Mind Time

Raffaello Cortina, 2007
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C’è una particolarità del testo di Libet che non può essere trascurata e che è, indiscutibilmente, indice di quanto Mind Time. Il fattore temporale nella coscienza1 sia un’opera tutt’altro che banale: il prendere le mosse da un interrogativo.

Come possono le attività fisiche delle cellule nervose del cervello produrre fenomeni di esperienza soggettiva conscia, fenomeni non fisici, che comprendono la consapevolezza sensoriale del mondo esterno, pensieri e sentimenti di bellezza, di ispirazione, di appagamento spirituale?2

Per quanto, infatti, se ne dica, lo studio della mente e delle sue relazioni con il cervello è una sfida tanto affascinante quanto impervia da praticare. Quell’impasse gordiana che per Schopenhauer era il “nodo del mondo”. Oggetto di studio non è, infatti, l’ontologico regno dell’astratto più vago. La mente è l’umano che vive: è il colore del cielo in una giornata d’agosto, il calore del partner al nostro fianco, il dolore del parente scomparso, la Nona sinfonia di Beethoven che accompagna il mio studio, il profumo di quei capelli intriso nel mio cuscino, l’inquieta rabbia dell’omicida. È la percezione vitale di un mondo del quale siamo parte, “attori e spettatori allo stesso tempo” (Bohr).
Il mentale è da tempo al centro dell’attenzione di filosofi e scienziati, ma solo in tempi più recenti i moderni metodi d’indagine hanno permesso un approccio “pratico” all’hard problem (Chalmers), o per lo meno tentato di mettere in luce quelle strutture neurali alle quali il mentale sembra non a torto indissolubilmente legato. E l’obiettivo di Libet è inequivocabile: non quello di fare speculazioni (per lo meno non direttamente) sul rapporto mente-corpo che sostengano un approccio anziché un altro (capitale vizio filosofico), piuttosto capire, da buon neuroscienziato, se sia possibile comprendere le strutture fisiche determinanti il sorgere della coscienza. Per quanto essa sia un fenomeno emergente, singolare, unico e indagabile sperimentalmente, deve essere possibile studiare il suo formarsi da un ammasso organico di materia grigia. Quella stessa materia dalla quale la consapevolezza soggettiva dell’essere umano prende il suo respiro.

E tutto viene rigorosamente argomentato mediante “evidenze” sperimentali, teorie controllabili empiricamente, alle quali Libet ha dedicato il suo lavoro di ricerca fin dagli anni ’50 nei più prestigiosi centri di ricerca mondiali.

L’assunto di base lungo i sei capitoli del testo è un attacco serio al riduzionismo e al materialismo eliminativista: il cervello e le sue strutture neurali sono la base per lo studio della mente, quel supporto necessario la cui mancata conoscenza preclude ogni possibile affermazione seria sulla mente. Tuttavia, come aveva già messo in evidenza quel genio terribile che fu Leibniz (La Monadologia, 1714, art.17), è impossibile attraverso un solo approccio sperimentale capire come intendere il mentale:

Guardate nel cervello: vedrete le connessioni neurali e i messaggi neurali che scoppiettano dappertutto, in quantità paurosa. Ma non vedrete nessun fenomeno mentale soggettivo consapevole. Soltanto il resoconto dell’individuo che ne sta facendo esperienza potrà dirvene qualcosa3.

Per dirlo in altri termini: nessuna misurazione quantitativa dei processi celebrali, nessun elettrodo, nessuna PET (positron emission tomography) e nessun’altra “fotografia” di quei circa 100 miliardi di neuroni che sono il nostro cervello, sarà in grado di dirci cosa si prova a essere un pipistrello (Nagel, Che effetto fa essere un pipistrello?). Cosa significa lanciarsi con il paracadute, baciare una donna e dirle di amarla. La coscienza è la prerogativa prima dell’essere umano, consapevolezza di essere corpo determinato in un tempo e in luogo; consapevolezza di un mondo che accade intorno.

