«Il Grande Dittatore»

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Un’analisi dell’uomo e della storia a ridosso del secondo conflitto mondiale

Sarà tracciata qui un’analisi figurale, forse, degli uomini e delle loro condizioni in un certo periodo storico, mediante l’allegoria de Il grande dittatore.
Negli anni ’20, l’Europa non era più quella di solo un decennio prima: il primo conflitto mondiale aveva spazzato un mondo per dar posto a un altro. Il senso di smarrimento era palpabile in ogni ambito della vita: i soldati tornati a casa non avevano alcuna prospettiva, degrado e disoccupazione dilagavano, le nazioni vivevano nell’incapacità di governo (Germania in particolare), la crisi economica del ’29 era alle porte. L’intera attività culturale ne dava segnale, in tutte le sue manifestazioni. Per rendere bene l’idea, vale la pena citare questo passo del poeta T. S. Eliot:1

Città irreale,
sotto la nebbia bruna di un’alba invernale
una folla fluiva sul London Bridge, sí gran tratta
di gente ch’io non avrei creduto che morte tanta n’avesse disfatta.
Esalavano sospiri brevi e rari
e ognuno fissava gli occhi davanti ai piedi.
Fluivano su per la salita e giù per King William Street
fin dove Saint Mary Woolnoth batteva le ore
con un suono morto sull’ultimo tocco alle nove.

La cosiddetta “età dell’ansia” trovò il suo apogeo sociale proprio in quella tedesca Repubblica di Weimar, dove avevano ben attecchito i germi del nazionalismo. È qui che dopo alcuni anni di prigione (e di lassez-faire) salirà al potere Adolf Hitler.

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1. Analisi del dittatore
Sono stati messi in luce, innumerevoli volte è dir poco, le varie congruenze tra il fenomeno tutto novecentesco della dittatura e vari personaggi del passato (quali ad esempio Napoleone) o diversi regimi. Qui, invece, non si fa eco a nessuno.
Tra le prime scene in cui viene ripreso Hynkel, vi è la sequenza che dal comizio giunge fino alla sua scrivania: Dittatore viene applaudito quasi a ogni frase (sebbene affermi proposizioni le più contrarie tra loro!) o non riesce neanche a terminarle. Dopo una sfaticante “ora d’odio” di pubblica apparizione, dove manifesta tutta la propria potenza, viene condotto tra le sue carte: le attività del giorno sono strettamente serrate, programmate nei minuti, continui test bellico-scientifici, affari di politica interna ed estera si presentano. L’efficienza muta in gag. Tra questi angusti spazi di vita pubblica, cerca un maldestro tentativo di una privata: fa chiamare la segretaria/amante (non troppo consapevole, non troppo accondiscendente), costretta a congedarsi in pochi secondi con un nulla di fatto.
Hitler! Figlio del Demos, prima ripudiato (arresto del 1925) e poi asceso. Infiamma gli animi, sa come prendere il popolo della Tomania: siamo vittime di un complotto masso-pluto-giudaico, ci devono restituire ciò che ci spetta, la nostra è una razza superiore; ci espanderemo, sconfiggeremo il pericolo del comunismo e governeremo il mondo – scrive nel Mein Kampf. Ottiene da Hindenburg l’incarico di costituire un governo. Iniziano la violenza e le misure restrittive.
«Non è dunque cosí che anche un capo del popolo, il quale, presa in mano una folla del tutto docile al suo comando, non si astiene dal sangue di quelli della sua stessa tribù, anzi, trascinatone qualcuno nei tribunali con le ingiuste accuse che costoro prediligono, lo manda a morte, sopprimendo una vita umana, e assaggiato con la lingua il sangue congenere, esilia e uccide a fa trapelare possibili remissioni dei debiti e spartizioni della terra – dopo tutto questo non è destino necessario per lui venir ucciso dai nemici o diventare tiranno, e trasformarsi da uomo in lupo?».2 Circa duemilacinquecento anni prima, Platone espresse bene la fenomenologia dello stato (tirannico). Il primo passo compiuto sarà proprio quello dell’accrescimento del potere tramite la violenza. Fonderà un regime sul potere e la paura. Di più: queste saranno, grazie alla tecnica e all’asservimento degli individui, il prolungamento della sua stessa persona. Ovunque saranno immessi e ovunque dovranno essere, a manifestare la sua onnipresente figura. «Big Brother is watching you». Il colosso si alimenta della sua stessa figura pubblica.
Il Tyrannos compie una funzione agli antipodi del Demiourgos. Se il secondo ne ha una “poietica”, di costruzione del mondo, il primo ci “gioca”: il mondo è mezzo e luogo dove forzare la sua imago; il fine non è esterno al sé (come in un’azione demiurgica), bensí è la sua persona stessa. Ora, ogni uomo desidera lasciare la propria impronta nella storia. Mi sembra lecito. Platonicamente, è la nostra “passione erotica”. Sempre col filosofo greco, affermo che il Tyrannos sia l’uomo divorato dall’Eros concupiscibile: megalomania. In quanto passione autoerotica, essa sarà la sua stessa rovina – forte del fatto che egli vi è completamente sottomesso (cfr. Rep. IX).
La scena in cui Hynkel gioca col palloncino/mondo riassume bene quanto scritto finora. L’unico suo rifugio dalla vita pubblica è il sogno: passeggia pian piano verso quel globo cosí solo, ne è attratto all’inverosimile, lo anela e lo raggiunge; gli sussurra: — Sei mio, siamo fatti l’uno per l’altro, saremo soli io e te. Lo circonda, accarezza, prende e palleggia, palleggia con ogni vaghezza possibile, in alto sempre più in alto, in innumerevoli pose e direzioni. Il mondo di questo desiderio è tanto leggero! … Splaft! Gli scoppia in mano…
La megalomania, nell’istante stesso del suo culmine, lo avrà condotto alla disfatta. Paura e potere, di cui s’è alimentato il colosso, gli si ritorceranno contro (alla fine).

