Rappresentazione e realtà

Garzanti, 1993
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Il volume Representation and reality fu edito presso il MIT nell’ormai lontano 1988 (Rappresentazione e realtà. Il computer è un modello adeguato della mente umana?, trad. it. di Niccolò Guicciardini, Garzanti 1993) eppure il testo riveste ancora un’importanza centrale nell’evoluzione del pensiero del suo autore, filosofo della scienza e del linguaggio di fama mondiale nonché padre di quella corrente di pensiero che ha dominato dagli anni ’60 del secolo scorso e che ancor oggi produce teorie feconde nell’ambito del cognitivismo, ossia il «funzionalismo».

Hilary Putnam già nel 1960 con Menti e macchine (ora in Mente, linguaggio e realtà, Adelphi 1987) aveva proposto di accostare il rapporto tra mente e corpo a quello tra «stati logici» e «stati strutturali» di una macchina (di Turing, per esempio), dando vita al funzionalismo. Ma già nel 1973 in Filosofia e vita mentale (sempre in Mente, linguaggio e realtà) aveva rivisto parte della propria posizione affermando che gli stati psicologici non possono essere in ogni caso identici alle loro realizzazioni fisiche, abbandonando anche il parallelismo mente – macchina di Turing. In Rappresentazione e realtà Putnam critica puntualmente e definitivamente ogni residuo di funzionalismo nei propri assunti: gli stati mentali non sono riducibili neanche a stati funzionali.

Variamente attaccato da colleghi di tutti il mondo, Putnam dimostra serietà e passione per il proprio compito di filosofo, mai legato eccessivamente a posizioni assunte in passato se queste si rivelano fallaci a giudizio dello stesso autore. Come ha ben detto Marianne Talbot (Mind, XCVIII, 1989, p. 453) «questo libro è un esercizio di onestà intellettuale».

Il primo obiettivo critico di Putnam è il mentalismo (in particolare esponenti come J. Fodor, N. Chomsky e N. Block) definito come «solo la più recente versione di una tendenza più generale nella storia del pensiero, la tendenza a pensare i concetti come entità scientificamente descrivibili […] nella mente o nel cervello» (p. 27), tendenza per il filosofo sbagliata per tre ragioni: 1. il significato è olistico ovvero «come dice Quine, gli enunciati vengono sottoposti al controllo dell’esperienza come un tutto, e non uno a uno» (p. 28); 2. il significato è in parte una nozione normativa, ovvero «tutta l’interpretazione dipende da un principio di carità, dato che quando interpretiamo dobbiamo sempre trascurare almeno alcune differenze di credenza» (pp. 33-34) giacché il riferimento è fissato socialmente; 3. i nostri concetti dipendono dal nostro ambiente fisico e sociale in un modo che non poteva essere previsto dall’evoluzione. Dopo una critica a J. Searle (soprattutto al suo Dell’intenzionalità), contro il ridurre il riferimento a relazioni computazionali e fisiche o direttamente alla fisica e alla chimica, Putnam si dichiara dunque «scettico sull’intera impresa di una “teoria del significato” […], di una teoria che pretenda di dare una relazione scientificamente descrivibile di similarità e di differenza di significato» (p. 78), rifacendosi anche a posizioni «nonmentaliste» di L. Wittgenstein come «il significato è l’uso». Afferma infatti che «sono qui per seppellire l’idea che una spiegazione del significato debba essere riduzionista» (p. 81), quindi che «quello che dobbiamo abbandonare è la richiesta che tutte le nozioni che prendiamo in seria considerazione debbano essere riducibili al vocabolario e all’apparato concettuale delle scienze esatte» (p. 100), in netta opposizione all’riduzionismo eliminativo di S. Stich e P. Churchland.

Dalla critica al mentalismo e al riduzionismo (soprattutto sulle teorie del riferimento e del significato), Putnam passa alla critica del funzionalismo, affermando proprio come «gli atteggiamenti proposizionali […] non sono “stati” del cervello e del sistema nervoso umano considerati in isolamento dall’ambiente sociale e non umano. A fortiori non ci sono “stati funzionali”» (p. 101). Insomma è «impossibile una definizione empirica finita delle relazioni e proprietà fisico/computazionali – ragioni che non raggiungono il livello di una prova rigorosa – ma che sono nondimeno, così credo, convincenti» (p. 109); aggiunge che «anche nel caso di una singola specie, l’“organizzazione funzionale” può non essere esattamente la stessa per tutti i membri [giacché] il numero dei neuroni può variare da persona a persona, e i neuroni ci insegnano che non ci sono due cervelli “strutturati” nello stesso modo [ovvero] la “struttura” dipende dalla maturazione e dagli stimoli ambientali del singolo cervello» (p. 112). Il filosofo coglie l’occasione per ripercorrere il proprio pensiero citando le proprie opere e criticando se stesso come i funzionalisti che hanno seguito le sue tracce (lo stesso Block e D. Lewis).

Nell’ultimo capitolo Putnam «abbozza una concezione alternativa» trattando propedeuticamente del compito del filosofare: «tutto quello che il filosofo deve fare è essere un buon “futurologo” – deve anticipare per noi come la scienza risolverà i nostri problemi filosofici» (p. 140). E proprio da qui si muove la sua critica: la scienza oggi – in particolare la computer science – tenta di spiegare fenomeni come l’intenzionalità in termini totalmente scientifici; ebbene per Putnam ciò è impossibile. La concezione proposta dal filosofo è detta «realismo interno» e fa riferimento al concetto di «verità», caro al filosofo: «la verità e l’accettabilità razionale sono nozioni interdipendenti [perché] la verità non trascende l’uso» (p. 150). Ciò significa che l’epistemologia e l’ontologia vanno considerati sotto lo stesso punto d’osservazione, al contrario di quanto fanno i programmi mentalisti, funzionalisti e fisicalisti, non riuscendo questi a individuare, per Putnam, i problemi che intendono superare.

Infine afferma gödelianamente che «è parte della nostra nozione di giustificazione in generale (e non solo della nostra nozione di giustificazione matematica) che la ragione possa andar oltre qualsiasi cosa la ragione stessa riesca a formalizzare» (p. 154) ovvero che «la ragione può trascendere qualsiasi cosa possa essere oggetto di ricognizione della ragione stessa» (p. 155).

A seguito di quanto detto, Putnam riassume il proprio progetto filosofico in poche, le ultime, righe: «le nozioni di verità e riferimento sono strettamente connesse a nozioni epistemiche; la tessitura aperta della nozione di oggetto, la tessitura aperta della nozione di riferimento, la tessitura aperta della ragione stessa, sono tutte interconnesse. E’ da queste interconnessioni che deve procedere ogni serio lavoro filosofico su queste nozioni» (p. 157).

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