La dissimulazione onesta? Riflessioni su Torquato Accetto

Leave a comment

L’epoca tra il XVI e il XVII secolo, di ribelli e ribellioni fu piena, per un intreccio di ragioni: economiche, come quelle dei segadors catalani e dei lazzaroni napoletani, politiche, come quelle dei nobili frondisti francesi, e religiose, come quelle dei puritani inglesi; gli obiettivi erano i re, i nobili, gli alti prelati, i ricchi borghesi, insomma quell’insieme di ceti che formarono il cosiddetto ancien regime: una società dominata dall’assolutismo monarchico e dal controriformismo religioso, profondamente ingiusta, socialmente irrigidita, politicamente autoritaria e repressiva, intellettualmente irreggimentata. Perciò fu un’epoca caratterizzata dalla precarietà esistenziale e dalla coercizione spirituale: la libertà espressiva del Rinascimento era ormai soffocata dalla sorveglianza politica e dalla censura ecclesiastica, perciò gli intellettuali dovevano esser prudenti, se non volevano fare la fine di Giordano Bruno. Meglio la servitù cortigiana, definita da Montaigne una «obbedienza disincantata» e da Marino perfino dichiarata piuttosto un valore, che un rischioso dissenso.

L’ipocrisia fu un comportamento diffuso, aspetto non secondario di quel machiavellismo tanto condannato in teoria quanto praticato nei fatti, come astuzia del principe che si deve far «golpe» oltre che leone o come «prudenza» in chi col principe deve avere a che fare (perciò Galileo trovò prudente, nel prologo del Dialogo sopra i due massimi sistemi, dichiarare che l’interdetto ecclesiale della teoria copernicana fosse un «salutifero editto»); dunque fu anche un tema ricorrente nella filosofia e nella letteratura barocca, trattato da scrittori cattolici e protestanti, filosofi come Bacone e politici come Grozio, in varie opere come i Saggi di Montaigne («la dissimulazione è tra le più naturali qualità di questo secolo») o L’oracolo manuale e arte di prudenza di Baltasar Gracian ( la regola 77 ad esempio: «I difetti non si avvertono soltanto in chi si fa notare poco») o le Lettere di Paolo Sarpi («Io porto una maschera, perché senza di essa nessuno può vivere sicuro in Italia»). Ovunque si manifesta questa drammatica dissociazione tra l’ideale e il reale che incarnava lo spirito del tempo; perciò si può ben definire il ’600 – come ha fatto lo storico Rosario Villari – il gran secolo della dissimulazione.

Ma soltanto nell’opera del poeta Torquato Accetto questa dissociazione, dopo le molte osservazioni sparse in opere filosofiche, teologiche e politiche nonché in quelle che trattavano della figura del cortigiano, trovò una esemplare e compiuta espressione.

Di lui si sa ben poco: forse nacque tra il 1587 e il 1590 a Trani o ad Andria e morì a Napoli nel 1640, fu un accademico degli Oziosi (insieme ai più noti Basile, Della Porta e Campanella) nonché un non eccelso poeta, epigone petrarchesco di fama aleatoria. Nel 1641 fu pubblicato e tosto dimenticato un suo breve trattato intitolato Della dissimulazione onesta. Trattato che fu incidentalmente riscoperto da Benedetto Croce all’inizio del ’900 e da lui giudicato opera esemplare della letteratura etica del Barocco italiano. Opinione appropriata, perché quest’operetta esprime perfettamente quello che a noi oggi pare appunto un barocco paradosso, un salto mortale etico, ma allora giustificava una opportuna e discreta condotta morale: trasformare l’ipocrisia in virtù. Croce la definiva «meditazione di un’anima, piena della luce e dell’amore del vero, che da questa luce e da quest’amore trae il proposito (proposito morale) della cautela e della dissimulazione», ma pare un giudizio piuttosto indulgente, in cui appare nobile ciò che invece è ignobile. Comunque si tratta proprio di un’anima rattrappita, malinconica, impaurita, intenta a difendere la propria intimità dai pericoli provenienti dal mondo e dagli uomini. Tant’è che nel presentarsi al lettore Accetto subito dichiara che «lo scriver della dissimulazione ha ricercato ch’io dissimulassi»: certamente lo ha fatto ma il palesarlo sembra la prova di una avvilita ironia, oltre che il suggerimento di una cifra interpretativa, l’avvertimento al lettore che dovrà trovare nel testo le ellissi e le allusioni che vi sono disseminate. Le prime si presentano subito, nel II capitolo, con la citazione evangelica estote prudentes sicut serpentes, et simplices sicut columbae, poiché intende addolcire il veleno dell’uno, la prudenza, che tuttavia serve a proteggere il candore, la verità, della colomba; ma se si leggesse tutto il versetto di Matteo scopriremmo un bestiario più ampio e un altro senso, inquietante, della citazione: «Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe. Ma guardatevi dagli uomini, perché vi trascineranno davanti ai loro sinedri e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe. E sarete condotti davanti ai governatori e davanti ai re, per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai gentili».