2. Etica, morale e società totalitaria: analisi e prospettiva (pratiche) di rivalsa
Il regime dunque organizza il proprio potere intorno alla massa, trovando il proprio dominio su essa nella manipolazione delle passioni. In particolare alimentandone la paura, mediante l’utilizzo sistematico della guerra e di strumenti (quali propaganda, tortura, restrizione dei diritti ecc.) finalizzati a instaurare un sistema di crudeltà e cercando di ridescrivere l’io-massa.
Partiamo da questa ridescrizione. Propaganda e controllo culturale ne sono i mezzi principali. Creare il nuovo vocabolario comprensivo di uno Stato implica sostituirne e originarne la memoria: trasformare il popolo in un’unica massa è la base per deciderne le passioni. L’unica credenza importante nel tessuto “legale” del regime sarà la fedeltà alla figura che lo incarna, nonché, quindi, al regime stesso. «L’elemento sconcertante nel successo del totalitarismo è la genuina abnegazione dei suoi seguaci: può essere comprensibile che un nazista o un bolscevico non si senta scosso nella sua convinzione da crimini contro persone che non appartengono al movimento o addirittura gli sono ostili; ma lo stupefacente è che non tentenni quando cominciano a essere colpiti i suoi compagni di fede, e neppure quando è lui stesso a cadere vittima della persecuzione; a essere condannato sulla base di accuse inventate, espulso dal partito e deportato in un campo di concentramento o di lavoro forzato. Anzi, con grande meraviglia dell’intero mondo civile, egli può essere persino disposto ad accusarsi e a collaborare alla sua condanna a morte, purché non sia toccata la sua posizione di militante».3
D’altro canto, la crudeltà si configura come l’applicazione dell’umiliazione del potere su soggetti resi il più possibile inermi e deboli. Viene loro imboccata la credenza che la crudeltà sia fine a se stessa e insensata, quando in realtà, l’abbiamo già detto, serve al mantenimento del potere: l’oppresso si piegherà all’assurdo del sadismo esercitato dai suoi oppressori:

«Tu hai paura» disse O’Brien scrutandolo in viso «che da un momento all’altro qualcosa si possa spezzare, e temi soprattutto che possa essere la spina dorsale. Hai una chiara percezione visiva delle vertebre che si staccano l’una dall’altra, lasciando fuoriuscire il midollo. Stai pensando a questo, Winston, non è vero?»
Winston non rispose. O’Brien alzò di nuovo la leva sul quadrante e l’ondata di dolore si ritirò con la stessa rapidità con cui era venuta.
«Era a quaranta […]. Come puoi vedere, i numeri sul quadrante vanno fino a cento. Ti prego di ricordare, nel corso della nostra conversazione, che ho il potere di infliggerti dolore in ogni momento, e dell’intensità che più mi aggrada. Se mentirai o cercherai di essere evasivo, e perfino se non ti mostrerai all’altezza della tua intelligenza, griderai di dolore, all’istante».4

Orwell ci insegna le precise funzioni di tali strumenti in tutta la loro atrocità. I capitoli finali di 1984 toccano i vertici della crudeltà (quasi) letteraria. La sua scrittura dipinge lucido e vivido il collasso progressivo del protagonista: Winston subirà ogni sorta di violenza fisica e psicologica; quelle stesse violenze diverranno aberranti tormenti.
Tutto ci appare trasparente. Per questo ci terrorizza, e il distacco e la limpidezza della situazione ci fanno paura. Il fatto che quella società post-totalitaria sia possibile, – e per due soli eventi storici (l’invasione tedesca della Russia, “Operazione Barbarossa”, e il mancato sviluppo nelle mani dei nazisti della bomba atomica) sarebbe potuta svilupparsi –, è questo a farci paura. D’altronde, ogni possibilità va tenuta presente poiché non accada in un futuro (prossimo). Quanto scritto finora trova ottima espressione in questo passo di Rorty:

Indurre una persona a negare senza alcun motivo una sua credenza è il primo passo per impedirle di avere un io coerente di credenze e desideri. La si rende irrazionale, in un senso molto preciso: la persona non riesce a dare, di quella credenza, una giustificazione che quadri con le altre sue credenze. Essa diventa irrazionale non nel senso che perde il contatto con la realtà, ma nel senso che non riesce più a razionalizzare, che non riesce più a giustificarsi.
Far rapidamente credere a Winston che due più due fanno cinque e fargli rapidamente desiderare che i topi rosicchino il volto di Julia invece del suo hanno lo stesso scopo: «spezzarlo». Tuttavia quest’ultimo episodio differisce dal primo in quanto rappresenta un disfacimento definitivo, irreversibile. Winston potrebbe riuscire a inserire il pensiero che una volta, in strane circostanze, aveva pensato che due più due fanno cinque in una storia coerente della propria vita e della propria personalità. Su un episodio di irrazionalità è possibile imbastire una storia. Ma sul pensiero che una volta lui desiderò che lo facessero a Julia Winston non può costruire una storia. È per questo che O’Brien tenne i topi per il gran finale, quello in cui Winston doveva vedersi andare a pezzi e contemporaneamente sapere che lui, quei pezzi, non avrebbe mai più potuto raccoglierli.5

Arriviamo al punto: se Orwell, maestro della vita ai tempi del totalitarismo, non ha voluto darci alcuna soluzione, quale atteggiamento dovremmo assumere nei confronti del regime? A quale tipo umano appellarci? Di certo a Winston Smith. E i valori di riferimento? Quale consapevolezza dovrebbe darci la riflessione (filosofica) in questo caso? La mia soluzione la voglio trovare in quest’altro passo:

Le più atroci situazioni della guerra, le peggiori torture non creano uno stato di cose inumani: non ci sono situazioni disumane; è solo per paura, fuga e ricorso ai comportamenti magici che deciderò dell’inumano; ma questa decisione è umana e ne sopporterò tutta la responsabilità. Ma la situazione è mia inoltre, perché è l’immagine della libera scelta di me stesso e tutto ciò che mi presenta è mio in quanto che mi rappresenta e mi simbolizza. Non sono forse io che decido del coefficiente di avversità delle cose, e persino delle loro imprevedibilità, decidendo di me stesso? Cosí, non ci sono accidenti in una vita; un avvenimento sociale che scoppia improvvisamente e mi trascina non viene dall’esterno; se sono mobilitato in guerra, questa guerra è la mia, essa è la mia immagine e la merito. La merito dapprima perché potevo sempre sottrarmici con il suicidio e la diserzione: queste possibilità estreme devono esserci presenti allorché si tratta di considerare una situazione. Non essendomi sottratto, l’ho scelta: questo può essere per debolezza, vigliaccheria di fronte all’opinione pubblica, perché preferisco dei valori a quello del rifiuto di fare la guerra (la stima dei miei vicini, l’onore della famiglia ecc.). In ogni modo si tratta di una scelta.6

