Quando abbiamo smesso di pensare?

Guanda, 2003, 253 pp.
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The trouble with Islam è il titolo originale del libro pubblicato da Guanda nel 2003, tradotto come Quando abbiamo smesso di pensare? Un’islamica di fronte ai problemi dell’Islam. L’autrice, Irshad Manji, è una giornalista musulmana, dichiaratamente omosessuale, nata in Uganda e trasferitasi in Canada dove vive tutt’oggi e dove conduce programmi televisivi in cui si occupa dei diritti delle donne musulmane e degli omosessuali.

Il libro si presenta per quello che in realtà è, una lunga ed accorata lettera a «sorelle e fratelli musulmani», come recitano le prime parole. In questa lettera i temi che vengono affrontati sono essenzialmente quattro: in primo luogo, le tensioni personali dell’autrice tra la propria coscienza e la religione musulmana, con cui ammette di essere «ai ferri corti»; in secondo luogo l’ammissibilità della perfettibilità del testo sacro dell’Islam, tanto profondo quanto troppo spesso contraddittorio; in terzo luogo, la storia dell’Islam in rapporto alle sue tradizioni; in ultimo, il rapporto tra Oriente, Europa e «America». Proviamo a discutere brevemente tali pregnanti tematiche.

La prima parte del libro è una piccola autobiografia in cui si narrano le esperienze adolescenziali di una ragazza musulmana e africana che, costretta a frequentare i luoghi di incontro della sua religione, impara «che se sei religioso non pensi» ossia «che se pensi non sei religioso» e sperimenta davvero per la prima volta «cos’è uno scontro tra civiltà», dacché, afferma l’autrice, «volevo farmi una cultura, non essere indottrinata». La questione sessuale, afferma inoltre, «non mi sfiorò quasi: una cosa era la religione, un’altra la felicità. E io sapevo bene di cosa avevo più bisogno». Tra le cose buone, però, che la religione – quella per cui ci si inchina «al Dio che in ogni momento abita la mia coscienza» e non a quello la cui ira viene confusa con quella dell’imam di turno (p. 254) – ha dato all’autrice, ella annovera la capacità di non confondere «l’autoritarismo con l’autorevolezza». Lezione di cui dovrebbe tener conto la sua patria religiosa.

Per quanto riguarda il secondo tema affrontato dal libro, secondo l’autrice il semplice fatto che «l’Islam non è una fede tra le altre, ma quella che tutte supera in quanto depositaria della parola perfetta e divulgata dal profeta ultimo al servizio dell’unico vero Dio» (p. 49) crea non pochi problemi all’utilizzabilità del Corano in maniera univoca ed imparziale: «in questo testo apparentemente perfetto, inconfutabile e diretto non esiste contenuto univoco. La perfezione del Corano è quantomeno dubbia» (p. 55). Manji rileva a questo punto la presenza di una corrente di pensiero importante e confortante nell’Islam, in grado di rappresentare «l’esercizio del libero pensiero» (p. 62) nella tradizione islamica. Si tratta dell’«ijtihad». Per capire ciò cui si oppone questa tradizione basta sapere che certi rabbini ortodossi, ci informa Manji, vietano l’uso di Internet mentre approvano la fondazione di un’università in cui è vietato «lo studio della storia, della letteratura, della filosofia, dell’astrofisica e di scienze che si occupano della teoria evoluzionistica come la biologia» (p. 100); oppure che la “polizia religiosa” ha costretto nel 2002 alcune studentesse a tornare dentro la scuola in fiamme da cui erano scappate perché prendessero e indossassero il loro abito tradizionale che avevano dimenticato dentro nella fretta di uscire, facendone così perire quindici e ferire dieci. Alla luce degli eventi internazionali che nel millennio appena cominciato si sono verificati, Manji afferma giustamente che «l’ammissibilità – e la non ammissibilità – dell’interpretazione del Corano è diventata un problema di tutti» (p. 213).

