Filosofia, politica, estetica nella “Nuvola in calzoni” di Majakovskij

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La nuvola in calzoni è ritenuta la poesia più rappresentativa del periodo pre-rivoluzionario della biografia intellettuale di Vladimir Majakovskij; la ricchezza dei suoi contenuti (legata alla sua lunghezza), la rende il vero e proprio manifesto poetico di detto periodo.
Per la traduzione italiana del tetrattico, ho tenuto conto di due edizioni: V. Majakovskij, Opere scelte. Poesie, poemi, teatro, Feltrinelli, Milano 1967 (tr. di Angelo Maria Ripellino); V. Majakovskij, La nuvola in calzoni, Marsilio, Venezia 1989, curata da Remo Faccani, ove si trova pure un lungo commento completo e minuzioso). I versi che citerò sono tratti dalla traduzione di Angelo Maria Ripellino, perché nonostante la traduzione di Faccani sia molto valida, quella di Ripellino risulta più scorrevole e accessibile.
Majakovskij è bolscevico sin dal 1908. Nel 1912 è firmatario di un manifesto poetico dal titolo Schiaffo al gusto corrente: il gruppo autore del manifesto nel 1913 definirà se stesso come cubo-futurista. Il poeta russo è dunque già di estrema sinistra ed è un futurista; vedremo tuttavia come sia stato influenzato solo parzialmente da Marx (che certamente ha letto).
Mi pare che Luigi Margarotto, in un articolo intitolato Nietzsche e la poesia di Majakovskij (contenuto in Europa Orientalis 14-1, 1995, pp. 134-145, di Luigi Magarotto), abbia colto nel segno nell’aver scorto delle influenze nietzscheane di un certo tipo, all’interno degli scritti del poeta russo. Tali influssi sarebbero legati ad idee nietzscheane sociali e umaniste, che sarebbero in particolare contenute in Così parlò Zarathustra.
Il Nietzsche di Gilles Deleuze, del resto, avvalorerebbe la plausibilità di un’interpretazione non nichilistica del pensiero nietzscheano (perlomeno, di parte di esso); e mi pare che Majakovskij abbia elaborato una concezione filosofica simile a quella deleuziana.
Sebbene Margarotto non abbia prove circa la conoscenza, da parte del poeta russo, dello Zarathustra, tuttavia ne è convinto; anche se non concordo con lui nel ritenere che Nietzsche avrebbe anche influenzato (anche se in modo meno esplicito) le poesie majakovskijane del periodo post-rivoluzionario.
majakovskij-011Entrando nel merito, le prime parole del tetrattico sono rivolte a un certo tipo di lettore egoista, il cui “pensiero” è “sognante” (pensa cioè, auto-ingannandosi, di essere disinteressatamente morale – il che non è dunque che un sognare, tale pensiero non corrispondendo ai suoi reali, effettivi, egoistici intenti). Ad avere simili pensieri, non è che un “cervello rammollito”, fiacco, privo di vigore – come diremo – spirituale, e non fisico. Tale tipo di lettore è paragonato ad “un lacchè rimpinguato su un unto sofà”: un vizioso servo dei propri bisogni, che ha abbondantemente soddisfatto la più solipsistica delle esigenze, e che ora poltrisce (inattivo, poco vitale) su un sudicio (a sottolineare il carattere sporco, perverso, della schiavitù del bisogno; una concezione pansessualistica rende quest’ultimo qualcosa di ripugnante) divano (il mangiare non diviene un vizio se si hanno interessi prioritari rispetto ad esso, i quali, emergendo, ci fanno distogliere l’attenzione dal cibo e, soddisfacendoli, ci fanno dimenticare dell’appetito). Majakovskij lo vuole ‘schernire’, “a sazietà” (essendo, inoltre, “mordace e impudente”, ovvero aggressivo e spudorato – esplicitamente sensuale). Schernire è deridere in modo sprezzante, con l’intento di svilire: è voler far prendere atto – alla persona irrisa – del proprio scarso valore. È infliggere una ferita morale (in senso fisico, l’intento di ferire può essere quello di provocare la morte dell’offeso), affinché, colui che viene offeso, si allontani da noi, scompaia dalla nostra vista, smettendo di seccarci con la sua – volutamente – irritante presenza e azione. Lo scopo dell’offesa è la sazietà, l’acquietamento, il raggiungimento di una condizione di imperturbabilità. Ciò da un lato. Dall’altro il poeta vuole ‘stuzzicare’ il lettore. Lo stuzzicare, nel suo senso letterale, è un materiale punzecchiare (il poeta, come vedremo, utilizza vocaboli indicanti un’azione, rinvianti alle attività più duramente concrete). In senso figurato è un molestare (una molestia può essere sia fisica che morale – nel poemetto è di quest’ultimo tipo), anche nel senso di un’infastidire teso a provocare una reazione; si stuzzica qualcuno per richiamarne l’attenzione, spingendolo ad entrare in contatto – ostilmente – con noi (come diremo, per il piacere della rinuncia, della passività — ciò è amore).