La scoperta fondamentale sulla quale si incentra il testo è quella che il gruppo di neuroscienziati facenti riferimento a Libet ha chiamato time-on theory, teoria del tempo di attivazione. Da evidenze sperimentali sembra, infatti, che affinché possa esserci consapevolezza di qualcosa (una sensazione, la percezione del mondo esterno, delle cose…) è necessario uno stimolo di 500msec, ossia che l’attivazione della corteccia sensoriale duri per circa 0,5 secondi perché si abbia consapevolezza del segnale sensoriale. Si parla di ritardo mentale. Se nell’esperienza quotidiana il flusso di coscienza sembra continuo (una mosca ci tocca e nello stesso tempo in cui sfiora la nostra pelle ne abbiamo consapevolezza) è solo perché il tempo soggettivo e il tempo neuronale (il tempo in cui i neuroni producono effettivamente l’esperienza) non coincidono. Il ritardo neurale è minore del ritardo della consapevolezza (ritardo soggettivo), quindi pensiamo gli eventi siano simultanei, mentre non lo sono effettivamente. È chiaro che sia necessario, a questo punto, considerare la notevole differenza tra il contenuto di una sensazione e la consapevolezza della sensazione stessa: affinché ci sia consapevolezza di qualcosa è necessario passino 0,5sec mentre il contenuto si è già verificato. La zanzara ha già punto il dito, “semplicemente” la consapevolezza è uno stadio successivo.

La teoria temporale di Libet non “confuta” forse la temporalità goetheana? Se il tempo della nostra percezione non è il tempo dell’accadimento delle cose, allora l’attimo (Augenblick) è una distorsione delle cose: è un’attribuzione semantica all’oggetto che spoglia l’oggetto stesso della propria autenticità. Il patto con Mefistofele non è il patto con le cose: vivere l’attimo significherebbe vivere nel passato. E quel funambolico limite tra passato, presente e futuro sfuma ancora una volta e sempre più. Riecheggia lo spettro anassimandreo, l’ombra del Tempo sulle cose. La consapevolezza subentra all’accadimento: percepiamo un mondo che è già accaduto; percepiamo un mondo che determina il nostro procedere. Come sapeva bene Freud, gran parte della vita mentale umana si svolge inconsciamente. L’inconscio è la vita mentale che si dispiega prima della soglia temporale di consapevolezza (prima dei 500msec): ogni pensiero, ogni azione, ogni intuizione è già prima che possiamo averne consapevolezza.

Ciò significa che attività cerebrali inconsce e di breve durata hanno preceduto l’evento cosciente ritardato. […] I pensieri di vario tipo, le immaginazioni, gli atteggiamenti, le idee creative, la soluzione di problemi, e così via si sviluppano inizialmente come non coscienti4.

Se ogni pensiero esiste a livello inconscio prima che se ne abbia consapevolezza, l’umano è automa condizionato dal rigore delle leggi fisiche che determinano allo stesso modo il cosmo, o c’è spazio per la possibilità5? È l’intenzione di agire a modificare i processi celebrali, o i processi celebrali a determinare le intenzioni?

Sperimentalmente è dimostrato che il cervello comincia il suo lavoro prima che possa esserci consapevolezza: il soggetto diventa consapevole in modo cosciente del bisogno o desiderio di agire, circa 350-400msec dopo l’insorgenza dell’attività celebrale. Non esistono prove empiriche né a sostegno di un automatismo assoluto della volontà (determinismo dei processi celebrali sulla volontà di agire), né a sostegno di un libero arbitrio per il quale è dall’intenzione di agire che il cervello modulerebbe la sua azione. Libet dimostra sperimentalmente che la volontà di agire è il prodotto di un’azione inconscia del cervello (la volontà è il prodotto di un’azione del cervello della quale non siamo subito consapevoli), ma “salva” il libero arbitrio, la scelta effettiva: il libero arbitrio non determina l’intenzione di agire ma ne controlla il risultato imponendo una sorta di “veto”, o innescando l’azione permettendole così di procedere. Detto altrimenti: nel momento in cui il pensiero inconscio diventa cosciente (processo meccanico nel quale non c’è possibilità di scelta), il soggetto decide effettivamente se agire o meno. Il quinto capitolo è dedicato a una teoria possibile riguardo il mentale, ossia a quello che il filosofo americano David Chalmers ha definito l’hard problem: «come può il fenomeno non fisico dell’esperienza soggettiva derivare da qualcosa di categoricamente diverso, come le attività fisiche delle cellule nervose?»6. Come può il mentale derivare dal fisico, dato che – come precedentemente messo in evidenza – se si osservasse la struttura neurale completa del cervello non si vedrebbe niente che assomigli all’esperienza soggettiva?

