduzioni ad ampi domini filosofici di studio risultano quantomai indigeste a causa della loro estrema generalità che, seppur rappresenti un vantaggio nell’approccio iniziale, lascia alla fine della lettura una profonda confusione e la sensazione distinta d’aver letto di tutto ma privo di qualsiasi consapevolezza di spirito organico-analitico.

Ho grandissimo piacere nel notare, invece, che sfugge a questa funesta consuetudine l’ultima fatica editoriale di Marco Mazzone, Menti Simboliche (Carocci editore, 2005). Il testo è pensato per tutti coloro i quali vogliano accedere ai contenuti preliminari per lo studio del linguaggio, pur privi di formazione filosofica e nonostante ciò è un libro che trasmette un grande amore per i contenuti filosofici. L’inusuale, per il genere, è infatti l’estrema chiarezza espositiva e di linguaggio di cui esso è permeato, unita a grande pregnanza di contenuti e a un’ammirevole capacità di rendere il lettore sempre presente al discorso, anche quando il problema scandagliato si veste di mille complesse sfaccettature.

Tale è difatti la questione del linguaggio, la più affascinante e rappresentativa, poiché in essa confluiscono e si fondono le più grandi domande circa l’uomo e ciò che lo rende unico e al contempo legato alle specie biologicamente meno complesse; circa le sue conquiste cognitive soggettive e di tutta la specie; circa la mente e il mondo meraviglioso e mai definitivo che essa dischiude; circa noi e la realtà esterna come rapporto primigenio e vitale in cui siamo attori per natura e registi per necessità.

L’idea che fa l’originalità di tutto il testo è utilizzare contenuti classici della filosofia del linguaggio recuperandoli inframmezzati a soluzioni nuove, in un rapporto organico dominato da alcune brillanti intuizioni. Già il titolo è altamente indicativo: Mazzone tratta della facoltà linguistica indicandola nella specie umana come esplicazione di una più generale capacità simbolica. Questa ci permette di “[…] afferrare idee distinte come legate tra loro da una relazione”. Nell’ambito più generale, tale capacità influenza tutte o quasi le attività complesse caratterizzanti la dimensione dell’esistenza umana. Che si analizzino la conoscenza, la creatività, la socialità, il giudizio (per citarne solo alcune), troveremo il loro comune denominatore nel fatto che tutte derivano in qualche modo dalla capacità di associare contenuti mentali separati o cose non attualmente congiunte. Specificamente per il linguaggio, la capacità simbolica consente due abilità: afferrare la relazione tra segno e referente (dimensione verticale) e cogliere le relazioni sintattiche tra segni (dimensione orizzontale). Queste due dimensioni unite a una terza, pragmatica, costituiscono la specifica del linguaggio umano e ciò che lo contraddistingue a tutti gli altri linguaggi più o meno evoluti presenti tra le specie meno complesse della nostra.

Questo riferimento, ci permette di citare la sezione, a mio parere, massimamente originale del testo, che spiega la differenza tra l’uso di segni da parte di animali non-umani e il nostro evoluto linguaggio attraverso l’attestazione dei risultati ottenuti negli studi sui primati, fatti nella seconda metà del ‘900. Sono due gli impedimenti biologici sostanziali per l’insegnamento delle lingue umane ai primati: a) carenze nello sviluppo dell’apparato fonatorio, incredibilmente più semplice che nell’uomo, con relativa difficoltà nella articolazione di suoni numerosi e veloci; b) limiti neurologici sia strutturali che funzionali, i quali implicano da un lato la difficoltà non superabile nel costruire un progetto sintattico di utilizzo dei segni (che restano sempre “trasparenti”), dall’altro l’assenza di flessibilità nel riferimento. In sostanza negli animali non-umani i segni hanno carattere di automatismi fissati geneticamente. Ogni segno non può essere estratto dalle procedure comunicative usuali per un eventuale riutilizzo.

Si vede bene che invece questo è il senso più profondo della variabilità del linguaggio umano e dei suoi usi. In definitiva la presenza stessa di tale variabilità e di dipendenze contestuali connesse, sembra caratterizzarsi come l’elemento che segna la più grande lontananza delle lingue umane dalle procedure comunicative di altri primati. Al grado più alto di astrazione nell’uso corrisponde l’ambito studiato dalla pragmatica, la quale si occupa della funzione della lingua come cemento nelle relazioni sociali. Questa dimensione è molto importante e lo aveva già sostenuto il Wittgenstein delle “Ricerche filosofiche” (1967) nel famoso argomento contro il linguaggio privato: la qualità caratterizzante delle lingue umane è la sua intrinseca socialità che influenza l’uso, la legittimazione, l’interpretazione dei contenuti e delle parole che li veicolano.

Alla nostra conclusione vorrei affidare parole di lode sincere per l’autore del testo, Marco Mazzone. Ciò che più si apprezza del testo è la presenza di autentico spirito speculativo, ma mai invischiato in dubbi circoli espressivi autoreferenziali che troppo spesso caratterizzano la scrittura filosofica contemporanea. Lodevole inoltre lo stile espressivo asciutto e completo, che si fa notare per un’abbondanza e cura di esempi che rendono accessibile a tutti la comprensione dei contenuti del testo. Solo un docente attento ai problemi culturali e conoscitivi dei giovani studenti poteva produrre un testo di così ampio respiro.

2 responses to “Menti simboliche

  1. La vendetta della scimmia

    Quando d'un tratto Washoe, con i suoi goffi tentativi di scimmiottare il linguaggio umano, apparve tra le pagine che intento leggevo, confesso di aver provato un senso di smarrimento.

    Quando Lewis, con fare sicuro, sosteneva che proprio il linguaggio è una convenzione simile al tenere la destra alla guida di un'automobile, lo ammetto, mi domandai se una lingua potesse ridursi ad un codice stradale.

    Quando, capitolo dopo capitolo, cominciavo a vorticare in un bailamme di Sinnen, cercopitechi (sinceri e non), aree del cervello, batteri marini, monete da cinque franchi ed esemplari di homo sapiens, il gioco era fatto.
    Tutti i miei preconcetti in materia di linguaggio e di lingue scardinati; le mie aspettative non corrisposte.

    L'appuntamento con Saussure e Chomsky era stato macchiato da presenze allora indesiderate, da astanti cui faticavo assegnare una precisa collocazione nella mappa, che – incerto – tracciavo su una pergamena quasi del tutto vergine.

    E seppure la mappa – come dice Korzybski – non è il territorio, essa sarà purtuttavia una guida personale indispensabile per esplorarlo.

    Strano a dirsi, fu proprio cercando un posto per i miei imprevisti compagni di viaggio che compresi il mio errore.

    [CONTINUA]

  2. […]

    Washoe, l'homo sapiens e Lewis facevano parte di una mappa più grande all'interno della quale mi ostinavo a indagare una porzione ristretta e – per me – isolata di un mondo che mi accingevo a conoscere.

    Il libro del professor Mazzone è stato illuminante in questo senso: ha mostrato ad un aspirante linguista come il dominio del linguaggio non sia da ricercare tanto nei compartimenti stagni che il mondo accademico produce e che si proiettano – a mio avviso – in ogni fatto culturale (con una parcellizzazione dei saperi che impera fin dalle elementari), quanto in una visione d'insieme che promuova un dialogo fra scienze diverse per mentalità e definizione e che le unisca in previsione di obiettivi comuni.

    Adesso Washoe potrà affermare – chissà se con un'olofrastica punta d'orgoglio – di avere consumato la sua vendetta.

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