“Non c’è nel mio animo un solo capello canuto, / e nemmeno senile tenerezza!”; la ‘tenerezza’ (sia morale, che concernente il gusto estetico) è in realtà espressione di ‘senile’ stanchezza, mentre il poeta è giovanilmente ancora nel pieno delle sue forze. Cammina “bello” (affascinante), “ventiduenne” (il camminare può forse venire associato ad una danza), “Intronando l’universo con la possanza della [sua] voce” (intronare: anche stavolta il verbo utilizzato indica un’azione molto materiale. Si può provare piacere nell’udire dei rumori, o quantomeno nel sentire ciò che è più un rumore che un suono, come ad esempio un distorto riff di chitarra elettrica, oppure il suono di una batteria). Se i “Teneri” associano “l’amore” al suono dolce e leggero dei “violini” (addolciscono, mitigano l’amore – però impoverendolo, rendendolo astratto, aereo), il “rozzo” associa l’amore ai “timballi” (che sono simili ai timpani).
Majakovskij dice di “essere labbra soltanto da capo a piedi”: le ‘labbra’, con cui si bacia, in quanto carnose, rinviano ad una concezione terrena (e dunque sessuale) dell’amore. Ma esse indicano anche, per sineddoche, la bocca, quale veicolo del parlare: l’azione di Majakovskij, in quanto poetica, è legata al parlare. Nella poesia si fa anche riferimento a degli spettacoli d’avanguardia svolti da Majakovskij, in cui, oltre che con la parola, ci si esprime anche attraverso la mimica, la gestualità.
Verso la fine del prologo, Majakovskij afferma: “se volete, / sarò tenero in modo inappuntabile, / non uomo, ma nuvola in calzoni!” (ora si sta rivolgendo ad una donna); sarà incriticabile, per l’assenza di sfacciataggine (che è turbante spudoratezza e infastidente insolenza assieme), e dunque innocuo. Non un uomo (del tutto fatto di carne), ma un essere non-terreno, aereo.
La prima parte del poemetto, si apre con queste parole: “Voi pensate che sia il delirio della malaria?” (forse, si sta ancora rivolgendo all’interlocutrice precedente; molto più avanti il poeta dirà di sé stesso, di avere il “cuore d’un pazzo”). Ciò che la gente comune reputa sia la normalità (sia del buonsenso), per Majakovskij va completamente rovesciato.
Nel momento iniziale della suddetta parte del tetrattico, Majakovskij interloquisce con una donna chiamata Maria. Ma prima, rivolgendosi al lettore, afferma quanto segue: “In realtà non importa / che tu sia di bronzo / e il cuore una fredda piastra di ferro. / La notte si ha desiderio di nascondere / il proprio suono in un morbido / corpo di donna”. Le persone aggressive ma fredde vengono associate a dei duri metalli. Si fa poi riferimento al loro ‘suono’, simboleggiante aggressività verbale (vedrempo come Maria mostri tale tipo di causticità). A proposito della donna suddetta, Majakovskij afferma: “Di dove un grande amore in un tal corpo? / Probabilmente un piccolo, / un mansueto amoruccio, / che si scansa se un’auto strombetta / ed ama i campanellini dei cavalli”. Un corpo minuto non può certo suscitare il vero amore (ma Majakovskij – con quanto affermato – sembra voler alludere ad una minutezza spirituale, piuttosto che fisica). Chi presenta un tale carattere predilige un amore docile, ha timore della più autentica, violenta, temibile, passione.
