Albert Camus: democrazia come misura originaria

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Tutto quel calore pesava sopra di me e contrastava il mio andare. […] Mi tendevo tutto per vincere il sole e quella ubriachezza opaca che esso riversava su di me. A ogni sciabolata di luce sprizzata dalla sabbia, da una conchiglia candida o da un frammento di vetro, mi si contraevano le mascelle.1

A parlare è il protagonista del romanzo L’étranger, Meursault, personificazione del possibile divorzio tra uomo e mondo – quest’ultimo evocato nei tratti poetici d’una natura rigogliosa e vitale. Incrinato l’equilibrio, Camus perde il controllo del timone destinandoci al naufragio. Quello a cui stiamo per assistere è un gesto assurdo, gratuito; eppure sembra esser stato il sole ad impossessarsi delle dita di Meursault: i quattro colpi di pistola conficcati nel corpo inerte del marocchino, disteso davanti all’antieroe camusiano e quasi fuso alla spiaggia algerina, ci offrono un tragico scenario:

Il grilletto ha ceduto, ho toccato il ventre liscio dell’impugnatura e è là, in quel rumore secco e insieme assordante, che tutto è cominciato. Mi sono scrollato via il sudore ed il sole. Ho capito che avevo distrutto l’equilibrio del giorno, lo straordinario silenzio di una spiaggia dove ero stato felice.2

Albert Camus (1913 – 1960)

Ma che significa? La violenza scaturisce dall’annebbiamento dei nostri sensi? E la colpa sarebbe nostra, incapaci di custodire le premure della natura? Ma se così fosse, perché la violenza è lex universalis del mondo animale? Il pesce grande mangia il pesce piccolo e le gazzelle “sanno” che prima o poi si ritroveranno a pancia aperta. Non è che Camus e gli altri militanti alla ricerca della natura perduta cadono anch’essi in tentazione, come i peggiori mistificatori, nell’idealizzare una natura troppo benigna?

La sua vena poetizzante, in effetti, ci rende sospetti; ma per confutare tali conclusioni è necessario introdurre i due concetti cardine del pensiero camusiano: limite e misura. Quando Camus tratta della misura originaria, garante del connubio tra uomo e natura, della «felice stanchezza di un giorno di nozze con il mondo»3, si riferisce a quel rapporto privilegiato, arricchito e valorizzato dalla ragione umana, dalla capacità dell’uomo di sentir la bellezza, la dolcezza, la straordinarietà dell’esistenza:

Mare, campagna, silenzio, profumi di questa terra, mi riempivo di una vita odorosa e mordevo nel frutto già dorato del mondo, turbato di sentire il suo succo dolce e forte colare lungo le mie labbra. No, non ero io che contavo, né il mondo, ma soltanto l’accordo e il silenzio che fra il mondo e me faceva nascere l’amore.4

Soltanto il bipede implume è in grado d’inebriarsi di questa felicità primigenia, del paradiso che ha in mano – perché in cielo ci sono solo le nuvole.

Per rispettare questa misura, indiscussa fonte di serenità interiore – a detta del pied-noir –, è imprescindibile la coscienza del limite, superato il quale un’azione si trasforma nel suo contrario: l’esempio più significativo – sul quale si concentra L’homme revolté (1951), il “definitivo” e più discusso saggio di Camus, – è quello della rivolta interiore della vita offesa che vorrebbe salvaguardare la dignità umana, che però rischia di tramutarsi – troppo spesso – in quella rivoluzione che fa della violenza contro gli uomini (dei quali avrebbe dovuto al contrario difendere la dignità) il suo laido mezzo. È il comunismo – al quale l’algerino si avvicinò in giovane età per poi tentarne una decostruzione – l’oggetto di scherno di Camus: tra uomo e mondo vige una misura, un equilibrio vitale che dev’essere salvaguardato affinché non produca – una volta distorto e manipolato dall’uomo – effetti catastrofici; ma il comunismo – come ogni altro fittizio mondo ideologico5 (fascismi compresi) – è l’araldo della dismisura: spezza, dimenticandolo, quest’equilibrio originario. La credenza in un assoluto irreale non collima con la nostra situazione concreta, costruita su quella relazione tessuta tra noi ed il mondo; l’imposizione di credenze teleologiche non può che forzare la “natura” umana ad esprimersi in azioni innaturali, contrarie al suo movimento spontaneo.