L’ipotesi più accreditata, in accordo con le evidenze sperimentali, è – secondo Libet – la possibilità di concepire l’esperienza soggettiva cosciente come campo, un prodotto di molteplici e multiformi attività del cervello (CMC, campo mentale cosciente)7. In accordo con le filosofie non dualistiche, la mente sarebbe il prodotto dell’attività di alcuni settori del cervello ma che tuttavia non può essere ridotta al cervello stesso. Le sue caratteristiche (la più importante, la consapevolezza) non sono oggetto di scienze sperimentali. Il cervello è il supporto necessario per il “sorgere” della mente, che tuttavia assume delle proprietà non riducibili al cervello e quindi non indagabili attraverso gli stessi metodi con cui esso viene analizzato. È l’emergere di qualcos’altro, di nuovo, di unico che solo attraverso un’indagine introspettiva sul soggetto può essere compresa. Il CMC sarebbe individuabile solo in termini di esperienza soggettiva, accessibile solo al singolo individuo da cui emerge l’impossibilità di un approccio sperimentale e la necessità di uno sguardo attento al soggetto. Ma finché le scienze e, quindi anche la filosofia, continueranno a considerare l’umano oggetto di studio, corpo da anatomizzare, le ricerche non saranno votate che al fallimento. Contro tutti coloro che vorrebbero identificare il mentale con nient’altro che il celebrale, l’ammasso neurale contenuto nel nostro cranio; contro ogni azzardato paragone tra l’uomo e il computer, tra la vita di un individuo che patisce e i calcoli algoritmici di un processore, bisognerebbe ricordare quanto ribadito più volte da Eugene Wigner, premio Nobel per la fisica:

La fisica attuale rappresenta un insieme restrittivo di fatti e ragioni – validi solo per gli oggetti inanimati. Dovrà essere rimpiazzata da nuove leggi, basate su nuovi concetti, nel caso in cui debbano essere descritti organismi dotati di coscienza8.

Mind Time è ripensare ancora una volta l’umano. È giocare la parte dello spettatore che prende parte alla commedia. È comprendere il Tempo.

6 responses to “Mind Time

  1. Non conosco il libro di Libet. Sto dunque alla recensione, in cui si afferma che per Libet le più importanti caratteristiche della mente, tra le quali la consapevolezza, non sono oggetto delle scienze sperimentali. Se Libet pensa questo, allora diventa molto difficile capire in che modo egli possa anche sperimentalmente sostenere che la consapevolezza, la proprietà mentale non indagabile sperimentalmente, insorga esattamente circa 350-400msec dopo la corrispondente attività cerebrale. Che cavolo ha misurato esattamente? Lasciamo stare pure la questione del libero arbitro recuperato al livello della inibizione, perché l’inibizione stessa non è un’azione che, stante alle teorie esposte (“ogni pensiero esiste a livello inconscio prima che se ne abbia consapevolezza”), sarebbe preceduta da altrettanta inconscia attività cerebrale?

    C’è poi un pregiudizio, la butto come provocazione, condiviso sia da Libet sia dal suo recensore, che non c’è libertà senza consapevolezza. Perché non potrebbe esistere un processo inconscio libero?

    Ho visto citato Chalmers. Conosco tutti o quasi tutti i suoi scritti sul bidimensionalismo semantico. Sconosco invece il Chalmers filosofo della coscienza. Mi chiedevo se le sue teorie della mente siano in qualche modo connesse ai suoi scritti di filosofia del linguaggio sul bidimensionalismo.

  2. Carissimo Lugi, grazie per essere intervenuto. Probabilmente da quello che ho scritto non traspaiono molte considerazioni forse preliminari al problema e cercherò quindi di rispondere nel migliore dei modi.

    L'intenzione di Libet – come emerge subito dall'introduzione – è cercare di capire le possibili relazioni tra la mente e il cervello, dato che è evidente che il cervello sia coinvolto «nella produzione dell'esperienza soggettiva cosciente e delle funzioni mentali inconsce» (Intr. p.1). Questo non significa né che ci troviamo di fronte a una sorta di dualismo metafisico, né a un “riduzionismo” degli stati mentali ai processi celebrali. Ossia il cervello è il presupposto indispensabile per l'emergere dei fenomeni mentali, fra cui la coscienza. Ma la particolarità degli studi di Libet è aver dimostrato che l'esperienza cosciente può essere studiata solo in soggetti umani in stato di veglia e in grado di produrre da sé un resoconto della loro esperienza. Questo significa che nessuna osservazione sperimentale del cervello sarà in grado di fornirci informazioni circa i fattori mentali, che per Libet sono qualia. La capacità di amare, di emozionarsi, di essere incollerito, di sapersi, sono fenomeni soggettivi, accessibili solo al soggetto che li sta provando. «Non sono evidenti e non possono essere descritti da osservazioni del cervello» (Cap. 1, p.5). Naturalmente tutto è associato con attività neurali specifiche, ecco perché è anche possibile interrogarsi sul modo in cui le attività celebrali sono connesse all'esperienza cosciente, o possono produrla. Nel caso specifico della coscienza, sembra che «il cervello [abbia] bisogno di un periodo relativamente lungo per attivarsi in modo appropriato e indurre la consapevolezza dell'evento» (Cap. 2, p.37).