Maria tenta di ferire il poeta: “Sei entrata tu / tagliente come un ‘eccomi!’, / […] / hai detto: / ‘Sapete, / io prendo marito’ ”. Nella strofa seguente si legge: “Ebbene, sposatevi. / Che importa. / Mi farò coraggio. / Vedete, sono così tranquillo! / Come il polso d’un defunto” (Majakovskij sa di non aver perduto molto). La donna è attaccata al “denaro” – caratteristica, secondo il poeta, delle persone egoiste e timorose. “Volete stuzzicarmi? / ‘Meno delle copeche d’un pitocco / sono gli smeraldi delle vostre follie’ ” – asserisce Maria. Il modo d’essere antiborghese del poeta (totalmente contrapposto al modo d’essere della donna in questione), simboleggiato dallo smeraldo (pietra dal verde denso e lucente), viene sminuito da Maria, viene considerato qualcosa di folle, di dissennato, di – per nulla – vantaggioso (valendo meno dei soldi posseduti da un mendicante). Il poeta, poco prima, a proposito della ragazza desiderata, aveva affermato tali parole: “vidi in voi una Gioconda” (una bellezza dal volto freddo e poco espressivo), “che bisognava rubare!” (impossessarsene, per consumarla egoisticamente). “E vi hanno rubata” (forse – tra le righe – con ‘rubata’ si vuole ora intendere ‘comprata’).
Con queste parole si apre la seconda parte del primo quarto del poemetto: agli autori “di sacrilegi, / di delitti, / di massacri”, rivolge queste parole: “avete visto mai / ciò che è più terribile: / il viso mio / quando / io / sono assolutamente tranquillo?”. Come diremo, l’egoista è sempre un pauroso. Il timoroso può assumere un atteggiamento intimidente – trasmettendo il senso di essere pronto, per così dire, a scattare – in modo tale da dissuadere chi gli è di fronte a colpirlo. Quando, tale tipo di persona, vede qualcuno che non ne è scosso, che rimane sereno, si intimorisce.
Seguono le seguenti parole: “E sento / che l’ ‘io’ / per me è poco. / Qualcuno da me si sprigiona ostinato”. Il rapporto che il poeta intrattiene con il mondo e con se stesso, non è di passività. La realtà esterna in genere, non gli è ostile. La realtà esterna è il proprio ‘io’ (che la pervade).
Rivolgendosi poi alla madre, afferma: “Vostro figlio è magnificamente malato!” (ciò che la mentalità comune reputa malattia, è la più alta bellezza). Il poeta, “Ha l’incendio del cuore”, e “non sa più dove salvarsi”. Qui si allude alla sensualità del suo poetico parlare: “Ogni parola, / […] / ch’egli vomita dalla bocca scottante / si butta come nuda prostituta / da una casa pubblica che arde”. Seguono subito tali parole: “Gli uomini annusano: / odor di bruciato!”; la passione, viene vissuta dall’uomo comune come un ardere, come un inferno, poiché la passionalità si contrappone al suo egoismo, e la persona passionale può aggredirlo moralmente. “In modo non diverso la paura / sollevò, / ansiose di aggrapparsi al cielo, / le braccia fiammeggianti del ‘Lusitania’ ”. Il ‘Lusitania’ fu un piroscafo inglese colpito da un sottomarino tedesco. In modo analogo, l’uomo comune, trova rifugio presso ciò che ha scarsa concretezza, che tende ad essere aeriforme. Le fiamme del piroscafo sembrano braccia che tentano di aggrapparsi al cielo per porsi in salvo (ma – forse – anche l’inclinazione dell’imbarcazione aiuta a trasmettere tale idea). Quest’immagine è forse – all’interno del poema – la più rappresentativa della poetica majakovskijana. È fotografato l’attimo in cui un piroscafo imponente, fatto di duro metallo, infuocato, nell’inclinarsi smuove violentemente le acque che lo sostengono. È un attimo “bengalico, / squillante” (luminosamente infuocato, e dal suono acuto e penetrante) – come viene detto nella terza parte del tetrattico – di una assai dinamica sequenza.
