Il computer schizofrenico

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Introduzione, considerazioni metodologiche
Questo convegno, sulla base di costruttivi approcci alla coscienza ed al sé, si è posto uno scopo che è formulato in una netta e fuorviante dicotomia – o porre insieme una serie di istruzioni operative per implementare la coscienza in un artefatto, oppure, nel caso ciò risultasse impossibile, spiegare chiaramente perché un tale artefatto non potrà mai funzionare. Una tale netta formulazione, comunque, è fondata su mal definite e non chiare nozioni che sono non poco problematiche. Quindi, prima di poter affrontare questo compito, espresso in modo attraente con una coppia di alternative reciprocamente esclusive, è necessario esaminare alcune basilari considerazioni metodologiche.
Il primo punto da considerare è il seguente: è assolutamente inutile cercare di sviluppare un artefatto cosciente semplicemente ri-definendo la coscienza in termini meccanicistici. Una tale riduttiva spiegazione è banale e non può certo essere lo scopo di questa discussione. A prima vista, la coscienza è una intuizione ben nota a noi tutti, che deve essere descritta, al momento, ad un livello fenomenologico, ma che naturalmente deve essere anche spiegata – se possibile – in un successivo passaggio. Quale che possa essere la spiegazione alla quale si arriverà, dobbiamo rendere giustizia a questa intuizione.
Il secondo problema consiste nel fatto che, a parte la nostra intuizione, non disponiamo di un chiaro concetto filosofico della coscienza. Anche se, di solito, i filosofi concordano sul fatto che vi sia una capacità mentale X, che potrebbe essere etichettata come “coscienza”, non possiamo certo dire di essere arrivati ad una definizione accettabile di ciò che esattamente potrebbe essere inteso come coscienza – la coscienza è di fatti un concetto vago. Chiarirne il significato vuol dire rispondere a moltissime correlate questioni filosofiche, quale, per esempio, la natura della mente umana. Solo prendendo in considerazione tutti gli approcci della filosofia della mente – a partire dai Greci per giungere ai nostri giorni – avremo qualche possibilità di risoluzione del problema. Prima di tentare di costruire un artefatto che includa in sé alcuni aspetti della coscienza, dobbiamo innanzitutto essere d’accordo su ciò che vogliamo costruire. Nel corso della nostra indagine dovremo anche affrontare una terza difficoltà. Essa potrebbe essere avanzata da un ingegnere della conoscenza il quale affermi che la “coscienza” resta plausibile come criterio differenziante gli uomini dalle macchine soltanto finché resti poco chiaro ciò che di fatto voglia significare l’intuizione filosofica della “coscienza”. Finché il concetto di “coscienza” non sarà esplicato, i ricercatori di tradizione umanistica potranno sempre asserire che per quanto possa essere sofisticata la costruzione dell’artefatto, questo, per principio, non sarà mai cosciente. Ma un tale argomento non è molto convincente e potrebbe risultare che esso si basi solo su di una fallacia linguistica, su di un cattivo uso del linguaggio. Comunque, lo stesso argomento linguistico, addotto contro il punto di vista umanistico, è soggetto ad argomenti contrari. Non è molto convincente costringere l’umanista a fortiori a formulare le sue intuizioni in termini meccanicistici. Si suppone che Turing abbia detto: mostratemi quale è la differenza fra uomini e macchine ed io costruirò una macchina con quelle caratteristiche da voi scelte come differenzianti. Ciò, a sua volta, ci riporta alla fallacia prima menzionata: una riformulazione della terminologia (intenzionale) della mente nel linguaggio della scienza dei calcolatori sembra decidere in anticipo il problema circa la possibilità di implementazione della mente nelle macchine. Il solo modo per sfuggire a tale fallacia, avendo sempre presente la nostra intenzione di costruire un artefatto cosciente, è quello di trovare un vocabolario di termini della fisica abbastanza ricco da corrispondere a tutte quelle intuizioni che anche gli umanisti accetterebbero come costituenti i fenomeni intenzionali.
Un ulteriore problema concerne ciò che intendiamo per artefatto includente in sé una mente. Di regola per artefatto noi intendiamo una macchina – un qualcosa che noi possiamo costruire e controllare. Ma all’attuale stato dell’arte della Intelligenza Artificiale il problema deve restare completamente aperto, se la coscienza non risulterà essere una proprietà emergente in una entità fisica e derivante da una qualche correlazione strutturale con l’ambiente circostante. In tal caso, anche se riuscissimo a costruire una tale entità fisica e le lasciassimo sviluppare autonomamente una coscienza, non per questo, a lungo andare, avremmo acquisito al proposito una maggior conoscenza. Noi non “sapremmo” (nel senso di ripetibilità del processo) come viene in essere la coscienza. Resteremmo comunque delusi, se la nostra intenzione di costruire un artefatto cosciente fosse guidata dal desiderio di una migliore conoscenza del fenomeno della coscienza – così come si vuole da parte della scienza cognitiva.
La mia posizione metodologica è quella di evitare le due posizioni estreme: da un lato, non cercare di spiegare la capacità mentale in un modo tale da negare di fatto l’esistenza fenomenologica della mente (ciò comporterebbe il suddetto errore categoriale dei meccanicisti), dall’altro lato, non insistere sulla irriducibilità della mente sulla base di una poco chiara intuizione umanistica della mente come qualità, che deve essere distinta da tutte le possibili spiegazioni in termini fisici. (Come ho già detto dianzi, lo scopo è quello di cercare un più ricco ed adeguato vocabolario fisico, capace di corrispondenza con i fenomeni intenzionali.)
Per tutti questi motivi, dividerò le mie considerazioni in due paragrafi. Nel primo, cercherò di descrivere il concetto di “coscienza” tramite la terminologia e l’argomentazione classica della filosofia. In un secondo momento tutto ciò verrà riconsiderato nell’ambito della ricerca nell’ambito della IA. In tal modo avremo tra le mani i due capi del filo del discorso e il nostro compito principale e più difficile sarà quello di unirli insieme. Se sarà possibile, per dirla con Gadamer, realizzare una convergenza degli orizzonti della conoscenza, lo verificheremo durante questa indagine.

1. Considerazioni filosofiche
La “coscienza” è un concetto che difetta di una chiara spiegazione. Oakley ed Eames, per esempio, distinguono fra la semplice consapevolezza, cioè l’elaborazione dell’informazione sulla base delle rappresentazioni interne, e l’auto-consapevolezza, cioè la capacità di ri-rappresentazione – la consapevolezza di essere consapevole. Laddove Oakley ed Eames considerano la “coscienza” come equivalente alla capacità di elaborazione dell’informazione sulla base delle rappresentazioni interne, molti altri, invece, preferiscono identificare la “coscienza” con l’ “auto-consapevolezza”. La questione circa l’identità fra la “coscienza” e la “auto-consapevolezza” a me pare una mera questione di definizioni e quindi non meritevole di ulteriore indagine. Oakley ed Eames distinguono due aspetti dell’auto-consapevolezza. “L’auto-consapevolezza si presenta sotto due forme: nella forma diretta verso l’esterno essa consiste nella consapevolezza della nostra percezione del mondo esterno (compreso il nostro corpo), in quella diretta verso l’interno, invece, essa consiste nella consapevolezza dei nostri pensieri, dei nostri dialoghi interni e dei nostri sentimenti od emozioni” [Oakley ed Eames 1985, p.220].