Il volume vanta al suo interno una parte, interessante da un punto di vista culturale e storico, dedicata appunto alla ricerca del momento in cui l’Islam avrebbe “smesso di pensare”, quel momento, cioè, in cui la grande tradizione culturale islamica si sarebbe trasformata in una barbarie di grettezza intellettuale. Viene così ripercorsa una brevissima storia del pensiero (religioso) islamico da Maometto ad oggi. Tale grettezza è in netto contrasto con la «curiosità intellettuale» che caratterizzava la cultura islamica nella sua età d’oro, tra l’VIII e il XIII secolo d. C., in cui «i cristiani lavoravano a fianco dei musulmani per tradurre e rinverdire la filosofia greca» (p. 62); in cui lo spirito dominante era quello della tolleranza, come dimostrato dai rapporti tra musulmani ed ebrei presso i confini spagnoli dell’antico impero e in occasione delle crociate (in questo caso non ricambiata dai cristiani); in cui, infine, fu istituita da un califfo di Baghdad la “Casa della Saggezza”, la prima forma di istituzione culturale superiore del mondo, quando «nell’astronomia, nella matematica, nella medicina e in molti altri campi l’Islam era all’avanguardia del mondo intero» (p. 169). Manji si chiede dunque quando tutto ciò ebbe fine per il popolo musulmano e individua tre momenti storici abbastanza definiti. Il primo è costituito dal dominio degli almoravidi del Marocco nella Spagna musulmana, intervenuti in aiuto del governatore di Siviglia per contrastare il re cristiano di Castiglia, ma che poi pretesero di essere dei puristi della teologia che «disprezzavano gli ebrei, biasimavano le donne, aborrivano il dibattito ed erano animanti da una passione missionaria addirittura maniacale (…) accusarono Al-Ghazali di sostenere posizioni eccessivamente liberali» (p. 69) ed eliminarono i sufi, «mistici dell’Islam che leggono il Corano in chiave metaforica anziché letterale» (ibidem). Il secondo momento è individuabile nella repressione della tradizione dell’ijtihad, cui si è fatto cenno, ad opera di un califfo degli inizi del X secolo che vietò ogni forma di dibattito sulle fonti dell’autorità religiosa come soluzione dello scisma tra sciiti e sunniti (i primi seguaci del cugino di Maometto e i secondi seguaci di un suo anziano compagno, nella decisione del successore del grande profeta) avvenuto tre secoli prima. Terzo ed ultimo momento “nero” della storia islamica è rintracciato nelle cosiddette “Condizioni di Umar”, per mezzo delle quali furono imposte delle regole giuridiche antisemite, intolleranti ed imperialiste. Insomma, unendo reiterazione dei costumi “bellici” ed intransigenti all’intolleranza spregiudicata e al “divieto di pensare”, i musulmani – intorno al XII secolo – ottennero così la loro prigionia intellettuale auto-inflitta. Frutto di tutto ciò l’odierno fondamentalismo islamico, la cui configurazione storico-politica viene tracciata per grandi linee dall’autrice, definito il “padrone del deserto”, luogo in cui «non può esistere uguaglianza, se la tassonomia della tribù deve restare intatta» (p. 159). E’ la scaturigine più bellicosa della grettezza di cui sopra, da fronteggiare con ponderazione, tenendo conto del fatto che «i fondamentalisti odiano la debolezza. Credono che i deboli meritino di essere sconfitti. Paradossalmente, dunque, quanto più ci sforziamo di essere accomodanti, tanto più il loro disprezzo per la nostra “debolezza” aumenta» (pp. 230-231). Nota nietzscheana: sarebbe di tutt’altro tipo l’operazione compiuta (tuttora in corso) dai fondamentalisti islamici se ad alimentarli fosse il disprezzo per la debolezza – invero di natura giudaica – che tratteggiava il filosofo tedesco nella sua filosofia, che invece resta un monito inascoltato e distante dai loro interessi. Le parti, semmai, sembrano invertite: solo un malsano “risentimento” può indurre degli sconosciuti dal volto coperto ad uccidere tragicamente migliaia di innocenti.