Il poeta sembra quasi suggerire che il prodotto artistico, per quanto ricco e complesso, non sarà mai pari alla ricchezza offerta dalla natura. Il godimento dell’arte, inoltre, non solo è un diletto per lo più solitario, ma può surrogare il relazionarsi con l’esterno. L’arte dovrebbe invece stimolare a compiere più appaganti attività, come, ad esempio, passeggiare in un bosco, o fare conversazione.
La seconda parte del tetrattico si apre con queste parole: “Glorificatemi! / Non sono pari ai grandi. / Su tutto ciò che fu creato / pongo il mio ‘nihil’ ”. Il poeta chiede di essere onorato – altamente stimato – per il suo essere superiore a chi, la gente comune, reputa ‘grande’ (e che, invece, è basso, vile). Majakovskij, non considera il suo umanismo come un retto egoismo, ma come qualcosa di disinteressato. Il poeta vuole poi negare la creazione divina, in quanto del tutto ostile all’uomo (la natura è privazione): “Noi torniamo a innalzare con superbia / torri babilonesi di città”; vuole sostituirsi a Dio (innalzandosi fino a lui), rimpiazzarlo, essendo giunto il tempo (grazie all’avanzamento tecnologico) dell’umanizzazione dell’intero creato.
Da segnalare le parole ironiche con cui il poeta descrive il sentimento compassionevole dei “poeti, / inzuppati nel pianto e nel singhiozzo”, e il loro esangue gusto estetico (a simili poeti piace contemplare “il fiorellino sotto la rugiada”).
Dal poeta russo “sono esaltati” (lo si legge nel prologo), “studenti” (i quali, non sono ancora subentrati nell’indipendente vita adulta o della maturità, con le sue durezze), “prostitute”, “galeotti”, “bighelloni” (a questi ultimi si fa riferimento nella terza parte del poemetto, assieme agli “affamati” e agli “umili” – nel senso, oltreché di indigenti, anche di persone semplici, senza vanità, né attaccamento al denaro). Se la prende con coloro che vogliono “rendere triviale”, volgare, una tale umanità (nella terza parte). Majakovskij esalta degli outsider. Alle suddette persone rivolge le seguenti parole: “Voi non siete accattoni, / voi non osate chieder l’elemosina!” (li invita ad essere dignitosi). Li incita alla rivoluzione (e non alla supplica): “Muscoli e nervi sono più sicuri di tutte le preghiere. / Dovremmo impetrare le grazie dal tempo? / Ciascuno / di noi / tiene nelle sue cinque dita / le cinghie motrici dei mondi!”.
Tale incitamento (assieme ad altri), è preceduto da tale richiamo all’attenzione (il poeta si paragona a Zarathustra): “Ascoltate! / Predica, / dimenandosi e gemendo, / l’odierno Zarathustra dalle labbra urlanti!”; la predicazione è quasi un gemito di piacere, il profeta si dimena – quasi danzando – mentre le sue ‘labbra’ urlano, rumoreggiano, tuonano.
Con le parole seguenti si fa riferimento agli spettacoli d’avanguardia che ebbero Majakovskij come protagonista: “Ciò mi fece salire sui Golgota degli auditorî / di Pietrogrado, di Mosca, di Odessa, di Kiev, / e non vi fu uno solo / il quale / non gridasse: / ‘Crocifiggi, / crocifiggilo!’ ”. Il poeta si paragona ora a Cristo – essendo fautore di un cristianesimo selvatico, ateo, dissacratore e blasfemo (che potrebbe venire anche menzionato come un umanismo barbarico). Poi, subito prosegue dicendo: “Ma a me / voi uomini, / compresi quelli che mi hanno insultato, / siete più cari e più prossimi d’ogni altra cosa” (dirò come la persona forte e passionale ami l’umanità). “Avete visto / come il cane lecchi la mano che lo batte?!”
majakovskij_poeta_della_rivoluzione_-incontro_letterario_a_-catania“Io ho incendiato le anime, dove si coltivava la tenerezza. / Questo è più difficile che prendere / migliaia di migliaia di Bastiglie!”: questi versi sono indicativi del fatto che le azioni di Majakovskij sono finalizzate a rivoluzionare le menti e il comportamento della gente comune.