Comunque, è importante la caratteristica comune ai due aspetti dell’auto-consapevolezza, cioè la “direzionalità” che costituisce il nucleo dell’auto-consapevolezza. È oggetto specifico della mia indagine la “direzionalità” come tale, sia che si presenti verso il mondo esterno che verso il sentire interno. A mio avviso, in tutto ciò, la difficoltà principale non consiste tanto nello spiegare come faccia un oggetto fisico a porsi in riferimento con se stesso, quanto nel dare di questo fenomeno una spiegazione di carattere generale. Se riuscissimo a spiegare in qual modo la semplice materia possiede la capacità di referenza, non avremmo alcuna difficoltà a spiegare come essa possa riferirsi a se stessa. Hofstadter afferma: “Sembra che sia un vero enigma il fatto che la materia possegga capacità di referenza. Come può un pezzo di materia stare in rapporto con un qualcos’altro (senza considerare il fatto di esserlo con se stesso)?” [Hofstadter 1986, p.659]. È bene sottolineare che questa è una delle principali questioni filosofiche: come può un “soggetto” andare oltre i propri limiti e conoscere un “oggetto”1 .
Secondo me, la “auto-referenza” non è altro che la capacità, per chi compie l’atto del riferirsi, di trattare se stesso come un oggetto. Pertanto il problema basilare resta il come un’entità specifica, un soggetto, può riferirsi ad un’altra entità che non è lui stesso e che noi definiamo come un oggetto. La maggior parte delle persone si scervella sul problema dell’auto-referenzialità e dimentica nello stesso tempo di chiedersi cosa significhi referenza. Questo problema, per esempio, nasce nella Critica della ragion pura di Kant. Credo sia utile qui citare la splendida immagine che viene data di questa relazione fra soggetto e oggetto: “Noi abbiamo fin qui non solo percorso il territorio dell’intelletto puro esaminandone con cura ogni parte; ma l’abbiamo anche misurato, e abbiamo in esso assegnato a ciascuna cosa il suo posto. Ma questa terra è un’isola, chiusa dalla stessa natura entro confini immutabili. È la terra della verità – nome allettatore! – circondata da un vasto oceano tempestoso, impero proprio dell’apparenza, dove nebbie grosse e ghiacci, prossimi a liquefarsi, danno ad ogni istante l’illusione di nuove terre, e, incessantemente ingannando con vane speranze il navigante errabondo in cerca di nuove scoperte, lo traggono in avventure, alle quali egli non sa mai sottrarsi, e delle quali non può mai venire a capo” [Kant 1901, trad. it. vol. I, p.243].
A seguito di quanto affermato da Kant, sorge la questione circa la possibilità di conoscere questo oceano sconosciuto che circonda il territorio del puro intelletto, così espressivamente descritto da Kant. Alla luce dello scopo di questo convegno si potrebbe formulare tale questione anche nei seguenti termini: come è possibile che una macchina manipolatrice di simboli trascenda se stessa al punto di raggiungere una qualsiasi altra cosa che non sia essa stessa. Possiamo, anche, formulare tale questione con i termini filosofici di Platone e di Heidegger. Deve essere dimostrato che la “intenzionalità” è basata sulla fondamentale capacità dell’uomo di trascendere la sfera della realtà. Sin dai tempi più remoti i filosofi hanno cercato di spiegare questo fenomeno e noi dobbiamo accettare a prima vista che, da un punto di vista fenomenologico, la “trascendenza” fa parte del tradizionale vocabolario della filosofia.
Più che ad ogni altro approccio sistematico a questo problema, si deve alla filosofia classica l’interpretazione dell’uomo come un essere capace di oltrepassare i confini di un sistema formale e chiuso. Sicché il termine “trascendenza” è associato ad una visione decisamente non meccanicistica dell’uomo. Con il termine “trascendenza” si vuole, inoltre, indicare una caratteristica ontologica fondamentale dell’essere umano: la libertà. Questo concetto, dunque, differisce totalmente da quello di operatività delimitata che si applica ai sistemi meccanici. Ed, inoltre, la trascendenza non ha nulla a che fare con l’inevitabile rigida interconnessione dei componenti di un sistema meccanico.
D’altro canto si può evidenziare una strana forma di ambivalenza presente nella filosofia: paradossalmente, nel perseguire la “trascendenza” si ha come risultato la perdita di ciò di cui si va alla ricerca; non si consegue l’apertura a cui si tende ed il mondo si presenta come una specie di mondo-macchina.
Questa ambivalenza è riscontrabile nella filosofia di Platone. Nella filosofia platonica troviamo la “epekeina tes ousias”, che consente agli esseri umani di porsi in relazione con un altro mondo, ma che, a sua volta, verrà cancellata dal tentativo di Platone di dare una spiegazione filosofica di questa trascendenza. Tutto ciò lo possiamo rilevare dal seguente brano di Platone nella Repubblica [507e]:

«Nonostante la vista, come ritengo, risieda negli occhi e colui che li possiede voglia farne uso, anche se gli oggetti sono colorati, in assenza di un terzo elemento indispensabile tu sai che la vista nulla vedrà, neppure i colori.»
«Di quale elemento parli?»
«Di ciò che tu chiami luce» risposi.

Queste considerazioni di Platone possono essere riformulate in termini filosofici moderni nel modo seguente. Nel descrivere l’atto intenzionale con termini adeguati dobbiamo evitare due interpretazioni errate. Da un lato, non bisogna confondere l’intentum (ciò che si vuol spiegare, si percepisce, si vede e così via) con l’oggetto cui ci si riferisce. Secondo Frege l’intentum non è il nome dell’oggetto a cui ci si riferisce ma è il nome del suo Sinn [Frege 1980, p.41]. Per capirci facciamo un semplice esempio. Un alcolizzato che “vede” topi bianchi in una stanza, in cui abbiamo liberato alcuni esemplari di topi bianchi, non vede gli stessi oggetti ai quali noi ci riferiamo. D’altro canto, non possiamo affermare che egli non veda nulla. Di modo che l’oggetto di riferimento non è identico a quello verso cui tende l’atto intenzionale. Da quanto detto consegue, incidentalmente, che il test di Turing è uno strumento inadeguato per consentirci di decidere se le condizioni di un atto intenzionale siano soddisfatte o meno. D’altronde, non possiamo spiegare la direzionalità dell’atto intenzionale con il solo spostare l’intentum nella sfera del nostro sentire soggettivo. In tal caso, non saremmo in grado di distinguere fra chi ha soltanto delle allucinazioni e chi, invece, si riferisce ad oggetti realmente esistenti.