Altre allusioni si trovano nel testo e altri emblemi iconici, come il cuore, che è dimora della verità e dunque nell’età dell’oro, età – come afferma Tibullo – di lealtà e rettitudine, stava «quasi fuor de’ petti»: così scrive Accetto nel II capitolo, nella prima parte del trattato, in cui elogia appunto la verità; ma ovviamente, in quell’età dove tacerla è preferibile, «gran diligenza ha posto la natura per nascondere il cuore, in potere del quale è collocata, non solo la vita, ma la tranquillità del vivere», perché «può ogni uomo, ancorch’é esposto alla vista di tutti, nasconder i suoi affari nella vasta ed insieme segreta casa del suo cuore». Queste sono parole del XXI capitolo, quando l’esposizione dei caratteri e dei modi della dissimulazione si va concludendo e quindi se ne conclude anche la vicenda umana, perché «se per questa vita in un giorno solo non bisognerà la dissimulazione, nell’altra non occorre mai»; cosicché nel XXII è ricordata la dissimulazione onesta di Giobbe di fronte a Dio, e nel XXIII che nel giorno del giudizio non servirà più, quando «sarà forza alla dissimulazione di fuggirsene del tutto, quando la verità stessa aprirà le finestre del cielo e, con la spada accesa, troncherà il filo d’ogni vano pensiero».

Che cosa specificamente sia la dissimulazione è dichiarato nell’VIII capitolo: «la dissimulazione è un’industria di non far vedere le cose come sono». Non è »l’importuna nebbia della menzogna» né «l’ombra della finzione», bensì un «velo composto di tenebre oneste», cosicché «non si forma il falso, ma si dà qualche riposo al vero»; la questione è in primo luogo, ovviamente, gnoseologica: si tratta della discriminazione tra verità e falsità e di sottrarre la dissimulazione alla dimensione della falsità, perché «si simula quello che non è, si dissimula quello che è»; quindi è piuttosto un saggio modo per affermare e tutelare la verità, prudentemente riponendola nello spazio intangibile del silenzio. A questa necessaria premessa – che come si vedrà si basa su un’argomentazione piuttosto controversa – Accetto fa seguire una fenomenologia della dissimulazione, trattando dell’opportunità e perfino del piacere di dissimulare, dei tipi umani naturalmente disposti a tal comportamento e di quelli indisposti (i melanconici e gli irascibili, ad esempio, come Giordano Bruno), di come esercitarsi a svilupparlo e con chi, ecc. Cosicché si legge che il dissimulatore è addirittura una sorta di campione di umanità, poiché «è amator di pace chi dissimula con l’onesto fine che dico, tollerando, tacendo, aspettando», e di cristiana pietà, come dimostrano i figli di Noè che finsero di non vederne l’ebbra nudità e Giuseppe che «dissimulò d’esser fratello, per dimostrarsi più che fratello».

