La corruzione del linguaggio

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Octavio Paz ha scritto: «Una nazione si corrompe quando si corrompe la sua sintassi». Cioè quando un popolo non è più capace di comunicare e corrompe il linguaggio con significati volutamente adulterati per il raggiungimento di determinati scopi, ha inevitabilmente perso la morale. Dobbiamo cercare di ritrovare e acquisire un linguaggio che non sia fuorviante e soprattutto chiacchiera. Esiste un povertà di linguaggio, che si è radicalizzata nelle abitudini della comunicazione; usiamo parole che non hanno un significato, ma vengono utilizzate come semplice appoggio del parlato. La parola giusta, incisiva, che esplicita realmente il concetto che vogliamo esprimere non è ricercata. In tal modo instauriamo l’ambiguità della comunicazione, che ci fa comodo, una sorta di zona franca per non scoprirci, per proteggerci dall’assenza di autenticità. Non ci impegniamo nell’uso del linguaggio, parliamo a vanvera per rappresentazioni di ipotetiche realtà per confondere chi ci ascolta e indurlo in errore. Celebriamo l’equivoco come sistema di difesa alla nostra impreparazione linguistica, rappresentando l’apparenza della fedeltà traslata nel massimo dell’infedeltà.

Parliamo troppo: una insana abitudine che nei salotti televisivi raggiunge l’apice della vergogna, poiché il senso del linguaggio non è di rappresentazione del pensiero o dei fatti ma della sua spettacolarizzazione per rendere appetibile un evento, uno scandalo, un’ingiustizia, un bisogno comune che va trattato scenicamente per dare consistenza di piacere alle cose perverse e criminali. La corruzione del linguaggio è un crimine contro l’umanità, da perseguire penalmente, ma soprattutto da eliminare o al massimo da contenere attraverso una appropriata educazione all’uso delle parole, quelle giuste, quelle che generalmente si trovano scritte nei vocabolari. Ci fermiamo al minimo perché in molti casi è sempre utile. Indubbiamente, un linguaggio giusto, non corruttibile, fa bene alla comprensione eliminando ogni forma di ambiguità. Siamo però pigri nell’esercizio di rafforzamento del linguaggio, che è indispensabile nella crescita collettiva degli esseri umani, asse portante della verità. Già, la Verità è parola e come tale non può essere pronunciata con superficialità e impoverita di significato. La Verità, appunto, ci chiede precisione, presuppone ancora prima che sia rivelata capacità di ascolto interiore e ascolto esteriore. A nostre spese, oggigiorno sperimentiamo il dramma della chiacchiera, della ciarla. L’inflazione del parlare e un’assoluta povertà di comunicazione di veri significati sono rintracciabili in ogni forma scritturale che irrompe e squarcia il silenzio della monotonia, eppure bisognerebbe tenere in conto che il silenzio si deve rompere quando c’è la necessità di dire qualcosa più importante del silenzio, qualcosa che attraverso le parole deve produrre una conoscenza che possa stabilire un legame con la realtà o con l’infinito che ci sovrasta e ci chiede di essere interpretato con le parole giuste.

Con le parole giuste denudiamo noi stessi e ci mostriamo per quello che siamo; mentre con le parole corrotte dalla nostra superbia di avvalerci dell’ambiguità (del non detto) costruiamo sintassi di convenienza per continuare a sguazzare in un esercizio linguistico falsato e corrotto al solo fine di una comodità estrema per un approccio di comunicazione, ovviamente non qualitativo ma quantitativo. Un espediente di comunicazione che brucia menzogne e lussuria di parole, che però ci fa stare in piedi in un linguaggio vasto e imperscrutabile, che ci aiuta ad inseguire il Nulla e a configurarci nel suo sistema di codificazione dell’inesattezze. Non avvertiamo più il bisogno di costruire frasi che possano ripararci dai fraintendimenti, l’ordine della sintassi è sconvolto costantemente, tant’è che siamo portati a costruirci una grammatica personale di riferimento per aprire spiragli e punti di fuga che privilegino le nostre esigenze di comunicazione.

Un certo modo di manipolare il linguaggio ci ha rubato le parole, e in questo la politica è maestra. Qualche esempio: «Mi scuso, i falsi dovuti alla fretta», titolo apparso su Repubblica il 12 maggio 2107. Una sintesi imprecisa, che non dice nulla e rimanda a qualsivoglia ipotesi. Ancora su Repubblica, «L’ex moglie del ministro “Dispiaciuta per le donne che il verdetto farà soffrire”», che dire? Anzi, che pensare? Infine, «Banche chiuse e cassonetti pieni, il ministro francese: C’est la vie». È vero, sono titoli, devono colpire con immediatezza il lettore del fatto che si vuole raccontare, ma un’attenzione maggiore avrebbe dato maggiore chiarezza.

Ragionevoli dubbi, dunque, ci consigliano una maggiore chiarezza di linguaggio, ma al contempo anche una prudenza nello stile di comunicazione. La grammatica è il codice etico non solo dello scrittore, del poeta e del giornalista, ma anche di tutti coloro che hanno riconosciuto la lingua come fondante della propria identità nazionale. La corruzione del linguaggio non è perseguibile penalmente, ma dobbiamo scongiurare il rischio di un dialogo assente, ucciso nella sua capacità di rappresentare in modo completo il ventaglio infinito delle emozioni e della complessità dell’essere.

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