Laddove la filosofia analitica cerca di risolvere il dilemma introducendo il Sinn come costrutto teorico, Platone, invece, cerca un fondamento ontologico della direzionalità dell’atto intenzionale. Egli lo trova nella luce. Né l’oggetto di riferimento, il colore, né la percezione localizzata nell’occhio riescono a spiegare la nostra capacità di vedere un colore, a meno che non consideriamo un terzo elemento: la luce. Bisogna notare che la luce svolge anche una funzione mediatrice nella teoria delle idee di Platone. La partecipazione (methexis) del mondo dei sensibilia al mondo noetico è assicurata dalla luce. Solo tramite la luce le idee risplendono, quindi partecipazione vuol dire risplendere. Lo stato ontologico delle idee di Platone resterebbe poco chiaro senza una fondata interpretazione filosofica del concetto della luce in Platone. Sarebbe del pari poco chiara la mediazione dell’“occhio” (il soggetto dell’atto intenzionale) e del colore (l’intentum).
Nella Repubblica di Platone troviamo la c.d. idea thou agathou, l’idea somma nella scala gerarchica delle idee, che illumina tutte le altre idee. Per capire lo stato ontologico delle idee (cioè se siano solo pensieri della nostra mente oppure facciano parte di una qualche realtà distinta) dobbiamo innanzitutto indagare sulla natura di questa suprema idea di Platone. Nella Repubblica [509b] leggiamo: “Allo stesso modo si può dire che il bene non solo dà alle cose intelligibili il dono di essere conosciute, ma anche l’esistenza e l’essenza, quantunque il bene non si identifichi con l’essenza, ma sia superiore anche a questa per dignità e potenza”.
Innanzitutto bisogna notare che il termine greco ousia viene tradotto con essenza, mentre il termine einai è tradotto con essere. Questa distinzione è cruciale. L’idea suprema non va al di là della einai (esistenza), mentre trascende la ousia (essenza). Da ciò consegue che il bene esiste (cioè non è al di là dell’essere) ma non ha alcuna essenza. Possiamo solo dire che è ma non che cosa è. Tuttavia per capire questo strano stato ontologico dobbiamo tener presente una X che si suppone essere ma non essere qualcosa di specifico. Ovviamente dire che una X è significa sempre che essa appare come un che cosa è. Da ciò possiamo concludere che il bene deve apparire nella molteplicità delle cose, ed in tal modo si opera il passaggio da Platone al neoplatonismo.
Il significato dell’“essere” dell’idea suprema di Platone lo si può rinvenire in uno dei dialoghi platonici più speculativi, il Parmenide. Qui, ancora una volta, Platone indaga sullo stato ontologico delle sue idee. In questo dialogo la questione dibattuta riguarda la relazione fra l’Uno e il Molti. Ogni idea è in un certo senso un uno, e molte cose partecipano di questo uno. Nella parte introduttiva del dialogo viene respinto il concetto dell’idea come una vela che copre tutte le cose che di quella idea partecipano. Da questa considerazione consegue che la partecipazione tra l’uno e il molti non può essere intesa in un senso obiettivo e concreto. Dunque, sarebbero male intese le idee di Platone se le interpretassimo come un secondo mondo di oggetti separato da quello del mondo reale. Il cosiddetto approccio “platonico” nell’interpretare i concetti universali come sostanze (per esempio la interpretazione della cavallinità come un qualcosa che esiste separatamente dai singoli cavalli) ha niente a che fare con la interpretazione di Platone dello stato ontologico delle sue idee. Dopo aver escluso che la partecipazione sia simile alla relazione esistente fra una vela e un certo numero di uomini da essa coperti, Platone discute un’altra interpretazione delle sue idee che, nella filosofia moderna, è conosciuta come approccio neo-kantiano, cioè le idee sono solo pensieri con nessuna particolare esistenza se non nelle nostre menti. Ma anche questo punto di vista viene respinto. Pertanto Platone inizia la discussione in un modo più generale partendo dalla relazione fra l’Uno e il Molti. Con l’Uno si intende l’unità originale di Parmenide dalla quale deriva la molteplicità di tutte le idee – come il bene è all’origine dell’esistenza e dell’essenza delle cose. Se riusciamo a spiegare adeguatamente questa relazione di tipo generale, potremo anche capire la ulteriore e derivata partecipazione delle cose alle differenti idee (che, a loro volta, partecipano all’Uno originale). Spiegare la relazione fra l’Uno e il Molti significa trovare la chiave per capire la partecipazione in generale.
Questa relazione viene discussa dialetticamente considerando le conseguenze derivanti dal supporre reciprocamente se l’Uno è o se l’Uno non è. In un primo momento, nell’espressione se l’uno è viene posto l’accento su l’Uno. Conseguenza di ciò è che l’Uno non è. Infatti “essere” implica “essere qualcosa” ed “essere qualcosa” implica una molteplicità, perché per essere qualcosa si deve essere qualcosa di specifico. Se invece l’accento viene posto sull’essere dell’Uno, cioè l’uno se è, ne consegue che è un insieme di parti e pertanto non è più Uno ma una molteplicità. La soluzione del dilemma viene dalla spiegazione che l’Uno se è, è nel momento (to exaiphnes) in cui viene in essere. Il momento è il passaggio da uno in molti e da molti in uno. Solo il salto da uno a molti può risolvere il paradosso: divenendo Uno cessa di essere molti (il che significa che cessa di essere “un qualcosa”), e quando diviene molti, cessa di essere Uno. In altre parole: lo stato ontologico appropriato dell’Uno è il momento. “…imperocchè esso par che significhi trapassamento d’un che in altro. […] L’uno, dunque, se sta e si muove, passa in una o in altra condizione; imperocchè solo a questo modo potrebbe egli fare tutte e due le cose” [Parm., XXXV].
Da quanto fin qui detto possiamo trarre le seguenti preliminari conclusioni: l’idea suprema, concepita come un essere che è al di là dell’essenza, non è in alcun modo scollegata da tutte le altre cose che da essa sono derivate. Quindi dobbiamo interpretare la stato ontologico del Bene in maniera dinamica: il Bene può esistere solo passando nella moltitudine di tutte le cose esistenti al mondo. Ciò comporta che il Bene non ha un tipo di esistenza autonoma, separata. Il suo destino (moira) è quello di mostrarsi in tutte le altre cose. Questo mostrarsi avviene in modo necessariamente matematico. È convincente il fatto che Platone attribuisca a questo modo di apparire il termine mathesis. Le funzioni matematiche fanno da intermediarie fra la noiesis e la aisthesis. È quindi accettabile quanto si suppone abbia affermato il neoplatonico Proclo: “Ho theos aei geometrai”.
Tuttavia in questo dialettico intrecciarsi del Bene con le altre cose, il Bene cessa di essere qualcosa di trascendente rispetto al mondo. Nel tentativo di comprendere filosoficamente la natura del Bene perdiamo la sua caratteristica di essere al di sopra di tutte le altre cose. Pertanto ripeto quanto detto dianzi: nel perseguire la “trascendenza” (cioè l’apertura dell’uomo) si ha come risultato che con l’annullarsi della stessa non si raggiunga neanche quell’apertura a cui si tendeva – il mondo deve essere quindi considerato come una specie di mondo-macchina. In altre parole: durante la dialettica intermediazione del bene che è la epekeina tes ousias con il kosmos ton eidon, cioè il mondo delle idee, la idea thou agathou, cioè il Bene, non riesce a compiere ciò per cui è stato concepito, vale a dire, far apparire tutte le cose alla luce della suprema, trascendente idea. Usando una terminologia a noi più vicina, possiamo dire che la parabola platonica del sole riesce ben poco a spiegare il nostro comportamento intenzionale. Non è capace di spiegare come sia possibile il riferirsi di un soggetto ad un mondo esterno. Platone utilizza il metodo dialettico per mostrare come uno e molti entrano in relazione, ma, così facendo, annulla la loro reciproca indipendenza.
