Etimologia
La parola madre latina, alla quale va ricondotta la famiglia lessicale di cui fa parte ‘destino’, è il verbo sto. A sto si ricollega –stano (il cui significato è ‘fissare, attaccare’), attestato solo nei composti. Fra i composti di –stano troviamo il verbo destĭno che, assieme ai significati base, vale anche ‘prefiggersi, proporsi fermamente’. Il sostantivo destina ha il significato di ‘sostegno, supporto’, mentre destinatus significa ‘fissato, bloccato’ e destinatum ‘disegno, risoluzione’. Anche obstino (‘ostinarsi’) e praestino (‘fissare il prezzo di una cosa, contrattare’) fanno parte della stessa famiglia, così come la forma aggettivale stabilis (‘stabile, fermo’) e altri derivati. Dunque il significato etimologico di ‘destino’ rimanda all’idea di qualcosa che è fisso, stabile, che costituisce un perno e, insieme, un proposito, una decisione. (Il testo di riferimento per questo excursus lessicologico è il fondamentale A. Ernout-A. Meilllet, Dictionnaire ètimologique de la langue latine – Histoire des mots, Paris, Éditions Klinksieck 1994, prima edizione 1932). Questa etimologia non rende conto di un altro aspetto a mio avviso significativo di ciò che chiamiamo ‘destino’: la sua volatilità, la sua leggerezza ondivaga e imprevedibile, la sua fulminea prossimità.
I film di Eric Rohmer
In alcuni film (Il segno del leone, Racconto d’inverno, Incontri a Parigi e altri) di Eric Rohmer, regista francese di culto, si possono riscontrare modalità mimetiche e diegetiche di quell’aspetto del destino legato alla volatilità e alla leggerezza. Scivolano sullo schermo, nelle pieghe di un indecifrabile continuum, multiformi alchimie della sorte, lievi e insieme ineluttabili, attraverso grovigli di parole, incontri fatti e incontri mancati, flussi di umori e movimenti umani come atomi che incessantemente si compongono, si disfanno, si ricompongono. La vita che pensiamo come progetto è frutto in realtà di fortuiti intrecci, di combinazione — anche nel senso di impasto, di sovrapposizione di grumi di materia e di spirito. L’occasione che gli umani rincorrono nel tentativo di governare gli eventi viene incessantemente risucchiata nel grande magma della casualità, che può attualizzarla come differirla all’infinito. Ma la sovranità del caso non appare, nei film, cieca e tiranna come quella della Wille di Schopenhauer, propagatrice della specie in quanto meccanicamente autoconservativa: è aerea, disincantata, sembra cullare gli umani, sembra il sapore stesso della vita. Vagare sulle onde del destino. C’è un termine, in tedesco, Augenblicksgott, che indica una divinità minore che ci passa accanto rapida come un battito di ciglio producendo effetti momentanei (J. Hillman, Il codice dell’anima, Adelphi 1997, pag. 158).
J. Hillman, Il codice dell’anima
Nel saggio dello psicologo statunitense James Hillman c’è un capitolo espressamente dedicato al destino: tema, d’altra parte, sotteso all’intera dissertazione. Molti spunti interessanti corredano le riflessioni sul fatalismo, sulla necessità, sugli errori, sul rapporto fra destino e carattere. Per quanto riguarda il fatalismo, Hillman lo definisce come un modo di ragionare secondo cui si ritiene che la vita sia predeterminata sulla base di un disegno eteronomo. È un’ideologia consolatoria e deresponsabilizzante, in quanto offre un alibi metafisico all’arrendevolezza: quello della vanitas di ogni (presunta) libertà decisionale. Se la vita è scritta nelle stelle, non importa ciò che scelgo (pag. 243); anzi la stessa idea di scelta è un’illusione (ibidem).
Il nostro anelare a un senso e a un fine si infrange davanti alla mannaia della Necessità, sorta di braccio armato del fatalismo: Il difficile è dare un senso agli accidenti, a quelle banali folate di vento che ci fanno deviare dalla rotta e sembrano ritardare il progettato approdo nel porto teleologico (pag. 255). La Necessità, in quanto tale, è per se stessa, non per noi: Ciò che viviamo è necessario che lo viviamo. Necessario per chi? Per che cosa? Per lei, la dea Necessità (pag. 261). Il cammino-sorte tracciato da Necessità non è intellegibile perché essa si muove nell’alveo dell’irrazionalità: Pur determinando la sorte che viviamo, i modi in cui esercita la sua influenza sono irrazionali. Ecco perché è così difficile comprendere la vita, perfino la propria. La sorte della mia anima deriva dal principio irrazionale. La legge che l’anima segue è quella di Necessità, che è erratica (pag. 261). Il destino, privo di logica, è altresì al di qua di ogni connotazione morale, in quanto né buono né cattivo se non nel disperato sforzo di dargli un volto per renderlo in qualche modo definibile e fronteggiabile. Il destino non appartiene al pensiero umano: a volte sembra che conceda qualche risarcimento, appare benevolo e sorridente, altre volte appare dispettoso e suscettibile, quasi si divertisse alle nostre spalle con (s)combinazioni, incontri, non-incontri, intrecci, imprevisti. Ma ogni umanizzazione del destino è fallace e, d’altra parte, il destino non è consapevole neanche lui di quello che combina (nel senso anche rohmeriano di mettere insieme). Il destino è quello che accade.