Parole molto chiare, lapidarie e con una eco lontana – quella del detto di Anassimandro7 – in cui la colpa umana (l’esistenza, da cui poi il Dasein o, nel caso di Sartre, L’être-là) precede ogni distinzione a posteriori tra bene e male, ogni moralità. Essa affonda nell’originario e di ogni forma morale è fondante: dal momento in cui siamo al mondo e nel mondo, non possiamo chiamarci esenti dalle situazioni in cui viviamo.

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3. L’uomo comune e la sua ribalta
A far da contraltare ad Adenoid Hynkel sarà il Barbiere Ebreo. Il tema del doppio sviluppa la sua dialettica tra Grande Dittatore e Uomo comune. Di questi temi, però, parlerò più avanti. Ciò che ora preme puntualizzare è la figura de “l’uomo comune e la sua ribalta”. Infatti il conformismo, nel suo fine spersonalizzante, attuato nella società dittatoriale di massa, non crea le condizioni affinché vi sia “l’uomo comune”. Cosa intendiamo con “uomo comune”? Come se non esistessero solo uomini nella loro individuale diversità! No (non sempre perlomeno). Abbiamo visto come il regime tenda ad annullare la soggettività instaurando il proprio conformismo di massa. Mi rifaccio, piuttosto, all’accezione letterale (accolta dalla maggior parte degli individui di una data comunità di matrice culturale europea) secondo la quale ci si richiama a un uomo che, nella sua consapevole dignità di persona, esercita le sue scelte senza continue coercizioni impostegli e sotto la guida di un certo raziocinio, seguendo il codice di leggi e norme (giuridiche, etiche, morali) che più sia confacente al suo progetto. Esattamente l’opposto di quanto delineato prima (al par. 2). Nella sua interpretazione, Chaplin ritrae proprio questo tipo umano. Il motivo? Si tratta di un semplice barbiere ebreo. Appuntiamo subito delle riflessioni.
Circa l’attributo “ebreo” non credo ci sia molto da spiegare: rimandiamo al contesto storico in cui è stato diretto il film (1940). Concentriamoci invece su un altro punto, ricollegandoci alle tesi precedenti. Il protagonista è un reduce della Prima Guerra, nella quale a causa di un incidente si ritrova in coma, svegliandosi poi in pieno regime. Sconosce la genealogia di quel potere; non ne sa nulla. Quasi vent’anni di sonno. Ecco la situazione subito dopo l’allontanamento dall’ospedale: torna ignaro nel ghetto, dritto alla sua bottega; attonito osserva i militari imbrattare la vetrina del suo esercizio commerciale — “jew”, lo marchiano. Noi, invece, assistiamo alla sua reazione e all’antitetica sottomissione degli altri abitanti del ghetto. Caso emblematico. Grazie a questo espediente narrativo Chaplin riesce a mantenere intatto dal conformismo-di-regime l’uomo comune che è dietro il protagonista. Non solo, gli fa anche svolgere una professione molto umile e comune: quella del barbiere. A corroborare tale concetto vi è l’assenza di un nome (tutti lo conoscono come barbiere e tutti lo cercano in quanto tale). Una persona in fondo anonima: comune, appunto.
È qui doveroso un parallelismo: Winston Smith, protagonista di 1984, è anch’egli totalmente anonimo, un uomo nella massa come molti; l’autore scelse questo nome perché cosí si chiamava l’allora primo ministro inglese durante la Seconda Guerra (Winston Churchill) e poiché “Smith” è il cognome più diffuso nel Regno Unito. Il Barbiere e Winston si opporranno al sistema oppressivo (pur con epiloghi differenti), rivendicando il proprio ruolo di uomini e tentando – nel contempo – di conservare lo stesso barlume d’umanità. Proprio Orwell, infatti, avrebbe voluto intitolare il proprio romanzo L’ultimo uomo in Europa. In entrambi si sintetizza al meglio quest’aspirazione all’amore per la donna: le scene dove il sentimento tocca il vertice si dimostrano particolarmente cruciali. Se l’amore carnale tra Winston e Julia rappresenta la trasgressione della distopia, su cui incombe costantemente la presenza della “morte dell’io” (lo psicoreato e la conseguente tortura, finalizzata alla irrazionalizzazione della coscienza), quello (elevato) tra il Barbiere e Hannah simboleggia la speranza della “fine”: dai piccoli incontri di divertente tenerezza nella bottega, fino alla complicità nella resistenza al potere e al monologo finale. Vale davvero la pena riportarlo per intero:

Mi dispiace, ma io non voglio fare l’Imperatore, non è il mio mestiere. Non voglio governare, né conquistare nessuno. Vorrei aiutare tutti se possibile: ebrei, ariani, neri o bianchi.
Noi tutti vogliamo aiutarci vicendevolmente. Gli esseri umani sono fatti così. Vogliamo vivere della reciproca felicità, ma non della reciproca infelicità. Non vogliamo odiarci e disprezzarci l’un l’altro. In questo mondo c’è posto per tutti, la natura è ricca ed è sufficiente per tutti noi. La vita può essere felice e magnifica, ma noi l’abbiamo dimenticato. L’avidità ha avvelenato i nostri cuori, ha chiuso il mondo dietro una barricata di odio, ci ha fatto marciare, col passo dell’oca, verso l’infelicità e lo spargimento di sangue.
Abbiamo aumentato la velocità, ma ci siamo chiusi in noi stessi. Le macchine che danno l’abbondanza ci hanno dato povertà, la scienza ci ha trasformato in cinici, l’abilità ci ha resi duri e spietati. Pensiamo troppo e sentiamo troppo poco. Più che di macchine abbiamo bisogno di umanità. Più che d’intelligenza abbiamo bisogno di dolcezza e di bontà. Senza queste doti la vita sarà violenta e tutto andrà perduto.
L’aviazione e la radio hanno ravvicinato le genti: la natura stessa di queste invenzioni reclama la bontà dell’uomo, reclama la fratellanza universale, l’unione dell’umanità. La mia voce raggiunge milioni di persone in ogni parte del mondo, milioni di uomini, donne e bambini disperati, vittime di un sistema che costringe l’uomo a torturare e imprigionare gente innocente.
A quanti possono udirmi io dico: non disperate. L’infelicità che ci ha colpito non è che un effetto dell’ingordigia umana: l’amarezza di coloro che temono le vie del progresso umano. L’odio degli uomini passerà, i dittatori moriranno e il potere che hanno strappato al mondo ritornerà al popolo. Qualunque mezzo usino, la libertà non può essere soppressa.
Soldati! Non consegnatevi a questi bruti che vi disprezzano, che vi riducono in schiavitù, che irreggimentano la vostra vita, vi dicono quello che dovete fare, quello che dovete pensare e sentire!
Non vi consegnate a questa gente senz’anima, uomini-macchina, con una macchina al posto del cervello e una macchina al posto del cuore!
Voi non siete delle macchine! Siete degli uomini! Con in cuore l’amore per l’umanità! Non odiate! Sono quelli che non hanno l’amore per gli altri che lo fanno.
Soldati! Non combattete per la schiavitù! Battetevi per la libertà! Nel diciassettesimo capitolo di san Luca sta scritto che il regno di Dio è nel cuore degli uomini. Non di un solo uomo, non di un gruppo di uomini, ma di tutti voi.
Voi, il popolo, avete il potere di creare le macchine, di creare la felicità, voi avete la forza di fare che la vita sia una splendida avventura. Quindi in nome della democrazia, usiamo questa forza, uniamoci tutti e combattiamo per un mondo nuovo che sia migliore, che dia agli uomini la possibilità di lavorare, ai giovani un futuro, ai vecchi la sicurezza.
Promettendo queste cose i bruti sono saliti al potere. Mentivano: non hanno mantenuto quella promessa e mai lo faranno. I dittatori forse sono liberi perché rendono schiavo il popolo, allora combattiamo per quelle promesse, combattiamo per liberare il mondo eliminando confini e barriere, l’avidità, l’odio e l’intolleranza, combattiamo per un mondo ragionevole, un mondo in cui la scienza e il progresso diano a tutti gli uomini il benessere.
Soldati uniamoci in nome della democrazia!