Di seguito mostrerò in che modo Heidegger cerca di risolvere questo paradosso. Mediante il suo approccio si riesce ad approfondire la natura di questa strana trascendenza, che la filosofia platonica ha invano cercato di spiegare, e che è il presupposto della nostra capacità di relazione con quel che è fuori di noi stessi.
Per Heidegger, la “intenzionalità” si fonda sulla capacità degli esseri umani di “tendere al nulla” [(sich Hineinhalten in das Nichts) Heidegger 1978, p.114]. Heidegger per mezzo di questa specifica caratteristica umana supera la dicotomia soggetto/oggetto e a volte paragona questa caratteristica alla epekeina tes ousias di Platone. Ma quanto proposto da Heidegger è totalmente differente dal Bene di Platone: la descrizione heideggeriana del tendere della mente umana va molto al di là dell’idea suprema platonica: mentre quest’ultima non trascende in alcun modo l’essere, Heidegger, al contrario, interpreta il tendere della mente umana come una capacità di raggiungere il nulla che, a sua volta, significa che la mente umana trascende l’essere. Comunque, il concetto heideggeriano del Nulla è stato oggetto di critiche. Ma allo stesso tempo dobbiamo sottolineare che, se noi attacchiamo il concetto del nulla basandoci sul fatto che il termine “nulla” come usato da Heidegger rappresenta un cattivo uso del linguaggio e al contempo viola le regole della logica formale, saremmo noi a commettere un errore categoriale, e cioè pretendere che Heidegger riformuli il suo pensiero in termini di logica formale. Noi non possiamo, prima facie, rigettare ciò che innanzitutto deve essere investigato, cioè che quel concetto di Heidegger rivela un qualcosa che è qualitativamente differente da ciò che può essere formulato in uno specifico e ristretto vocabolario.
Queste preliminari considerazioni evidenziano che, nel discutere di una possibile automatizzazione della mente, non si può prescindere dalle differenti posizioni che si rinvengono nella tradizionale metafisica. Ma a cosa vuol giungere Heidegger con la descrizione della mente che trascende al Nulla? Innanzitutto il suo scopo è quello di evitare il dilemma di Platone: raggiungere il Bene quale essere che trascende l’essenza, significa coglierlo in uno stato di dipendenza dalla realtà, con la conseguenza che non è capace di colmare l’apertura della mente umana. Ma quale risposta a questo dilemma viene da Heidegger? Egli afferma che la mente umana non è in grado di porsi in relazione né con un mondo esterno né con se stessa, se non trascende al nulla, in altre parole, se non fa l’esperienza della propria morte. Nel porci in relazione con la nostra morte, non solo sperimentiamo ciò che è delimitato dalla nostra vita quotidiana (che, a sua volta, è originata dai nostri affari e interessi soggettivi), ma, per di più, ci rendiamo conto che vi è qualcosa di esterno e di indipendente dai nostri costrutti sociali e culturali. Pertanto, Heidegger con il suo Hineingehaltenheit in das Nichts fornisce alla mente il modo per incontrare un autonomo mondo esterno, per incontrare ciò che Kant nella Critica della ragion pura definisce regno dei noumena. Nella nostra esperienza della morte il vento che ci sospinge è ben lungi dall’essere solo il motore del nostro navigare, ma ha un significato che non è riducibile a quello che è il nostro ingenuo mondo sensoriale, l’Umwelt [cfr. von Uexküll 1974]. È essenziale intendere il Hineingehaltenheit in das Nichts non come qualcosa di esterno alla nostra mente, ma, al contrario, come qualcosa di intrinseco alla mente. Solo se la mente è costituzionalmente in sé divisa, essa può avere la possibilità di andar oltre quei confini posti da Kant e di acquisire una certa conoscenza del kantiano regno dei noumena. Per capire il perché le cose stiano in questo modo è necessario riflettere attentamente sui seguenti punti.
Ogni discussione intorno al qualcosa che è esterno alla mente è possibile solo nell’ambito di un discorso in cui la mente, in un certo senso, è ciò su cui essa riflette. Questo è in accordo con l’antica parabola dell’occhio che non potrà mai vedere il sole se non è, in un certo qual modo, esso stesso il sole. Noi possiamo comprendere solo ciò che noi stessi siamo. Secondo Heidegger, la nostra esistenza è sempre essere-nel-mondo sin dal principio. Cosa vuol significare ciò per il nostro tentativo di individuare una trascendenza esterna alla mente? Qui sorge il seguente dilemma: nel caso in cui ciò che è esterno alla mente si debba interpretare ontologicamente come un qualcosa di completamente differente dalla mente, in tal caso avremmo un qualcosa di trascendentale da paragonare al famoso coleottero di Wittgenstein chiuso in una scatola che nessuno può aprire [cfr. Wittgenstein 1969b, p.403]. Questo coleottero non sarebbe neanche un qualcosa, non farebbe parte in nessun caso del gioco linguistico. D’altro canto, se noi siamo in grado di comprendere solo ciò che noi siamo, non possiamo neanche parlare di ciò che è al di fuori della nostra conoscenza. Pertanto, io vedo una sola possibilità di sfuggire a tale dilemma: ciò che è esterno alla mente deve essere una parte costitutiva della mente in un modo tale che non è completamente accessibile alla mente umana. Ciò che Kant ha bandito dal regno dei fenomeni, cioè i noumeni, devono essere inculcati nell’uomo in un modo tale da essere un suo costituente ontologico che, tuttavia, non può essere mai afferrato appieno dalle sue capacità intellettuali. In altre parole: la mente umana deve essere in sé divisa. Solo se la mente è in sé divisa possiamo spiegarci quel nostro sentire che vi è sempre qualcosa “lì fuori”, qualcosa che non può essere una mera creazione delle nostre rappresentazioni interne del mondo. In poche parole: la dicotomia soggetto/oggetto si rivela come una estrapolazione di una divisione che è insita in noi stessi.
Io penso che Heidegger con la sua terminologia voglia dire esattamente ciò. Gli esseri umani sono-nel-mondo sin dal principio perché essi sono caratterizzati come esseri che portano nel proprio modo di esistere una differenza ontologica fra il “nulla” da un lato e tutta la realtà dall’altro lato. Dal momento che un essere umano può dare una interpretazione semantica dei simboli manipolati sintatticamente solo mediante la referenza ad un autonomo mondo esterno, accade che, come dice Heidegger, la semantica trova fondamento nell’ontologia dell’essere umano.
Questa condizione di essere in sé divisi che gli uomini sperimentano come un abisso presente in loro stessi può essere interpretata con un’altra riformulazione di quanto affermato da Heidegger secondo il quale gli esseri umani portano sempre dentro di sé una parte del nulla – c’è sempre qualcosa “lì fuori” che non ancora è raggiunto ma che ontologicamente costituisce l’esistenza dell’uomo. Quanto detto sul Hineingehaltenheit in das Nichts è anche applicabile a questo “non ancora”: esso può essere usato come un fondamento ontologico della semantica.