Alla conclusione della seconda parte, il poeta dice di voler ‘strappare’ “l’anima” della gente (‘l’anima’ rappresenta i loro docili gusti, e la loro oscuramente egoistica moralità), e di volerla poi ‘calpestare’.
Nella terza parte, sono da segnalare i versi: “me ne andrò per la terra / a destar godimento e ad infiammarmi” (a godere egli stesso); “La terra tutta, sdraiandosi come una donna, / dimenerà le sue carni, vogliosa di darsi; / le cose si animeranno, / le labbra delle cose / biascicheranno: / ‘zàza, zàza, zàza!’ ”. La natura sembrerà animarsi, manifestando intenti (barbaramente) umani.
Più avanti il poeta si abbandona follemente (come asserirà egli stesso) ad un’esaltazione della violenza rivoluzionaria. Si compiace, ad esempio, all’idea di vedere “le insanguinate carcasse dei mercanti”.
Sono infine da segnalare questi altri versi: “nell’accozzaglia umana / […] / Io, / forse, / sono il più bello / di tutti i tuoi figli”; fra la massa omologata, il poeta spicca per il fascino legato alla sua individualità; “la mia voce / strilla oscenamente”: ricorre l’idea di una sfrontatamente suadente, e tuonante, comunicazione orale.
Verso la fine della terza parte, si leggono invece questi, molto importanti: “Io, che decanto la macchina e l’Inghilterra, / sono forse semplicemente / nel più comune vangelo / il tredicesimo apostolo”. Il futurismo majakovskijano attinge da Marx, dall’idea marxiana dell’abolizione del lavoro per mezzo della tecnologia. Per questo elogia le macchine (loda anche ‘l’Inghilterra’, poiché è la patria delle rivoluzioni industriali). È il nuovo apostolo di un nuovo cristianesimo. Se il futurismo italiano si emoziona, si entusiasma, si esalta, per i prodotti artificiali o umani – nella fattispecie quelli più tecnologici, prodotti dalla moderna, tecnicamente avanzata, industria (assai simili fra loro – omologati – e, in sé, astratti) – il futurismo russo preferisce i prodotti della natura. I futuristi italiani amano la durezza dei materiali di cui sono spesso costituiti, ne apprezzano, ad esempio, l’imponenza, la mortale pericolosità, la velocità, dunque gli aspetti duri, minacciosi, rischiosi – pericolosi.
Nella quarta parte, il poeta dialoga con una Maria diversa da quella precedentemente menzionata. Dice di essere un uomo “semplice” (“Maria, vuoi un uomo simile?” – afferma il poeta), nel senso dell’umiltà di cui si è detto in precedenza. Parla di “minuscoli sudici amorucci” (viziosi, poiché inappaganti, e dunque un po’ ripugnanti), cui contrappone l’intenso amore provato per Maria. La implora: “Con denudata impudenza / oppure con un pavido tremore / concedimi la florida vaghezza delle tue labbra”. Con sicura, temeraria, prontezza, oppure esitante – poiché timorosa della passione – il poeta invita l’amata a baciarlo, con le sue ricche, rigogliose, e belle labbra. Rispetto all’altra Maria, questa mostra delle sembianze ben più sensuali: “io, / tutto di carne, / uomo tutto, / chiedo semplicemente il tuo corpo, / come i cristiani chiedono: / ‘Dacci oggi / il nostro pane quotidiano’ ”; per il poeta tra l’attrazione sessuale provata per qualcuno, e il voler davvero bene a quel qualcuno, non vi è differenza alcuna (subito dopo la implora di concedersi). “Il tuo corpo / io saprò custodire ed amare / come un soldato, / stroncato dalla guerra, / inutile, / ormai di nessuno, / custodisce la sua unica gamba”: come un soldato zoppo, e dunque ormai inutile per combattere, abbandonato, il quale non può che tenere molto al solo arto inferiore rimastogli, il poeta tiene alla donna amata. Ma Maria lo respinge: “Ed allora di nuovo, / afflitto e cupo, / io prenderò il mio cuore / e, irrorandolo di lacrime, / lo porterò / come un cane / porta / nella sua cuccia / la zampa stritolata dal treno” (l’amore è quanto conta davvero). “Tu pensi / che quello con le ali / che ti sta dietro / sappia cosa sia l’amore?” (Maria, pur essendo una donna sensuale, ha una concezione sentimentale dell’amore).