Hannah, puoi sentirmi? Dovunque tu sia abbi fiducia, guarda il cielo.
Hannah! le nuvole si disperdono, comincia a splendere il sole. Poi usciremo dall’oscurità verso la luce, vivremo in un mondo nuovo, in cui gli uomini si solleveranno al di sopra della loro avidità, del loro odio e della loro brutalità.
Guarda il cielo, Hannah! L’animo umano troverà le sue ali e finalmente comincerà a volare sull’arcobaleno.
Guarda il cielo, Hannah! Guarda il cielo!8

A questo punto, dopo essere fuggito da un campo di concentramento con l’ufficiale traditore Schultz (che già aveva conosciuto come commilitone durante la Prima Guerra), viene scambiato dalle truppe, grazie anche al suo amico di fuga, per il dittatore Hynkel; esse, allora, lo portano a tenere quello che sarebbe dovuto essere il primo discorso all’Ostria conquistata. Da tali parole traspare la parabola della liberazione dal domino dell’uomo sull’uomo, servitosi della tecnica per reprimere i suoi simili e alienarli; un appello alla catena umana dell’amore per l’altro (snodo di riferimento fondamentale per Hannah) e la natura come unici vincoli per un’esistenza più giusta e dignitosa; e il riferimento alla fine del militarismo, poiché ormai non ci saranno terre per cui concorrere alla conquista ma un unico confine di fratellanza intrascendibile tra umanità-unita e Natura.
L’uomo emancipato dall’utilizzo-subordinazione dalle macchine vivrà, dunque, in pieno il senso profondo del suo essere, inteso come ritorno all’armonia progettuale responsabile con la situazione in cui vive: «Una guerra atomica totale sarebbe di fatto l’apocalisse d’un sol colpo, ma benché possa verificarsi da un momento all’altro e l’incubo di questa possibilità possa oscurare tutti i nostri giorni futuri, non bisogna necessariamente che si verifichi, perché qui esiste ancora la distanza salvifica tra potenzialità e attualità; tra possesso di un solo strumento e il suo uso, e questo ci fa sperare che se ne eviterà l’uso (cosa che costituisce di fatto lo scopo paradossale del suo possesso). Ma esistono innumerevoli altre cose assolutamente non violente, che racchiudono in sé una propria minaccia di apocalisse e che dobbiamo fare ora e in avvenire per tenerci a galla. Mentre Caino, il fratello cattivo – la bomba –, giace in catene nella sua caverna, Abele, il fratello buono – il pacifico reattore –, continua tranquillamente a scaricare il suo veleno per i secoli avvenire».9
L’epilogo del film sancisce il problema sostanziale di questa condizione futuribile: il cambiamento. Le persone, l’umanità intera dovrà cambiare atteggiamento. «La nostra funzione non è quella di scoprire il mondo reale, ma di immaginare quello possibile».10
La sostituzione di Hynkel col Barbiere è significativa: due uomini identici nell’aspetto, eppure diversi nell’animo. Uno l’agitatore di popoli, statista assoluto; l’altro il semplice uomo comune… Per far sì che il cambiamento sia possibile bisogna che si origini un “uomo nuovo”? La dialettica del doppio ci lascia con questa costruttiva irrisoluzione finale; dovremmo provare a prenderla come pura domanda retorica. L’uomo nuovo non dovrà essere né leggenda, né santo, né martire. Leggende, santi e martiri appaiono una volta tanto a darci nuovo respiro — qui, oggi, c’è bisogno di un’umanità responsabile, consapevole di non potersi mai più tirare indietro di fronte alle proprie scelte (poiché la natura che vive è il prodotto di queste) e che adempia quindi in pieno al proprio compito di libertà. «Sventurata la terra che ha bisogno di eroi».11