Tuttavia il non ancora di Heidegger può essere interpretato in due modi. Secondo una prima interpretazione, il non ancora vuol indicare una permanente iterazione dello stato effettivo di una macchina quale può essere descritto in dato momento. Heidegger con il suo concetto del non ancora non vuol indicare una estrapolazione dello stato effettivo di una macchina quale è descrivibile in un dato momento, bensì vuole indicare uno stato ontologico qualitativamente differente che è al di là della sfera di tutte le iterazioni del presente. Secondo quanto dice Heidegger, noi commetteremmo un errore categoriale se pensassimo, con la sola addizione di successive meta-macchine, di costruire una macchina che riesca a raggiungere quel territorio sconosciuto che Kant ha posto fuori del regno della ragione pura e che Heidegger vuole riconquistare con la sua descrizione dell’uomo quale essere tendente al Nulla. Non è il caso di impegnarsi in una tale problematica, né voglio essere coinvolto in discussioni su Gödel e sul problema matematico dell’infinito. Secondo il punto di vista di Heidegger il motivo per cui la semplice iterazione degli stati attuali di una macchina non fornirà mai una esaustiva descrizione della trascendenza non dipende dal fatto che la macchina non sia in grado di ricomprendere l’infinito, bensì è dovuto al fatto che il significato di questa trascendenza è qualcosa di categorialmente differente da una macchina intenta a svolgere gli infiniti passi di una iterazione. Devo evidenziare che queste considerazioni rientrano in una provvisoria interpretazione del pensiero di Heidegger che avrebbe bisogno di un’analisi più accurata. Ho sempre cercato un esempio adeguato della trascendenza heideggeriana in opposizione ai semplici processi iterativi, ma temo di poterne fornire uno molto semplice. Potremmo esemplificare la differenza che ci interessa ricorrendo alla differenza esistente fra una serie di istantanee e il movimento che con esse si suole rappresentare. Una iterazione di un enorme numero di istantanee non sarà mai il movimento. Così alla fine arriveremmo al punto in cui chiederci che cosa è mai il movimento. Sappiamo tutti il modo in cui questo problema fu inizialmente affrontato in filosofia, cioè con i paradossi di Zenone. Ma sappiamo, anche, come questo problema fu risolto da Aristotele. Esso fu semplicemente risolto con l’introduzione della categoria del movimento. Allo stesso modo, Heidegger ha introdotto una nuova categoria per risolvere il problema della intenzionalità (coscienza) e della trascendenza. Egli nomina questa nuova categoria: “Existenz”. A causa di questa nuova categoria un essere umano è capace di essere nel mondo sin dal principio, ed è capace di trascendere. Secondo Heidegger si incorrerebbe in un errore categoriale se sostituissimo il concetto di “Existenz” con quello di “Vorhandenheit” – cioè lo status ontologico di tutte quelle cose la cui esistenza nel mondo è derivata dall’esistenza dell’uomo il quale, per la sua intrinseca apertura, è nel mondo sin dall’inizio. Heidegger imputa questo errore a tutti i metafisici – e, per quanto ci riguarda, a questi dobbiamo aggiungere gli ingegneri dell’IA. Gli esseri umani sono, in questo senso, differenti da tutte le altre cose del mondo (compresi gli animali), dal momento che portano dentro se stessi il “non ancora” – il senso di nullità è parte costitutiva di loro stessi. Pertanto, lo status ontologico degli esseri umani – e solo degli esseri umani – è, secondo il pensiero di Heidegger, un tipo intrinseco di apertura che il filosofo definisce temporalità.
Soltanto perché un essere umano è aperto al futuro sin dall’inizio egli potrebbe, in un senso derivato, andare oltre le sue correnti rappresentazioni del mondo. Lo status ontologico di un essere umano potrebbe essere interpretato solo in un senso temporale. La nostra capacità di tendere al nulla può essere anche rintracciata in questa temporalità. Il “Nulla” non è oggettivizzabile, come nel caso della idea suprema di Platone, esso, al contrario, vuole significare un evento che accade quando l’uomo fa l’esperienza del Nulla. Ma Heidegger da cosa trae la convinzione che l’apertura di un essere umano al futuro non può essere simulata da una macchina che vada, fase dopo fase, oltre il suo effettivo stato? Perché Heidegger è convinto che la temporalità di un essere umano è qualcosa di qualitativamente differente dalle modificazioni temporali che subiscono gli eventi nella realtà?
A questo punto dobbiamo formulare alcune osservazioni e cercare di trovare una autonoma soluzione per questa trascendenza. Di seguito cercherò di mostrare come la concezione heideggeriana del “Nulla”, nel cercare di descrivere la “trascendenza” inerente agli esseri umani, incorra nello stesso dilemma dell’approccio platonico all’idea suprema: trattando il “Nulla” come una entità che può essere filosoficamente raggiunta e compresa (nel tendere al Nulla gli esseri umani, secondo Heidegger, supererebbero qualsiasi cosa che sta al di fuori della loro effettiva condizione esistenziale) significa che esso non è più qualcosa alla quale non ancora si è arrivati e, quindi, l’apertura ad ulteriori sviluppi non è più un punto controverso. In altre parole: nel prefigurarsi la morte, così come Heidegger descrive tale fenomeno in Sein und Zeit [Heidegger 1972], la morte stessa cessa di essere qualcosa di alieno e di non trattabile dal punto di vista filosofico. In Beiträge zur Philosophie [Heidegger 1989], uno dei suoi ultimi scritti, Heidegger sottolinea il fatto che, secondo il suo punto di vista, la morte può essere dominata dalla filosofia. Nel cercare di dominare la morte per mezzo della filosofia un essere umano può superare tutte le limitazioni a cui potrebbe essere soggetto. Avanzando verso la frontiera più lontana della nostra esistenza – cioè il nulla – e trattando questo confine come un razionale concetto filosofico, si presume che la mente umana compia il suo passaggio intramondano in un modo tale che nulla resti che possa essere detto esterno ad essa. Scoprendo nell’esperienza della morte tutto ciò che è non ancora, ogni cosa che può essere definita esterna viene assorbita. Paradossalmente, nell’esperienza della morte trascendiamo tutti i possibili limiti.