Ancora una volta, il poeta, se la riprende con Dio, con la sua cattiva creazione: “Onnipossente che hai inventato un paio di braccia / e hai fatto si che ciascuno / avesse una sua testa, / perché non hai inventato una maniera / di baciare, baciare e ribaciare / senza tormenti?! / Pensavo che tu fossi un gran Dio onnipotente, / e invece sei un insipiente, un minuscolo deuccio”.
Alla fine del tetrattico, Majakovskij si congeda con le seguenti parole: “Ehi, voi! / Cielo! / Toglietevi il cappello! / Me ne vado!”.
La concezione filosofica che emerge dall’esame dei versi riportati è pansessualistica: in base ad essa l’uomo può sperimentare cose attraenti, poco attraenti, o addirittura repellenti. Cosa, innanzitutto, sarebbe (stando a tale concezione) davvero attraente? Quanto è inaudito, e dunque assolutamente singolare, cioè diverso da tutto ciò che si è sperimentato prima di esperire tale cosa inedita, e quanto è istantaneo: se tale cosa permanesse identica a sé stessa con il trascorrere del tempo, perderebbe infatti tale suo carattere di novità, divenendo noiosa, e, con ciò, perdendo di attrattiva. Ma tale cosa istantanea, per essere davvero seducente, deve inoltre aggredirci: l’aggressività è infatti qualcosa di sensuale. Tale aggressione non è altro, del resto, che il suo stesso intenso imprimersi nella coscienza di chi la sperimenta: non c’è visione o – più in generale – sensibile, esteriore, esperienza, cui non si accompagni – ne è l’intima controparte – un dolore (un’emozione, ad esempio). Se dunque ogni percezione è una ferita, solo le impressioni più intense – ad esempio un colore denso, penetrante, forte, vivace – saranno davvero soddisfacenti. Ma allora, provare dolore (da intenderlo dunque nella sua accezione più comprensiva), non è mancare, ma possedere, è pienezza – è appagante, piacevole. Del resto, se, ad esempio, si ha un certo appetito, il primo boccone di ciò che addentiamo, è quello più gustoso; contrariamente, più si è prossimi alla sazietà, meno apprezziamo ciò che stiamo mangiando.
L’esperienza relazionale degli uomini è un vicendevole esperirsi, ad esempio, nel caso di un uomo e una donna che ancora non si conoscono, ma che provano – osservandosi – reciproca attrazione, (ovviamente) un vicendevole mostrarsi: vicendevolmente, si fruisce di ciò che si sperimenta, e si viene contemporaneamente sperimentati. Ma mostrarsi all’altro è aggredirlo, ovvero provocargli dolore. Allo stesso tempo, l’altro ci aggredisce, provocandoci dolore a sua volta. In uno stesso istante, l’uomo sferza (ferendolo), chi ha di fronte, e ne viene sferzato, ferito: sacrifica e, ad un tempo, si auto-sacrifica, si lascia sacrificare.