    Sul libero arbitrio: certo, il pensiero di Libet è in questo piuttosto ambiguo. I suoi studi sembravano confutare la possibilità stessa per l'azione umana ad agire liberamente, ma è come se eticamente avesse voluto salvare la nostra volontà libera di agire. Credo che fosse la sua “umanità” a contestare la validità assoluta delle “prove” sperimentali. L'atto è quindi determinato (inconsciamente), ma il soggetto può effettivamente decidere di “rispondergli” o meno.

    Sul rapporto consapevolezza/libertà: è una bella provocazione! Da parte mia credo che – tralasciando Libet e la sua ambiguità – solo dalla consapevolezza di sé possa effettivamente dipendere la capacità di agire “liberamente”. Come Kant che criticava la metafisica perché dogmatica, mentre sosteneva che solo una “critica” delle nostre possibilità conoscitive potesse essere considerata effettivamente “scienza”. Certo – tornando a Libet – se il determinismo inconscio sovrastasse l'intenzione di agire, allora il determinismo sarebbe assoluto. L'alternativa sarebbe allora una «funzione mentale cosciente – presumibilmente non fisica – che influenzi le attività delle cellule nervose-fisiche» (cfr. p.165). Praticamente l'inverso di tutto quanto detto!

    Su Chalmers, non ne ho idea!

    I problemi che emergono più che fare arenare la discussione dietro banali formule tautologiche o di stampo dogmatico, credo debbano spingere l'attenzione degli studiosi alla comprensione di ciò che siamo. Resta – per dirla con Mazzarella – che così come mai un computer potrà saperne del soffio che appanna una lastra (cfr. Vie d'uscita, il Melagono), allo stesso modo mai gli studi di stampo materialista ed eliminativista potranno capire qualcosa sulla mente.

  3. Restano i miei dubbi su questioni metodologiche in generale. Infatti, se il rilevamento di stati coscienti dipende (in qualche misura) da resoconti soggettivi, le insidie intrinsecamente legate a un tale strumento di rilevamento potrebbero rendere l’attendibilità delle misurazioni tale che lo scarto registrato non sia di entità significativamente rilevante per una teoria che concluda che

    ognipensiero esiste a livello inconscio prima che se ne abbia consapevolezza

    .

    Le abitudini lessicografiche sulla stretta correlazione tra libertà e coscienza sono molto forti. Tuttavia, sulla indipendenza, almeno concettuale, della libertà dalla coscienza credo bisogna insistere. Freud, p. es., nella descrizione dei processi psichici inconsci, come per esempio il lavoro onirico o i processi rimozione, usa spesso un lessico fatto di nozioni che ruotano intorno a quella di libertà. Questo, beninteso, indipendentemente dalla questione del determinismo nel pensiero di Freud.

    Grazie a te per la risposta puntuale. ciao

  4. Ti ringrazio per aver messo in evidenza questi che forse sono i punti limiti della teoria di Libet, per quello che mi è sembrato di capire. La questione è molto discussa nel testo – come ho cercato già di dire – e mi sembra importante che Libet abbia deciso di non "specularci" troppo sopra.

    I nostri pensieri sorgono nella nostra mente in un modo e non in un altro, alimentando le nostre inquietudini, i nostri stati emotivi, le nostre intenzioni. Se eticamente Libet "salva" la libertà dell'azione, lascia aperta la questione sul "perché" effettivamente questi pensieri e non altri.

    Se dovessimo dare ascolto al determinismo biologico, non si tratterebbe che fenomeni chimici, ma è possibile negare il valore ontologico del vissuto? Già Locke aveva messo in evidenza quanto la memoria giochi un ruolo determinante nel "fare" l'individuo, il frutto della nostra esperienza. Un dato che la scienza credo abbia acquisito con il lavoro freudiano. Eppure perché questa costante alternanza di oblio e memoria così e così? Perché questo temperamento, perché proprio questi pensieri? Quanto siamo liberi di pensarli?

    La questione etica è successiva, subentra a quel livello in cui si è già maturata l'intenzione. Ma perché quell'intenzione?

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