Tuttavia è necessario evidenziare che Heidegger estende una intuizione della nostra nullità al di là di quanto possa essere fenomenologicamente dimostrato. Faccio notare che ciò che Heidegger definisce “Nulla” non può essere dominato dalla mente umana ma resta come un residuo inspiegabile, un abisso dentro noi stessi che ci spinge ad essere sempre aperti a nuove, non ancora realizzate esperienze. Sarebbe senz’altro interessante, ma certo al di là di quanto in discussione in questo convegno, analizzare i differenti approcci filosofici al concetto di “trascendenza” e porre la questione sul come mai nell’affrontare il tema della “trascendenza” quest’ultima ci sfugga. Pertanto mi accontento delle seguenti conclusioni: dalle considerazioni filosofiche fin qui svolte e ai fini di quanto ci proponiamo di costruire abbiamo ottenuto come risultato che l’intenzionalità è basata sulla capacità di qualcosa di differenziarsi da ciò che è all’esterno. Questa distinzione a sua volta, la c.d. “Dicotomia Soggetto/Oggetto” è basata su di un’ulteriore distinzione all’interno di noi stessi. Nella lingua giapponese, per esempio, il termine “coscienza” vuol dire: “essere diviso in se stesso” [Kittler e Tholen 1989, p.120]. Questa distinzione deve essere intesa in senso dinamico, cioè quella parte di noi stessi che non può mai essere colta nelle nostre rappresentazioni del mondo sensoriale e che non è accessibile alle riflessioni filosofiche risulta essere soggetta a cambiamenti continui. Se cerchiamo di individuarla mediante spiegazioni sul cosa è o potrebbe essere, in quello stesso momento essa si rivela essere differente da ciò che avevamo supposto fosse. È proprio l’incapacità di conseguire esaustivamente il significato della trascendenza insita in noi che ci mette in grado di essere aperti a nuove esperienze. Il fiasco della metafisica tradizionale sta nel fatto che ha distrutto questa apertura dell’uomo proprio mediante il processo della sua ricerca e comprensione. Ma là dove i metafisici hanno fallito nel loro tentativo, gli ingegneri dell’Intelligenza Artificiale potrebbero riuscire nello scopo, cioè trasformare il materiale in mentale.

2. Implicazioni per l’ingegnere della IA
La descrizione filosofica dell’intenzionalità deve essere chiarita: deve essere riformulata con termini più adeguati, in modo da poter descrivere un artefatto che includa l’intenzionalità. Per spiegare come sto procedendo nella mia discussione, porto come esempio il modo di operare per costruire una galleria. Fino a questo momento abbiamo provveduto al primo ingresso, ora dobbiamo aprire il secondo ingresso, cioè riscrivere con i termini della IA quanto detto in termini filosofici. Se poi saremo riusciti a creare una corrispondenza fra i due ingressi, questo sarà oggetto di una discussione successiva. Come già ho avuto modo di dire, il problema principale è quello di decidere quale sia un adeguato vocabolario per descrivere la nostra intuizione fenomenologica dell’intenzionalità.
Innanzitutto bisogna intraprendere una critica della c.d. “teoria rappresentazionale del significato”. La domanda è: questa teoria cosa cerca di spiegare? Essa cerca di spiegare in che modo un sistema, che elabora simboli su base di regole sintattiche, riesca a capire questi stessi simboli. In poche parole: come possiamo passare dalla sintassi alla semantica? La teoria in questione fornisce la seguente risposta: i processi mentali sono manipolazioni regolate di strutture simboliche che, a loro volta, sono interpretate come rappresentazioni di qualcos’altro. La referenza di un soggetto S ad un oggetto O viene spiegata dalla teoria rappresentazionale in questo modo: il soggetto S è in uno stato mentale “O” che rappresenta O per S. Questa spiegazione non regge. Infatti essa utilizza un concetto semantico indefinito, cioè il concetto di rappresentazione. La teoria rappresentazionale non fornisce una risposta alla questione fondamentale della semantica, cioè sul come ad un segno venga assegnato un significato.
È proprio l’uso semplicistico del termine “rappresentazioni” nel contesto delle strutture simboliche di un computer che fa sorgere aspettative nei ricercatori della IA e che nel contempo non è riscontrabile a livello tecnologico. Più precisamente, sono Io come osservatore di un computer che assegno un significato ai simboli che vengono automaticamente, cioè “alla cieca”, elaborati da un tale sistema. Se mi attengo a questa interpretazione cado vittima dell’erronea presunzione che il computer capisca, in ogni senso, i segni che manipola. La semantica di una macchina elaboratrice di simboli è dunque sempre “delegata”, e il trasferire ad una macchina le capacità interpretative di un osservatore comporta immediatamente una fallacia logica. Haugeland ha definito questo problema come il “mistero del significato originale” [Haugeland 1985, p.119]. Anche se un S si riferisce ad un “O” e “O” rappresenta O per S, resta da dimostrare che lo stesso computer usi “O” per riferirsi ad O, dal momento che diversamente dovremmo essere accusati di appropriazione indebita di un concetto. In altre parole, il significato non è una proprietà inerente alle forme simboliche materializzate o alle strutture simboliche insite in un computer. Per avere la capacità di referenza il computer deve trovarsi in uno stato intenzionale. Questo vuol dire che il problema del significato originale (non derivato) è strettamente connesso alla questione sul che cosa consenta ad un artefatto di trovarsi in uno stato intenzionale.
Alla luce di quanto fin qui detto, il dilemma centrale della teoria rappresentazionale del significato si può riassumere nel modo seguente. Anche la interpretazione di certe strutture fisiche come simboli presuppone una teoria in grado di spiegare come possa il computer riferirsi a qualcosa. Il fatto che si possa insegnare a qualcuno il significato dei simboli presuppone che questi abbia padronanza del linguaggio. Ciò, a sua volta, comporta che ogni tentativo di soluzione del problema del significato e della referenza a livello simbolico innesca un circolo vizioso. Un esempio può illustrare quanto detto. Molti anni fa, cercavo di indicare al mio cane il punto verso il quale avevo lanciato un legno, ma invece di guardare verso il punto che gli indicavo, il cane volgeva lo sguardo dalla punta delle mie dita verso la mia spalla.
A questo punto si può dire che ogni spiegazione del significato e della referenza dovrà essere fatta ad un livello non-simbolico. Tuttavia, negli ultimi anni è diventato una specie di moda il passare dal non-simbolico al sub-simbolico. Per cui, è pertinente chiedersi come sia possibile rendere i simboli “denotativi” implementandoli a livello sub-simbolico, per esempio in una rete neurale.
È bene innanzitutto fare un’osservazione preliminare. Il problema della inesplicabilità della rappresentazione ad un livello simbolico può essere affrontato solo se il livello implementazionale non presenta alcuna referenza ad una qualsiasi rappresentazione simbolica; questo è quanto avviene nel caso dei sistemi distribuiti. Le reti con rappresentazioni a livello locale assegnano certe entità dell’oggetto spazio alle singole unità di elaborazione. Di regola le reti accettano le informazioni relative alle unità di ingresso in una forma libera dal contesto, altrettanto accade per le unità di uscita. Le reti comunemente usano rappresentazioni simboliche sia a livello dei loro ingressi che delle loro uscite, il che porta a chiederci: come può una rete evitare di usare l’intervento interpretativo di un osservatore esterno che attribuisce la propria semantica al sistema? In altre parole, si può far rientrare il significato e la referenza fra le intrinseche proprietà del sistema? Alla luce di quanto fin qui detto sembra presentarsi la seguente soluzione: invece di porre, fra i livelli di input ed output, un osservatore al quale spetterebbe l’interpretazione semantica dei processi in atto, si dovrebbe progettare un sistema capace di comunicare direttamente con l’ambiente circostante. Eliminiamo del tutto l’osservatore della rete! Questo tipo di sistema riceverebbe dati fisici dipendenti dal contesto solo ad un più elevato livello di descrizione da sottoporre poi ad interpretazione.