Ma soprattutto Accetto dichiara che dissimulare è lecito «all’incontro dell’ingiusta potenzia», ovvero quando s’ha a che fare coi tiranni; perché «non è permesso di sospirare, quando il tiranno non lascia respirare, e non è lecito di mostrarsi pallido, mentre il ferro va facendo vermiglia la terra con sangue innocente, e si niegano le lacrime che dalla benignità della natura son date a’ miseri»; di quegli «orrendi mostri» che sono i potenti «si ammira, come grandezza degli uomini di alto stato, lo starsi ne’ termini de’ palagi, ed ivi nelle camere segrete, cinte di ferro e di uomini a guardia delle loro persone e de’ loro interessi; e nondimeno è chiaro che, senza tanta spesa, può ogni uomo, ancorch’esposto alla vista di tutti, nascondere i suoi affari nella vasta ed insieme segreta casa del suo cuore». Si torna quindi, in conclusione, alla contingenza storica del «secolo di ferro» che è il XVII, alla necessità dell’uomo secentesco, del cortigiano ridotto a funzionario del principe, di mimetizzarsi , di adattarsi all’arbitrio del potere, sia esso politico o religioso, per sopravvivere. Perciò potremmo definire la dissimulazione – così come ci è proposta da Accetto – una forma della capacità di fronteggiare avvedutamente le avversità senza farsene travolgere e di affrontare comunque positivamente la vita, riparandola dall’inevitabile dolore e sopportandone la labilità ma guidandola con prudente saggezza.

Dunque Accetto, per chiudere il capitolo XXI, coerentemente sceglie i versi del secondo libro del De rerum natura di Lucrezio (che seguono l’affascinante incipit Suave, mari magno turbantis aequora ventis e terra magnum alterius spectare laborem):

sed nihil dulcius est, bene quam munita tenere
edita doctrina sapientum templa serena,
despicere unde queas alios passimque videre
errare atque viam palantis quaerere vitae

Tradotto: «Ma nulla è più dolce che tenere saldamente gli alti spazi sereni, fortificati dalla dottrina dei sapienti, da dove tu puoi stare a guardare dall’alto gli altri, e osservarli errare qua e là e cercare smarriti la via della vita»; che è la rappresentazione più dignitosa della condizione di quieto e nobile distacco dal «gran teatro del mondo, nel quale si rappresentano ogni dì comedie e tragedie» che la dissimulazione onesta consente all’uomo di spirito eccelso.

Perché infine uno dei due elementi più significativi dell’opera è proprio la configurazione psicologica del dissimulatore (d’altronde sosteneva Hauser che la vera origine dell’analisi psicologica è da ricercarsi nelle corti e nei salotti secenteschi), che ricorre alla nitidezza della geometria: «Dal centro del petto son tirate le linee della dissimulazione alla circonferenza di quelli che ci stanno intorno»; dunque è proprio nel cuore, dimora della verità e della rettitudine da tutelare, che si incentra la solitaria attitudine al silenzio, si traccia la frontiera con la reprimente e deprimente realtà sociale, si progetta la trasformazione dell’esistenza in desistenza, si secerne il piacere del proprio ingegno vittorioso sulla malevolenza della vita e sulla «turba degli sciocchi». Sennonché per far ciò il dissimulatore deve dissimulare anche con se stesso, costringendosi all’autoinganno: perché quel sublime e drastico ritrarsi nella propria intimità non è un processo semplice, richiede una profonda consapevolezza di sé e delle cause che ingiungono a quella scelta, cosicché «conviene che in qualche giorno colui ch’è misero si scordi della sua disavventura, e cerchi di vivere con qualche imagine almeno di sodisfazzione, sì che sempre non abbia presente l’oggetto delle sue miserie»; occorre insomma «tralasciare la memoria del proprio male», «sarà come un sonno de’ pensieri stanchi», «pigliare una certa ricreazione passeggiando fuor di se stesso». Ecco che allora quel ritratto ideale di chi ha scelto per salvarsi l’anima disprezzando quelle altrui, s’immiserisce rifluendo nella banalità e meschinità della grama esistenza.