4. Prospettive artistiche
Si può ben affermare che l’ironia sia la tempra principale del film. Anzi, il metodo ironico vige. Esso permette la resa di ciò che viene trattato di seguito. Chaplin riesce a instaurare un sistema ironico per muovere una stretta critica sociale: il film si apre con sequenze di azioni militari durante la Prima Guerra e si conclude con un monologo di conquista. Entrambe le scene esprimono carattere fortemente antimilitarista, quale si potrebbe trovare (con differenti accezioni ironiche) in un’altra pellicola ambientata durante la Prima Guerra Mondiale: Orizzonti di gloria.12
I militari sembrano incapaci, delle vere e proprie macchine esecutrici, i cui compiti, a causa della spersonalizzazione e repressione del sentire, essi realizzano in modo alquanto maldestro. Appare chiaro il rimando all’uomo-Charlot antiquato di Tempi moderni.13 Ritorna il leitmotif: un uomo fatto macchina non potrà più appellarsi tale. Se, da un lato, la società capitalistica vuole costringere l’uomo all’asservimento della tecnica, ne Il grande dittatore affiora l’altro tipo di brutalizzazione: l’uomo-bestia che il regime vessa giornalmente nel ghetto. Qualsiasi repressione del sentire si manifesta come una deumanizzazione; andremo verso nuove forme di umanità? Se questo (cioè la perdita di libertà-sentire-scelta-responsabilità) sarà il prezzo da pagare, meglio di no. Non solo: verrebbe meno l’arte tutta, in quanto espressione più intima dell’uomo, che si alimenta dalla sua inquietudine, dunque dalla dimensione stessa del sentire. «Il volere misurare il tutto con la scarsa misura nostra ci fa incorrere in strane opinioni, e l’odio che aviamo con la morte ci fa odiare la nostra fragilità: ma non so dall’altro conto se per farci immutabili, quanto ci fosse caro l’incontrare una testa di Medusa, che ci convertisse in un marmo o diamante. E chi non vede che quello che noi meritatamente stimiamo, che è il nostro intendere e sentire, non si può fare senza le alterazioni?».14
È il caso di sottolineare pure l’eredità del cinema muto in tal senso. Grazie a decenni di esperienza nel “vecchio cinematografo” (Il grande dittatore fu infatti la sua prima pellicola col sonoro), la mimica intera di Chaplin riesce a veicolare significati emozionali, che in condizioni ormai per noi normali non sarebbero stati possibili. Egli adattò il suo vecchio vocabolario artistico a quello nuovo già da tempo passato in ribalta, riuscendo a padroneggiarli entrambi. Oggi, credo solo The Artist (2011) sia riuscito in un’impresa estetica analoga (ancor più ardua, perché intrapresa nel tridimensionale ventunesimo secolo).
Ulteriore pilastro determinante del sistema-ironia è la dialettica. Da sempre queste sono andate d’accordo, basti pensare agli attenti studi di Jean Mesnard su Pascal e a molti altri filosofi (come Hegel, Nietzsche, Heidegger, Derrida ecc.) che – pur con diverse connotazioni – Richard Rorty15 ha ricondotto a questo filone. Essa qui risale a due coppie: Hynkel e il Barbiere (tema del doppio, dialettica Dittatore-Uomo comune) e parodia-verità (storica). Qui il regista esprime tutto l’intento parodistico; ecco gli esempi più significativi relativi ai nomi di alcuni personaggi: Adenoyd Hynkel (dittatore di Tomania) – Adolf Hitler (dittatore di Germania); Bonito Napoloni (duce di Batalia) – Benito Mussolini (duce d’Italia); Garbitsch – J. Goebbels (Ministro per la Propaganda del Reich); Herring – H. Göring (Feldmaresciallo, braccio destro di Hitler insieme al già menzionato Goebbels).16 Mi sento di aggiungere un’ultima coppia, cui certo Chaplin non poteva aver affatto pensato: “memoria” – futuro anteriore… Napoloni non raffigura certo Mussolini. C’è magari un richiamo (fonico) a Napoleone; vorrei andare oltre, in un futuro anteriore. Si tratta nientemeno che di Berlusconi. I gesti sono i medesimi: sonore pacche sulle spalle, goliardia oltre misura, far finta di dare la mano durante il saluto, licenza di scherzetti vari per pretesa superiorità ecc. (per i riscontri si vedano le scene sugli incontri di trattative fra Hynkel e Napoloni, e le “uscite” pubbliche di Berlusconi). Vedremo cos’altro ci riserverà il futuro, ma spero non venga soddisfatta la mia curiosità.

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