Per una storia del concetto di mente

Olschki, 2005. A cura di Eugenio Canone, «Lessico Intellettuale Europeo, XCIX», pp. X-420
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La mente è un’invenzione recente. Le sue scaturigini si possono ritrovare nel dualismo cartesiano e nei suoi sviluppi –pro o contra– nel XX secolo. Prima di tale inizio i termini pneuma, psyché, anima, spiritus indicavano qualcosa di profondamente diverso rispetto al significato cartesiano e moderno di una res diversa e contrapposta rispetto al corpo. Il pensiero greco arcaico, poi, ignora tale contrapposizione e concepisce il nous come l’insieme coordinato e plurale delle sensazioni, percezioni, emozioni, attività del soma. Un insieme distribuito nei diversi organi, il cui procedere unitario è appunto il corpo inteso non come materia inerte ma in quanto unità vivente e vissuta del pensare e dell’esserci.

Un’unità psico-somatica che si evolve in senso nettamente gerarchico con Platone, si ricostituisce con la concezione aristotelica dell’anima come forma naturale che ha la vita in potenza e si modifica in una ricca molteplicità di ipotesi nell’arcipelago stoico e neoplatonico. In quest’ultimo convivono, fra le tante altre, la tesi plotiniana di un “qualcosa” nell’anima individuale «che non abbandona mai l’Intelletto divino» (pag. 28) -la cosiddetta «anima non discesa»- e la netta distinzione gnostica fra le tre diverse nature mentali e interiori degli ilici, degli psichici, degli pneumatici.

Dopo la svolta cartesiana, il dualismo da essa proposto venne criticato da più parti e in direzioni opposte, o verso un materialismo più o meno radicale, o verso uno spiritualismo che rinviava a soluzioni teologiche il problema della rigorosa e costante corrispondenza fra le singole cogitationes e le conseguenti azioni corporee. Fu Spinoza, invece, a proporre una soluzione in grado di evitare il duplice errore. Nell’Ethica il termine anima compare solo 6 volte mentre la parola mens ha 553 occorrenze. Questo semplice dato quantitativo è indice di una svolta tanto radicale quanto feconda. Per Spinoza, infatti, la mente non è una res separata o persino opposta rispetto alla corporeità ma costituisce un’attività del corpo, la più completa e integrale maniera con la quale esso opera, vive, pensa. «Se per Descartes la mens è res cogitans, per Spinoza essa è modus cogitationis, cogitatio determinata e potentia cogitandi, essa è cioè idea o insieme di idee, o ancora, come afferma nell’Ethica, idea corporis» (316).

E infatti la mente spinoziana è una realtà monistica ma non riducibile solo all’anima che conterrebbe l’idea del corpo o al corpo-organismo limitato ad attività soltanto fisiche. Per Spinoza, piuttosto, ogni conoscenza è parte attiva della corporeità, le decisioni della mente costituiscono una certa disposizione del corpo la quale produce i diversi “appetiti”, desideri, emozioni, pensieri, in una simultaneità che non è il risultato di una precedente scissione ma il naturale esito di una identità originaria, «che viene concepita ora sotto l’attributo del pensiero, e ora sotto l’attributo dell’estensione» (317).

Questo volume affronta poi altri autori precedenti e successivi a Descartes e a Spinoza. Costituisce quindi una ricognizione storiografica e non teoretica. L’ultimo saggio, però, affronta il tema anche nel linguaggio e nelle forme della filosofia della mente contemporanea, esponendo una tesi del tutto condivisibile, quella della mente incarnata. L’incomprensione forse più grave che sta al fondo della prospettiva cartesiana e di quella funzionalistica, che ne rappresenta una sofisticata versione, sta nel ritenere che il pensare non abbia bisogno della corporeità, che la conoscenza sia disincarnata e operante solo nella interiorità del singolo soggetto. In realtà, «nella conoscenza il soggetto è sempre fuori» (400), poiché la mente è intessuta e costituita di relazioni con il mondo, con il corpo, con le emozioni –le quali «svolgono funzioni conoscitive importanti che riguardano la valutazione, la focalizzazione e l’azione per la soluzione dei problemi» (391)-, con le altre menti, con la scrittura –senza l’aiuto della quale la mente rimarrebbe confinata in limiti molto angusti, perché «soltanto l’invenzione della scrittura ha reso possibile il pensiero più astratto e ha consentito il nascere della filosofia e della scienza» (401).

La scrittura è una tecnica. La mente umana costruisce quindi se stessa in profonda relazione con processi tecnologici esterni, tanto che essa è stata pronta sin dalle origini della specie «a coalizioni e fusioni con una molteplicità di processi tecnologici esterni ad essa» (408). Siamo da sempre delle nature ibride e contaminate con l’alterità macchinica e animale, compresa quella umana. Tanto che «piuttosto che una sostanza eterea, noi siamo invece una congiunzione di processi biologici e di processi tecnologici esterni, e non possiamo essere separati da essi. Molte di quelle che vengono considerate comunemente le nostre capacità mentali sono invece capacità di un sistema conoscitivo esteso, di cui la mente è soltanto una componente» (408). Siamo, secondo l’efficace definizione di Andy Clark, dei Natural-Born Cyborgs. E quindi, «invece di analizzare la conoscenza in termini di processi che agiscono su rappresentazioni interne a una mente individuale, la si deve analizzare in termini di interazioni tra una mente individuale e processi esterni ad essa sia di tipo tecnologico sia di tipo biologico, ossia altre menti» (410).

La natura complessa, ibridata, ricchissima e aperta della mens è testimoniata da una delle sue facoltà più potenti ed enigmatiche: la memoria. Su di essa Agostino ha scritto pagine fondamentali nel X libro delle Confessiones, pagine che dopo secoli nulla hanno perso di plausibilità fenomenologica. La memoria rimane un fondamento metafisico della mente «enigmaticamente sottratto a se stesso, abisso immenso e molteplice1, costituito in gran parte dall’oblio e dalla lotta che l’intenzione cosciente deve con esso ingaggiare per attingere la luminosa evidenza della nozione rammemorata. Il fondamento della mens, la permanente substantia dell’autocoscienza si rivela, quindi, una memoria smemorata, evidentemente caratterizzata da errore, distanza di sé con sé, sfuggente eccedenza del profondo interiore rispetto alla superficie cosciente. (…) La mens è, da un punto di vista ontologico, il groviglio irrisolto di questi dilemmi, l’impasse della sua stessa intima contraddizione, a causa della quale non si dà visione senza oscurità, comprensione senza errore, ricordo senza dimenticanza della radice della dimenticanza e del ricordo» (109-110). Attraverso l’analisi della memoria, Agostino coglie la struttura fondamentale della mente, che è tempo incarnato, «luogo dello smarrimento del dono ontologico, dello smemoramento della memoria, della sospensione enigmatica di sé in se stessa, dell’esperienza della morte della propria vita, dello scheggiarsi temporale della propria identità metafisica» (114). La mente/memoria è quindi il luogo in cui la finitudine umana arriva ai confini temporali della propria identità.

1«Magna vis est memoriae, nescio quid horrendum, deus meus, profunda et infinita multiplicitas; et hoc animus est, et hoc ego ipse sum. Quid ergo sum, deus meus? Quae natura sum? Varia, multimoda vita et immensa vehementer» (Confessiones, X, 17, 26).

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