L’inutilità di un avverbio

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L’avverbio mai cosa vorrà effettivamente significare, esplicitare, confutare, comparare?

È certamente in relazione al tempo, ma, in particolare, in quale segmento?

Nel pronunciare mai a cosa ci riferiamo; con quale luogo ci rapportiamo?

In verità questo avverbio nel linguaggio comune è utilizzato per affermare un agire che non dovrebbe mai accadere. E da qui nasce il problema di comprendere da quale principio derivi questa certezza. È un problema linguistico, oppure un problema filosofico?

Per quanto riguarda il linguaggio, al posto del mai si potrebbe utilizzare la negazione seguita dal verbo, ad esempio, non ho fatto, e già esprime un evento che si è verificato nel tempo passato, quindi ben certificato; nell’esplicitare il fare al tempo futuro, invece, si può dire non farò. Invece, questo avverbio si pone dopo il verbo con superbia per dare certezza all’intenzionalità del soggetto che esprime un’azione. Si pone, perché lo pone l’essere umano, il quale ha consolidato nel tempo un modo di dire che non specifica nulla; tra l’altro, nel tempo il mai potrebbe rivelarsi non veritiero, poiché nulla si può anticipare nel tempo, nulla è ipotizzabile facilmente in riferimento al futuro, sarebbe come navigare verso l’ignoto, in uno slancio di approssimazione e di superficialità che denota poca attenzione a ciò che viene detto in ordine all’agire con toni trionfalistici come la modernità richiede. Nel pronunciare il mai si corre il rischio di essere poi etichettati bugiardi.  Difatti, l’avverbio è sempre in agguato nella realtà: si presenta con eleganza nelle frasi e suscita un certo fascino a tutti coloro che lo pronunciano, presentando poi il suo volto drammatico quando la negazione che lo precede diventerà affermazione. Nessuno potrà sapere il suo significato ultimo.

La ragione se ne serve per acquietare uno stato emotivo, forte, che nelle parole cerca certezze. E da qui qualche considerazione sul piano filosofico dell’avverbio. Innanzitutto, una precisazione: il filosofo non dovrà mai macchiarsi di presunzione, perché la filosofia serve a scrutare il mondo e l’uomo in una ricerca continua, la totalità dell’essere, e a combattere la presunzione e le vanità. Potrà dunque il filosofo dire mai in riferimento al tempo, all’uomo, alla natura? Il tempo è inafferrabile, non si può fissare, e allora che senso ha il mai? Non si può cogliere mentre è, riusciamo a ricordarlo in relazione ad un movimento: quando la campana suonerà, quando arriverà l’estate. E il mai, ossia ciò che non è accaduto e non accadrà mai, come lo ricorderemo? Ecco, l’inutilità dell’avverbio, che non si può definire con il divenire della realtà. Il tempo ritorna sempre su se stesso, il mai, invece, che vorrebbe esprimere una temporalità su quale tempo ritornerebbe e si affermerebbe? Certamente il mai non è scandito da un ritmo né da un costante avvicendamento. Il tempo inizia e finisce nelle intenzionalità rappresentate dal linguaggio, non ha nessun giro identico al primo, esprime la tragicità del suo destino di non realizzarsi e consolidarsi nell’asse del tempo; né potrà in nessun modo instaurarsi nell’eternità, nella realtà statica del tempo. Non è misurabile, non dà ordine, né movimento. Il mai elude la concezione aristotelica del tempo, in cui il tempo non è pensabile senza il movimento. Nessun rigoroso rapporto di corrispondenza reciproca tra il mai e il tempo, nessun intervallo da inscrivere in un ricordo.

Allora, perché continuare ad utilizzare l’avverbio stante la sua caratteristica inutilità linguistica nel descrivere una condizione ipotetica che non esprime un senso compiuto, semmai una speranza che non accada qualcosa di cui si farebbe ben volentieri a meno. Allora, potrebbe avere un approccio scaramantico sia in ambito linguistico che pratico dell’agire, ma inficerebbe il rigore della lingua e dell’argomentazione discorsiva dell’esperienza. L’avverbio mai imprime un segno di superbia all’indole umana, concedendo anche le attenuanti di un agire che si sviluppa in un senso di comprensione e di giustificazione per il suo uso non puramente adeguato ad esprimere un pensiero scevro da condizionamenti di qualsivoglia natura.

Chiedere dunque attenzione a questo avverbio sarebbe come chiedere ad un bambino di non giocare, sarebbe impossibile toglierlo dalla grammatica personale di ogni essere, poiché esso è l’espediente migliore per dare forza all’incertezza che si tende a mascherare con un semplice avverbio di convenienza, null’altro.

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