A parte ciò, ma ad esso legato, resta l’ultimo percorso tracciato dal volume, il rapporto tra “il deserto”, l’Europa e gli Stati Uniti. Secondo Manji, in buona sostanza, l’Occidente ha bisogno dell’Islam quanto questo ha bisogno del primo. Da un lato, infatti, il commercio (l’imprenditoria femminile), le leggi civili (che separino la moschea dallo stato) e la stampa (i mezzi di informazione con liberi giornalisti, che in Arabia Saudita, Kuwait e Giordania sono stati espulsi perché contrari ai rispettivi regimi) rappresentano la merce che l’Occidente offre alla tribale cultura del deserto per demolire la supremazia della grettezza. Certo, ammette Manji, «anche l’Occidente ha di che farsi un esame di coscienza» (p. 223) guardando ai mostri che le perversioni di queste tre perle del liberalismo hanno generato. Eppure si tratta di rischi accettabili. Dall’altro lato, «i musulmani (…) hanno aiutato a far nascere il Rinascimento europeo, e nel frattempo hanno continuato a dar lavoro a ebrei, cristiani e altri che, dal canto loro, attingevano abbondantemente dalla tradizione greca e bizantina e dalle culture limitrofe» (p. 235). Gli Stati Uniti restano però il polo del confronto più diretto per l’autrice, in quanto meta anche degli attacchi più duri. Alla fine del tragico undici settembre 2001, «le Torri che non meritavano di crollare erano ridotte a un mucchio di macerie. Quelle che meritavano di crollare continuavano a sorreggere una visione dell’Islam accettabile ma acritica: torre numero uno, l’inganno; torre numero due, l’arroganza» (p. 60). Manji sottolinea che l’Occidente non ha certo bisogno dei vari Mohamed Atta, anzi si domanda: cosa sarebbe cambiato se questi «fosse stato educato a porsi vere domande, anziché a coltivare semplici certezze?» (p. 58). Altri nessi legano Oriente ed Occidente d’oltreoceano, ma in particolare colpisce un percorso (che non è possibile riepilogare in breve) che collega il modus operandi di Bin Laden a quello del profeta Maometto, a sua volta equiparato a quello del presidente americano Bush, ottenendo un’equazione molto spinosa ma, purtroppo, non inedita.

Soprassedendo su certe ingenuità di cui un testo così accorato non può non farsi carico, le conclusioni paiono semplici quanto profonde, tutte tese al futuro. L’Islam, «prodotto di mescolanze e contaminazioni, e non uno stile di vita assolutamente originale» (p. 28), ha bisogno di «rivitalizzare le economie sfruttando talenti e capacità dell’intera popolazione del mondo islamico; competere col deserto autorizzando interpretazioni multiple dell’Islam; lavorare con, non contro, l’Occidente» (p. 183), per offrire «ai musulmani un futuro per cui vivere, anziché un passato per cui morire» (p. 213).

4 responses to “Quando abbiamo smesso di pensare?

  1. Ottimo, come ormai ci hai abituati, caro Davide.
    Il testo, a quel che ci dici, è un eccellente strumento per capire la condizione islamica e raffrontarla con la nostra, comprendendo così il segno storico che caratterizza l'idea stessa di Occidente e quindi di Oriente (e viceversa).
    Le conlcusioni dell'autrice, tuttavia, ma è solo un'impressione non avendo letto il libro, più che profonde mi paiono scontate. E come ogni scontatezza, forse sono impraticabili.

  2. Grazie per i complimenti, caro Cateno. Hai ragione in parte sulle conclusioni. Sicuramente non complesse ed articolate, quanto condivise e forse banali. Però credo siano in accordo con il resto del libro che, ripeto, è una lettera. Scritta come tale, risulta "familiare" non certo "accademica" e dunque in qualche modo ovvia. Non ti nascondo che le ingenuità di cui ho parlato – e che ho voluto giustificare – riguardano soprattutto il modo, ritengo, un po' semplificato e banale di affrontare temi intercontinentali e di culture. Va anche detto però che il gesto e le intenzioni, pur nei modi da giovane giornalista televisiva, sono ammirevoli e proprio in quanto condivisibili anche probabilmente giusti.
    Impraticabili…? Si, forse hai ragione. Più che scuotere i propri confratelli forse il libro resta un'ennesima denuncia occidentale di interesse occidentale.
    A presto,
    Davide

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