L’intuizione del filosofo, circa il fatto che non saremo mai in una posizione tale da afferrare a pieno il potenziale di significato dei simboli (la nostra capacità di riferirci a qualcosa), ma che anzi dovremo accettare ciò sin dall’inizio come una condizione a priori, potrebbe essere interpretata, da un sistema basato sull’approccio dianzi formulato, nei seguenti termini: la ragione più profonda della nostra incapacità di spiegare a qualcuno come il significato viene in essere deriva dal fatto che tutte le nostre spiegazioni sono intimamente collegate al livello simbolico, tuttavia i nostri stessi simboli sono collegati al mondo delle cose solo ad un livello non-simbolico. “Referenza”, “Denotazione”, “Significato” dovrebbero quindi essere collocati ad un livello inaccessibile ad una analisi in termini di concetti collocati ad un livello superiore del processo cognitivo.
Searle in un recente articolo pubblicato in Scientific American [Searle 1990] ha portato degli argomenti contrari al tentativo di realizzare in un robot un’architettura connessionistica fornita di una conoscenza dell’ambiente circostante. Le obiezioni portate da Searle all’approccio simbolico della IA con il ben noto argomento della “Stanza Cinese”, vengono trasferite ai sistemi di reti neurali. Come tutti sanno, l’argomento della “Stanza Cinese” cerca di indagare sulla possibilità di ascrivere stati intenzionali ad un computer che manipola simboli ponendosi al posto del computer. Al contrario di quanto accade col test di Turing nel quale le capacità mentali della macchina vengono dedotte dal punto di vista di una terza persona, nel test di Searle la persona identifica se stessa con le operazioni svolte da un programma di IA in modo da provare da questo punto di vista che il programma, per mezzo di una mera manipolazione di simboli, non comprende affatto il cinese. Per poter trasferire queste sue obiezioni alle reti neurali, Searle trasferisce il suo Gedankenexperiment dalla “Stanza Cinese” ad una “Palestra Cinese”. In pratica, invece di ricorrere ad un solo agente, egli ci presenta una palestra con molte persone che effettuano le stesse operazioni svolte dai nodi e dalle sinapsi di una rete neurale. Ma anche in questo caso, Searle perviene alle stesse conclusioni tratte dall’argomento della “Stanza Cinese”: nessuno nella palestra capisce il Cinese. Tuttavia, pur trasferito dalla “Stanza Cinese” ad una “Palestra Cinese”, l’esperimento di Searle mostra tutta la sua debolezza gnoseologica.
Si possono avanzare due diversi argomenti:
1) La conoscenza e gli stati intenzionali sono proprietà di quel livello di descrizione nel quale i simboli stanno come segni per la referenza. Pertanto essi non possono, di principio, essere collocati a quel livello esplicativo che è responsabile della costituzione dei simboli. Di conseguenza si incorre in un errore categoriale collocando una conoscenza di soggetti intenzionali a livello di nodi e sinapsi di un’architettura connessionistica. Una conseguenza di tale errore sarebbe la scoperta di uno spirito in una macchina come è stato descritto da Ryle in The Concept of Mind. Se fossimo tentati di introdurre il comportamento intenzionale al livello in cui la intenzionalità deve essere spiegata – come ha fatto Searle nella sua “Stanza Cinese” – saremmo poi costretti a spostare di un livello la spiegazione. Da tutto ciò deriverebbe un regresso all’infinito in cui degli homunculi delegano la spiegazione dell’intenzionalità a quello successivo.
2) Anche Searle ammette che nel caso del robot vi è qualcosa di più della semplice manipolazione di simboli formali tuttavia, al contrario, vi sono anche alcuni tipi di relazioni causali con il mondo esterno. Il suo argomento contrario all’esempio del robot si basa sul fatto che anche con l’aggiunta di specifiche relazioni causali fra il robot ed il mondo esterno (per esempio, applicare una telecamera e far muovere le braccia e le gambe del robot), quest’ultimo non è affatto in uno stato intenzionale, perché, anche così, le informazioni fornite al programma del robot provengono dal mondo esterno e non sono oggetto di diretta conoscenza del programma. Tale argomento è applicabile solo alle architetture connessionistiche che acquisiscono le loro informazioni in una forma simbolica. La critica di Searle alla risposta del robot si fonda solo sulla presunzione della presenza di un osservatore umano tra la rete e l’ambiente circostante. Una tale mediazione può essere omessa se il sistema riceve l’informazione in una forma inaccessibile al ragionamento simbolico.
Bisogna ammettere che tale spiegazione non risponde alla questione principale che ci è dinanzi allorché indaghiamo sulle basi teoriche della semantica. Come ho già avuto modo di dire nel discutere l’aspetto filosofico della questione in esame, quella parte di noi stessi, che non si riesce mai a comprendere in pieno a livello del nostro pensare per simboli, è soggetta ad un continuo cambiamento.
Per quanto è a mia conoscenza, questa caratteristica di essenziale non-chiusura non pare sia la preoccupazione di fondo nell’ambito del paradigma connessionistico. Di solito i connessionisti si occupano di come insegnare ad una rete neurale un certo di tipo di conoscenza mediante un algoritmo di apprendimento. Mediante una funzione di propagazione tra le connessioni del sistema e con l’ausilio di un istruttore esterno si induce il sistema a giungere ad uno stato di configurazioni in cui alle connessioni sono assegnati pesi stabili di modo che si minimizzano le differenze fra il comportamento osservato e quello auspicato. In altre parole, ad un esame finale il sistema si troverà bloccato in un determinato stato e l’apertura ad ulteriori sviluppi non è un problema.
Per esempio, da un veicolo automatico che incorpori un sistema di classificazione per individuare le differenze fra reperti geologici non ci si può aspettare che sviluppi tutto ad un tratto un interesse per la classificazione di differenti gruppi di giocatori di baseball. La mia idea, al contrario, è quella di proporre una forma più radicale di architettura connessionistica: un sistema che sia in grado di essere aperto a qualunque nuova situazione gli si presenti. Un sistema di apprendimento “non sorvegliato” può essere un modo di preparare un sistema ad essere aperto a nuove informazioni provenienti dall’ambiente circostante.
Consideriamo il caso della rete neurale di Gorman e Seynowski costituita da tre livelli comprendenti un livello sensitivo e uno motorio ed una interfaccia con un ambiente reale. Tale rete è progettata per distinguere una roccia da una mina sulla base dell’input che riceve dall’ambiente. Bechtel e Abrahamsen attribuiscono a una tale rete una effettiva capacità di conoscenza dell’ambiente che lo circonda. Infatti essi affermano: “La rete ha imparato su questa base a distinguere fra rocce e mine. Dal momento che gli input della rete consistevano in una codificazione degli echi provenienti da rocce e mine, sembra molto plausibile considerare i suoi output come un qualcosa di relativo alle rocce e alle mine, e considerare le sue unità del livello nascosto capaci di rilevare le caratteristiche delle rocce e delle mine” [Bechtel e Abrahamsen 1991, p.128].