L’etimologia della parola greca che significa Necessità riporta all’idea di strettoia, costrizione: Ananke vale «angusto», «gola», «costringere» «strangolare», o per indicare il giogo dei buoi e il collare degli schiavi (pag. 262). Aggiogati alla ferrea morsa di Ananke, la scelta è per noi sempre obbligata: ecco l’implacabile sorriso di Necessità a dirci che, qualunque scelta compiamo, è esattamente la scelta richiesta da lei. Non poteva essere altrimenti. Nell’istante in cui la decisione accade, essa è necessaria (pag. 263).
Da una parte, allora, il destino non può che essere assecondato: sembra non esserci alternativa all’abbandonarsi al ‘corso delle cose’; dall’altra, noi siamo condannati all’orgoglio illusorio della scelta. La vita t’impone uno spartito imperscrutabile e tu cerchi di inserirvi qualche nota: ma che non sia anche questo il giogo di necessità, l’ombra del suo diabolico scherno? La scelta ‘doveva’ essere quella e non ‘poteva’ essere altra.
Ma se tutto è in qualche modo già scritto, gli errori, allora, dove sono? Com’è che possiamo sbagliarci, perché ci sentiamo in colpa? Se tutto ciò che accade è necessario, come mai il rimorso? (ibidem). In realtà anche il rimorso, secondo Hillman, è avvolto nelle spire della Necessità: So bene che ciò che doveva essere doveva essere, eppure, ciò nonostante, provo rimorso. Necessità dice che anche il rimorso è necessario, come sentimento, fa parte del mio giogo, ma non si riferisce a ciò che in pratica avrei potuto o dovuto fare di diverso (pag. 264). Il rimorso è necessario come sentimento, così come la percezione degli errori fatti che, comunque, sembrano apporre un crisma di individualità nel grigiore indistinto degli eventi: la Necessità domina tutti ma non traccia strade uguali per tutti. L’errore che ho fatto e non potevo non fare è solo mio: questa sorta di orgoglio dell’errore è il grido straziato dell’‘io’ nelle braccia oscure di Ananke. (Ma c’è una radice metafisica alla base dell’errore stesso: la vita stessa è forse un errore del nulla, se il nulla è l’originaria Necessità).
Tuttavia la tesi di Hillman, quella che scaturisce dall’insieme del saggio, è concentrata soprattutto sulla forza incoercibile del daimon: Siamo intrappolati dentro il velo dell’illusione, convinti di essere gli autori della nostra vita, quando invece la vita di ciascuno è già scritta nella ghianda [daimon, vocazione, carattere] e noi non facciamo altro che realizzare il piano segreto inciso nel cuore (pag. 241). L’uomo allora non è un essere improgrammato e improgrammabile che soggiace al destino: la ghianda è, in quanto codice vocazionale, il nostro segno distintivo e il nostro programma di vita. Essa è la nostra Necessità, ma anche la nostra ricchezza. Se il destino è la nostra vocazione (la ‘ghianda’), la nostra vita è scritta da noi sotto il suo dettato. In questo senso, la forma innata di una persona incorpora in sé gli accidenti. Il carattere è destino (pag. 256). Il carattere è il dispiegarsi della vocazione che Necessità ha inciso in noi. L’intera vita – breve o lunga che sia – si dipana sul filo di una scommessa senza fine e senza limiti, ed è la scommessa di chi non arretra davanti al tormento della delusione e del fallimento, di chi non teme di mettersi in gioco nel dare ascolto al segreto del suo cuore. Sta solo a me far fiorire il mio daimon: in questo è la suprema riconciliazione con il Destino.
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Magnetismi: una prospettiva personale
Fra due minuti comparirà… Questo simulacrum mi attraversa la testa, senza motivo, senza collegamento. Eppure di lì a due minuti comparirà proprio lui. Cammino sul marciapiede opposto a un noto bar. Davanti al bar distinguo una sagoma, magari anche poco somigliante, che mi evoca una persona conosciuta che, fra l’altro, non vorrei assolutamente incontrare in quel periodo, tantomeno se con la sua compagna. Ma non c’è scampo: dietro l’angolo della strada successiva, una delle tante che avrei potuto prendere – ma forse il destino era dietro ogni strada che avrei potuto prendere – spunta proprio quella coppia. Non volevo incontrarla ma è come se l’avessi materializzata io.
Eppure la questione non è in questi termini. Le persone non si materializzano in forza di una inconsapevole attività mentale. In quei casi non è la testa che pensa, ma è la testa che viene pensata. Qualcosa s’impone nel pensiero, irrompe senza possibilità di difesa o di fuga attraverso un inganno o una sottile emanazione che colpisce la vista. Allora si può verificare, di lì a poco, la materializzazione. Io credo che siamo immersi in campi magnetici, che fasciano e incrociano il nostro ignaro peregrinare: quando ho scambiato quella persona per *, ero già nel campo magnetico di *, che si stava fisicamente avvicinando. Il destino è anche un fitto e indecifrabile intrico di magnetismi.)
Appunti forse imperfetti ma certo profondi.
Ritengo che il rimorso altro non sia che il tentativo, forse estremo, dell’ego che non vuole annullarsi.
La rinuncia al proprio io è il passaggio indispensabile per giungere alla libertà.
Libera infatti è solo l’origine incondizionata. Nulla perciò a che vedere con il nostro esserci mondano. Dove la necessità condiziona e il caso (a crederlo possibile) non ha origine.
Per essere l’origine incondizionata occorre rinunciare a noi stessi.