L’uomo (o anche, indifferentemente, la donna), in uno stesso attimo, assume dunque un atteggiamento ambivalente. La sua mimica, la sua gestualità, diveniente, sempre cangiante, è da un lato un tentativo di suscitare l’attenzione di chi gli sta di fronte. Non è affascinarlo, ma farlo accorgere della propria esistenza, per il piacere di esserne aggredito. L’altro, infastidito, incomodato (come chi, non ancora nato, risiedente nel nulla in un piacere puramente negativo, viene ad esistere), vuole toglierlo di mezzo, annichilirlo, nel tentativo di tornarsene nella negativa pienezza in cui si trovava prima di avere detta indisponente esperienza. La sferzata inflitta all’altro è l’esperienza che quest’ultimo fa dell’affascinante atteggiarsi della rimanente persona. Affascinare è infatti un gesto di crudeltà: lo scopo è stupire l’altro, abbagliarlo, immobilizzarlo, farlo contemplare — non farlo dunque agire (il che equivale a scomparire). Ma ciò è possibile assumendo l’atteggiamento seducente di cui sopra. È dunque volerlo togliere di mezzo, sbarazzarsene. Allo stesso modo, la fredda, distante, svilente, diva del cinema che sfila lungo la passerella, con la sensualità del suo corpo, esaltata dall’eleganza delle sue vesti, non ama affatto il pubblico che la guarda ammaliato, tutt’altro.
Nell’attimo in cui si aggredisce nel modo anzidetto, si fruisce simultaneamente dell’aggressione dell’altro nei nostri confronti, per cui, in quell’istante, non c’è l’eliminazione dell’altro (che è dunque svanire, annullarsi). Tale fruizione è la non totale consumazione di chi ci è di fronte. In un rapporto sessuale il reciproco orgasmo è un vicendevole, materiale consumarsi e, contemporaneamente, un mutuo lasciarsi consumare.
rodchenko-majakovskijIl gesto dell’uomo è ambivalente: da un lato è un tendere al piacere quale pura negatività; dall’altro è un tendere al piacere quale dolore. La risultante (istantanea) di tali due tendenze è la seguente, che potrebbe essere chiamata ‘desiderio’: un’unica sensazione (dunque un piacere-dolore), sì intensa, ma non in modo troppo eccessivo, in quanto si tende anche al piacere quale negatività — tale, cioè, da suscitare repulsione sessuale. Ogni istante l’uomo, da egoista, consuma l’altro, tendendo al raggiungimento del piacere quale negativo, ed è viceversa consumato altruisticamente, in modo sacrificale: in uno stesso istante, una soddisfazione è bilanciata da una comparsa emotiva.
L’uomo egoista ha desideri tenui, poco attraenti. E così, per quel che riguarda, ad esempio, l’esperienza artistica, ama sperimentare cose scarsamente passionali: dal punto di vista della passione, nuocciono poco al suo sguardo; dal punto di vista dell’azione, scorgendole tende a venirne a noia: l’indifferenza – coincidente con il distogliere lo sguardo dalla cosa contemplata – che giungerebbe così a provare, necessariamente dopo aver sperimentato la noia per essa, sarebbe totale consumo, annichilimento della cosa contemplata. Nel primo istante in cui le contempla, sono già tediose, insoddisfacenti, il che spinge l’osservatore a continuarne la visione, nell’attesa che l’istante successivo sia riempito da uno spettacolo ben più appagante, mentre invece si mostrerà qualcosa di identicamente noioso. Anche ciò che è immobile è soggetto al divenire, alla trasformazione. L’egoista non sperimenta dunque una serie di acquietanti desideri, ma una serie di privazioni, di bisogni.
Il suo godimento estetico tende più alla contemplazione che all’azione, al movimento. Mentre invece la persona passionale ama, ad esempio, un paesaggio montano ancora incontaminato, impervio, imponente, minaccioso, la cui vista spinge coraggiosamente ad avventurarvisi, piuttosto che a osservarlo semplicemente. Calpestare i suoi sentieri, è quasi un tentativo di possederlo fisicamente, la stimolazione suscitata dalla montagna è più al tatto che alla vista, e perciò più attiva, pratica, che contemplativa, ascetica, rinunciataria.