A mio avviso, tutto ciò è fuorviante. Non sembra che per la rete esistano rocce e mine. Al contrario, la rete reagisce solo agli stimoli che riceve. A questo punto direi, invece, che solo quando vi è un livello simbolico il cui fondamento non è rinvenibile dalla rete in se stessa, allora la rete può essere in grado di correlarsi intenzionalmente a qualcosa di diverso da se stessa. A partire da questa considerazione consegue che non è molto utile il tentativo di attribuire una intrinseca capacità di conoscenza alla rete mediante l’esclusione dell’osservatore della rete in modo da eliminare unitamente il livello simbolico.
Ritengo che noi conserviamo il distacco fra il livello simbolico e quello non-simbolico mediante la costruzione di un sistema ibrido nel quale un sistema simbolico è in competizione con un certo tipo di architettura non-simbolica, laddove solo quest’ultima è responsabile dell’interazione del sistema con un ambiente aperto.
Il problema che nasce riguarda il come sia possibile in un’architettura connessionistica acquisire alcuni degli aspetti che caratterizzano la divisione presente nella mente umana – di cui abbiamo innanzi parlato – che ci mette in grado di porci in relazione con un mondo esterno (coscienza). Considerando che non siamo capaci di comprendere le nostre (non concettuali) sensazioni al livello del nostro pensare per simboli, dobbiamo chiederci se sia possibile sostituire queste sensazioni col nostro sentire che vi è sempre un qualcosa che “sta lì fuori”, il che non sarebbe altro che una diversa formulazione del termine “trascendenza” di cui abbiamo parlato nell’ambito dell’aspetto filosofico della questione in esame.
Una possibile risposta a tutto ciò potrebbe venire dalla costruzione di un qualcosa che potremmo definire computer “schizofrenico”: in tal caso il termine “schizofrenia” indicherebbe la divisione fra livello simbolico e livello sub-simbolico. Le sensazioni, per esempio, sono pezzi di informazione acquisiti direttamente a livello sub-simbolico e inaccessibili per una spiegazione a livello simbolico. In un certo senso noi non “comprendiamo” mai le nostre intuizioni, ma le usiamo per reagire all’ambiente che ci circonda. Ciò nonostante, vi è un solo sistema, e le sue due differenti architetture sono responsabili delle diverse capacità del sistema stesso. Il pensare secondo logica, una semantica composta, il trattamento di proposizioni, tutto ciò può essere fatto solo ad un livello simbolico. Il sistema, operando solo a livello di simboli, non può mai comprendere che vi è un qualcosa “al di fuori” non afferrabile mediante i simboli. Solo la sottostante architettura non-simbolica è in grado di compiere questa operazione. Per riuscire a comprendere un mondo esterno non possiamo mettere da parte uno di quei livelli2.
Una pura architettura non-simbolica non può mettersi in relazione con il mondo esterno, come si è visto nel caso del modello di Gorman e Seynowski, perché viene del tutto esclusa la distinzione fra un agente interno e un mondo esterno. Questo punto può essere meglio chiarito dalle seguenti considerazioni. La questione da affrontare riguarda il perché non è controintuitivo ricorrere ad un tale sistema diviso in due per la spiegazione dell’intenzionalità. In modo particolare per una certa tradizione filosofica la capacità di porre noi stessi in una relazione intenzionale con un qualcosa sembra che ci garantisca la capacità di comprendere il mondo come un tutt’uno. Si deve a Kant, per esempio, la interpretazione della nostra capacità di pensare come una garanzia per quella che egli chiama la “sintesi dell’appercezione”. Allora come si può collocare in una sorta di mente divisa in due l’“Io penso” che, secondo Kant, si accompagna a tutte le nostre percezioni? Torna qui utile tener da conto quanto affermato da Wittgenstein. Nel Tractatus Logico-Philosophicus [Wittgenstein 1969a] il filosofo afferma che è possibile conoscere il mondo come un tutto solo ponendosi, in certo senso, al di fuori del mondo. Quanto espresso da Wittgenstein può essere di aiuto per favorire la comprensione della mia interpretazione della mente come una architettura divisa in due. Secondo Wittgenstein, la possibilità di usare un linguaggio che rappresenti i fatti del mondo si fonda sulla sua forma logica.
Quest’ultima può essere mostrata solo nel linguaggio del Tractatus ma non può essere espressa in enunciati che ricevono tutta la forza semantica dalla forma logica. È interessante ora paragonare l’approccio dell’architettura simbolica con ciò che può essere espresso secondo il modo rappresentativo di considerare il linguaggio da parte di Wittgenstein: cioè il regno delle effettive procedure. Ogni cosa che può essere espressa nel linguaggio del Tractatus può essere effettivamente espressa ed ogni cosa che può essere effettivamente espressa può essere oggetto di calcolo da parte di un qualsiasi moderno elaboratore universale. Per questo motivo non vi possono essere sorprese nella logica. Ciò che può essere detto nel Tractatus di Wittgenstein è esso stesso basato su di un dominio non effettivamente computabile.3
Tutto ciò sarebbe, nella mia terminologia, un modo connessionistico di interagire con un ambiente aperto che non può essere considerato per mezzo di una effettiva procedura. Come ben si sa, Wittgenstein in seguito dovette rinunciare a questa netta dicotomia. Il perché di questa sua rinuncia per me è abbastanza ovvio. Infatti egli non poté indicare una effettiva procedura che ci consenta di tracciare una chiara linea di confine tra ciò che può essere detto e ciò che costituisce il nostro linguaggio. Se il significato del significato origina dalla interazione di un sistema con un ambiente, esso non può essere derivato da una descrizione del sistema visto come una entità separata. Proprio a causa dell’apertura dell’ambiente nessun algoritmo sarà in grado di afferrare il significato del significato. Tutto ciò ci riporta alla nostra specifica questione. Se l’esistenza di qualcosa può essere solo spiegata mediante un certo tipo di divisione fra un sistema chiuso di simboli ed una architettura connessionistica interagente con un ambiente aperto e se non è possibile rinvenire una effettiva procedura che decida in anticipo dove noi dobbiamo tracciare il confine tra queste due capacità del sistema, noi non riusciremo a prevedere esattamente, in quale momento e in quali circostanze appare il fenomeno dell’esistenza di qualcosa. Attenendoci al secondo Wittgenstein, solo nel contesto di uno specifico gioco linguistico e considerando la nostra socialmente e culturalmente correlata Lebensformen possiamo parlare di un essere che interagisce intenzionalmente con l’ambiente che lo circonda. Perciò, io neanche credo che sia possibile formulare una netta distinzione tra il cosciente e il non-cosciente, tra il mentale e il materiale. Cercando di tracciare una tale linea di confine ricadremmo nella stessa trappola in cui finirono i tradizionali metafisici, cioè a dire nel tentativo di riuscire a comprendere l’apertura dell’uomo, questa ci sfugge. A mio avviso, non è possibile attestarsi su di una posizione dalla quale si possano formulare aprioristiche ipotesi che ci consentano di decidere se un artefatto possa dar corpo ad aspetti della coscienza oppure se ciò sia impossibile per principio. La sola cosa, invece, che possiamo fare è quella di delineare le condizioni generali in base alle quali poter spiegare tutto ciò.

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