Sitosophia

Dio e la conversione dei cuori

Si sente spesso Francesco, papa, dall’alto del suo magistero e dal basso delle sue argomentazioni mielose quanto fallaci, proferire la sua preghiera a Dio affinché “converta i cuori” dei malvagi. C’è da presumere che si tratti dello stesso Dio veterotestamentario, ancora travestito da Padre, prima che nella paolina “pienezza dei tempi” (ci dispiace per i tempi vacui in cui altri sono vissuti; d’altronde, pare che la redenzione abbia inusitate proiezioni retroattive e diacroniche) quando si rivelerà quale Figlio e, invero, un po’ meno chiaramente (ma non mettiamoci a discutere dei misteri trinitari, la vita è già difficile di suo), quale Spirito Santo. Ebbene questo Dio Padre, di quanto in quanto, non disdegnava di “indurire il cuore” di quelli che poi mandava al macero.

Nel Nuovo Testamento questa prospettiva diviene parossistica in un noto discorso che, esplicitato meglio nel vangelo di Matteo rispetto agli altri Sinottici, Gesù rivolge ai suoi discepoli, quando costoro gli chiedono conto del perché egli parlasse alle folle attraverso le parabole. È un passo interessante perché viene attribuita a Gesù una sorta di esegesi della sua stessa predicazione: «Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: “Perché parli loro in parabole?”. Egli rispose: “Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Così a chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. Per questo parlo loro in parabole: perché pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono. E così si adempie per loro la profezia di Isaia che dice: ‘Voi udrete, ma non comprenderete, guarderete, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo si è indurito, son diventati duri di orecchi, e hanno chiuso gli occhi, per non vedere con gli occhi, non sentire con gli orecchi e non intendere con il cuore e convertirsi, e io li risani’”» (Mt 13,10-15). Insegnamento straordinariamente fumoso e vagamente iniquo (togliere a chi poco ha e dare ancor di più a chi già possiede), dove non si comprende appieno causa ed effetto. Quel “pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono” suona sinistramente esortativo, come un compiacimento “affinché vedendo non vedano e udendo non odano e non comprendano”. Quindi non possano essere risanati. Il Dio-Figlio non sembra spianare la strada a quanti sono già appannati dalla loro semi-cecità. Lo stesso che dichiara, altrove, di essere venuto “per i malati” e non per i sani o quel buon pastore che abbandona, con lucida follia, le novantanove pecore per andare in cerca dell’unica smarrita. Eppure quel Dio che indurisce i cuori o lascia che si induriscano è lo stesso che può convertirli: perché allora non lo fa? Fior di teolosofemi (mi si consenta il neologismo) spiegano come qui entri in gioco il libero arbitrio (espressione magica perché declinabile a piacimento) che consiste nell’accettazione della Grazia. E accettando la sfida, rispondiamo con un altro teolosofema medievale: Nihil volitum, quin praecognitum, ovvero: non si può volere quello che non è prima conosciuto. Il teologo Torres Queiruga si rifà a questo adagio patristico commentando il passo di Siracide che recita: «Davanti agli uomini stanno la vita e la morte: ad ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà» (Sir 15,17): non è possibile, insomma, che si possa scegliere volontariamente la perdizione senza averne la minima cognizione. C’è un gioco tragico attorno alla tanto enfatizzata economia della salvezza: la sua valenza è soprattutto di ordine quantitativo: «Molti sono i chiamati ma pochi gli eletti», dichiara Gesù, mentre nel libro dell’Apocalisse la guerra cosmica tra i due eserciti del Bene e del Male ha un epilogo talmente esiziale da comportare una vittoria risicata a carissimo prezzo: la distruzione dell’intera opera di Dio per salvare un piccolo “resto” già preconizzato dai profeti.

Ci trasciniamo, da quando storicamente Cristo ha vinto la morte, guerra e ingiustizia, procurate dal cuore di tenebra di quegli uomini che Dio non può o non vuole convertire. Il paradosso di Epicuro, spina nel fianco di ogni teodicea, è quanto mai attuale: già nella riflessione sapienziale ebraica veterotestamentaria del Libro dei Vigilanti, che fa parte dell’apocrifo Libro di Enoch, comincia a delinearsi la possibilità di un Dio non onnipotente. Egli stesso alla mercé di un mysterium iniquitatis che esige per questo mondo lo scotto di un dolore ritenuto necessario per completare «quello che ancora manca ai patimenti di Cristo» (Col 1,24)? Nell’attesa, ogni invocazione al Dio muto non può che apparire ridondante e un po’ blasfema.

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