Dunque, foriero d’una vera alienazione degli uomini è, per Camus, il comunismo stesso. Se il rivoltoso, per affrancare il valore invocato dalla sua intima rivolta – per una totale eguaglianza, per una condivisione pacifica dei beni offerti dal mondo, – è costretto ad uccidere, con quest’atto disintegrerà proprio il valore della solidarietà umana che dava calore alla sua rivolta. Il problema sollevato da Camus è proprio questo – l’uso della violenza in politica: come fare a giustificare i processi di Mosca degli anni ’30, o i gulag sovietici?

Il socialismo reale giustificò i suoi atti di violenza in nome d’un utopico stadio finale della storia nel quale l’uomo sarebbe stato l’essere supremo per l’uomo e la violenza definitivamente bandita, non più necessaria. Lo stato transitorio, sorretto da quella celebre “dittatura del proletariato” – violenta per necessità – vagheggiata da Marx stesso, avrebbe dovuto ristabilire una società giusta e sgombrarla dall’idea stessa di Stato. Ma così non fu: la prassi ha tradito la teoria. Socialismi e fascismi, sistemi totalizzanti, sedicenti custodi di verità oracolari, non rispecchiano la realtà del divenire e la necessità d’una libera espressione delle potenzialità umane.

Per Camus, l’uomo, profondamente attaccato all’esistenza e al suo bene proprio, deve mantenersi nella rivolta costante, contro l’assurdità del dolore fratello, contro il silenzio d’una natura leopardiana che, invero, custodisce nel grembo la nostra possibilità di gioire, l’appartenenza a un suolo materno.

Questa rivolta dà alla vita il suo valore. Diffusa per tutta un’esistenza, quella restituisce a questa la sua grandezza. Per un uomo senza paraocchi, non vi è spettacolo più bello di quello di un’intelligenza alle prese di una realtà che la supera.5

La realtà ci supera, ma noi dobbiamo rimaner vigili: non superare i limiti congeniti delle nostre facoltà cognitive, non trasformare aspettative e speranze in realtà fatiscenti e dottrine inumane. Salvaguardiamo la misura che accompagna l’avventura dell’esistenza – ricordiamoci di noi!

L’oblio della nostra naturalità – viviamo, nella convinzione che tutto sia dovuto, in una realtà stratificata, culturalizzata – conduce a idealizzazioni svincolanti dalla storia concreta, da ogni responsabilità nei confronti della vita e del suo sviluppo. Prerogativa dell’uomo, animale razionale, dovrebbe esser quella del rispetto dell’esistenza, perlomeno iniziando dalla sua (questo “sua” da non interpretarsi troppo egoisticamente, spianando terreni agl’invasati conquistatori di pianeti, unico scopo dei quali parrebbe cullarsi in una disumana onnipotenza). Ed ecco che non facciamo alcuna fatica, oggi, a scorgere nella storia le ricadute pratiche del distacco “spirituale” tra uomo e natura: nella creazione di sistemi immemori della realtà naturale, del bisogno di respiro, dell’impossibilità di razionalizzare ogni cosa attraverso la nostra potentissima, e al tempo stesso così fragile, ragione. Nascono filosofie della storia, teo-teleologie, e poi fascismi, socialismi, quindi guerre sanguinarie, genocidi, torture, bombe capaci di polverizzare città intere, e infine scienze impazzite, iperspecializzate, bramose di metter le mani sull’elisir della vita eterna. Nel XX secolo abbiamo superato il limite oltre al quale i nostri infantili sogni di gloria si sono trasformati in carceri a cielo aperto.