Perché l’egoista non ama il desiderio? Poiché tiene esageratamente sia alla propria incolumità fisica, sia alla propria incolumità morale. Non ama l’aggressività, poiché teme le offese alla propria persona. Non ha abbastanza vigore esistenziale per non darvi peso; resistere a tali tipi di urto – non esserne vulnerati – è forza d’animo, è essere persona di spirito. Anche il debole può aggredire verbalmente. Aggredisce per primo, ma in modo gelido, astratto, povero, poiché manca di passionalità, per prevenire un’eventuale offesa morale, che teme: intimorisce chi gli è di fronte, neutralizzandolo, rendendolo innocuo.
La passione, la sessualità, è di ostacolo alla propria egoistica conservazione. Può danneggiarci. Intraprendere un viaggio avventuroso comporta dei rischi. Per amore, o per amicizia, si può giungere addirittura a rischiare la vita. Il piacere della socialità, può implicare delle autentiche rinunce; ma la socialità – così come l’amicizia e l’amore – è più importante del proprio egoistico, solipsistico, tornaconto: per quest’ultimo si può passare sopra la sofferenza dell’altro, la quale, fra l’altro, tanto più è atroce, quanto più è un ripugnante spettacolo. L’egoista teme oltremodo – vigliaccamente – il dolore, così come ha in orrore la ristrettezza economica. La paura smodata dell’indigenza futura, lo sprona a dedicarsi assiduamente ad un lavoro sgradito, duro, faticoso, nella migliore delle ipotesi tedioso.
La morale dell’egoista è fondata sul proprio tornaconto. Dietro il suo provare compassione, si cela in modo ipocrita o auto-mistificante, il solo interesse per la propria persona, non gli importa nulla degli altri. La morale egoistica è generata dalla debolezza fisica. L’egoista ‘debole’, porta, ad esempio, soccorso a chi viene a trovarsi in una situazione di pericolo, per quel tanto – beninteso – che non ne vada della propria vita. In quella stessa situazione potrebbe infatti venire a trovarsi lui stesso: qualora una simile evenienza venisse a verificarsi, non avrebbe la forza e la destrezza necessarie per cavarsela da solo.
L’egoista fisicamente forte, al contrario, in quella stessa occasione, non porterebbe soccorso, poiché – nel poter venire a trovarsi in un’analoga situazione – potrebbe sbrigarsela da solo. Ma l’egoista – forte o debole che sia – è comunque un pauroso: manca di coraggio e di forza d’animo, di vigore esistenziale: se forte, la forza di cui dispone, è meramente, brutalmente, materiale.
Infantilmente, il bambino prende in giro la bambina, la quale ne può provare piacere, poiché nutre un interesse per quest’ultima. O meglio, da un lato ciò è un esercizio di pura, fredda, integra, solipsistica, aggressività (volontà di morte), dall’altro è amore, pieno e inattivo auto-sacrificio per l’altro, volontà che l’altro ci procuri il massimo dolore che possiamo provare (volontà di vita). Schernendo l’altro per la sua assenza di midollo, ci si aspetta dunque che quest’ultimo abbia una reazione d’orgoglio, che lo induca a ricambiarci della stessa moneta, in modo tale da poter anche contemplare uno spettacolo di autentica bellezza. Schernire è, dunque, anche voler bene, è anche auto-sacrificio. Schernire l’altro è, dunque, volerlo rendere rivoluzionario, volerlo cambiare radicalmente, farlo cessare di essere un meschino egoista, rovesciando completamente i sui criteri valutativi, in modo tale che inizi a dare importanza a tutto ciò che non ritiene importante: Majakovskij è anti-nichilista, per lui la vita, tutte le cose – tra cui, dunque, anche la propria esistenza – hanno valore; è un grande, potente, esaltatore del vivere. Respinge i due aspetti della morte, ovvero il non dare valore agli enti, il ripugnante dolore, inflitto sia a sé stessi che agli altri, e l’anestetico piacere, che è insoddisfazione. La forza d’animo è qualcosa che tutti noi, in linea di principio, possiamo acquisire.

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