Si potrebbe riassumere il tutto con l’inettitudine umana a utilizzare la ragion critica, dono prezioso della stagione illuministica schiacciato dalle imponenti mitologie ottocentesche (positivismo e idealismo). Si potrebbe, sì, ma non sarebbe esauriente, e nemmeno credibile. L’uomo è stupido, ma non fino a tal punto: se avesse saputo a cosa stava andando incontro avrebbe probabilmente messo freno all’ebbrezza. Ha semplicemente disimparato a stare al mondo (o forse non lo ha mai imparato) vagheggiando un luogo perfetto in cui prosperare, senza più violenza e sofferenza, facendo invece della storia un mattatoio – il più imbarazzante, da che abbiamo memoria. Dovremmo ricordarci sempre che non sono stati i nazisti, o i comunisti, a ferire sì profondamente l’esistenza, ma noi uomini in quanto tali, la nostra cultura, il nostro disimpegno nel mantenere cosciente l’equilibrio che ci permette di respirare.

È per questo che la democrazia – da tempo ormai si può parlare soltanto di democrazia rappresentativa –, nonostante tutte le falde a essa imputabili, rimane e rimarrà l’unica forma di governo auspicabile per una società che abbia anche solo una minima sensibilità eudemonistica e libertaria. L’incanalamento della violenza, limitata il più possibile (nella consapevole impossibilità di eliminarla definitivamente) e quindi lasciata “sfogare” nella costituzionale libertà del dissenso o, più banalmente, nell’agonismo sportivo; la libertà di movimento, pensiero e parola; la legittimità d’una forza all’opposizione – che può e deve sempre ambire alla maggioranza – corrispondente della “negatività naturale”, il residuo irrazionale, casuale e ineludibile della vita; e il sentimento del rispetto per l’altro, per se stessi, per l’ambiente e, quindi, per la misura che calibra il nostro percorso: sono gli unici ingredienti per ritrovare la misura sepolta dall’asfalto, ma che si cela in tutti noi come afflato originario.

Pensare alla democrazia come dimensione originaria dell’esistenza è un’idea sovversiva, quanto di più distante ci sia dalla realtà scorta in natura. Ma ricordiamoci che l’uomo è il custode della ragione in perpetua lotta con caso e fortuna. Sta a lui creare una società, consona al libero sviluppo del suo spirito, che fugga i due estremi, contrassegnati dalla stessa irresponsabilità, della razionalizzazione completa e dell’irrazionalità sprezzante.

Questo è uno di quei moniti, sterili agli occhi dei più, coi quali Camus e gli intellettuali della sua generazione cercarono di riportare a riva una situazione che si era spinta troppo al largo, in mari scogniti e densi d’insidie. La riproposizione di questi pensieri, seppur rielaborata e riadattata all’attualità, potrà apparire nuovamente infeconda, un puro spreco intellettuale. Insomma: per cambiare le cose bisogna agire e non scrivere su quello che si sarebbe dovuto fare o quello che sarebbe bene gli altri facessero. Invero anche leggere queste righe può essere utile. L’importante è mantenere la coscienza critica allenata – soprattutto capire se ne siamo in possesso o se conviene provvedere a maturarla –, e non lasciarsi affascinare troppo facilmente da chi non riflette abbastanza sugli effetti collaterali delle proprie architetture concettuali, sempre tendenti a ridurre i problemi che non ci toccano direttamente a “realtà minori”. Bene e male – direbbe il buon Machiavelli – vanno sempre propinqui: non è facile godere del primo senza intravedere lo spettro del secondo. Per questo, in ogni situazione, urge la prudenza. Non bisogna, ancora una volta, scomodare Socrate per ricordare che ciò che differenzia l’uomo dagli altri animali è la facoltà razionale. È bene che la si usi, rammemorando il passato per edificare il futuro; e un “futuro” esperto sarà di certo meno imbranato nel gestire quegli infiniti desideri che abiteranno l’uomo fino alla fine.

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