L’altro elemento significativo è l’elevazione della dissimulazione a principio universale. Infatti, benché essa sia l’espressione di un disagio specifico dell’intellettuale nella società controriformistica, quindi effetto di un modo di vivere, di una contingenza storica, Accetto la trasforma in una struttura esistenziale, in una necessaria esigenza della vita dell’umanità, che si manifesta sin dalla sua origine, «da che il primo uomo aperse gli occhi, e conobbe ch’era ignudo», desiderando perciò di celarsi allo sguardo divino, e si concluderà con la sua fine, nel giorno del Giudizio Universale, quando dissimulare non sarà più possibile né necessario, perché «Sarà forz’alla dissimulazione di fuggirsene in tutto, quando la verità stessa aprirà le porte del cielo e, con la spada accesa, troncherà il filo d’ogni vano pensiero». D’altronde in questa prospettiva perfino la natura è pietosamente dissimulatrice, poiché ad esempio la bellezza mortale non è che il velo che nasconde un cadavere dissimulato, e Dio stesso, come afferma la Bibbia, che Accetto cita, est dissimulans peccata hominum, ovvero finge di non vedere i peccati degli uomini, è un dissimulatore.

Sebbene possa apparire come un sospetto tentativo di nobilitare l’ignobile, di giustificare l’ignavia cortigiana dell’epoca tramutandola in condizione perenne e ineluttabile del vivere, questa inferenza che deduce dalla contingenza storica una metafisica esistenziale è forse l’aspetto più intrigante dell’opera, perché esige di esaminare la relazione che instaura tra il vero, il falso e la dissimulazione. Accetto è infatti ben consapevole di percorrere un sentiero infido, in cui è facile incorrere nel rischio di scivolare nell’inganno, dove la dissimulazione «onesta» non può essere; dunque ha bisogno di stabilirne la prossimità con la verità e l’incompatibiltà con la menzogna. Per farlo, svolge un ragionamento che, muovendo dalle Idee platoniche e traversando la distinzione tra la verità divina eterna ed immutabile e quella umana contingente e variabile, giunge a trattare della verità morale, che nel tempo mitico dell’età dell’oro era sinceramente detta e praticata, siccome non c’era la moderna scissione tra la natura e la vita, il sentire e l’agire; un ragionamento più retorico che logico, piuttosto inconcludente, poiché il salto dalla verità ontologica a quella morale lo lascia sfilacciato, come una strada percorsa invano. Difatti nel III capitolo, quello che segue a tale vago argomentare utile solo a postulare una originaria ma perduta libertà del dire veritiero, il discorso, quasi dimentico delle sue premesse, riprende nuovamente e diversamente, con una similitudine che sembra essere la chiave dell’interpretazione dell’opera: «Non tanto la natura – egli scrive – fugge il vacuo, quanto il costume dee fuggir il falso, ch’è il vacuo della favella e del pensiero»; il riferimento è alla teoria aristotelica dell’horror vacui (espressione peraltro sovente usata come cifra stilistica dell’arte barocca), cioè alla credenza che nell’universo il vuoto non possa esistere; tuttavia esiste quello che i filosofi definiscono il vacuum improprium (una sorta di vuoto apparente oltre le sfere celesti); quindi come tra il vuoto e il pieno c’è il vacuum improprium così tra il falso e il vero c’è «un certo spazio da chiamarsi equivoco, non già inteso come semplice falso». Dunque nella partizione tra menzogna e verità Accetto insinua una sorta di zona franca logica e, soprattutto, etica, dove situare la dissimulazione, che gli consente di sottrarsi ai vincoli di quel campo antinomico; tuttavia deve ammettere che si tratta di uno spazio equivoco, rischiosamente e vischiosamente prossimo a ciò da cui vorrebbe «onestamente» distinguersi. Perciò è conseguentemente costretto ad una rivelatrice omissione, dichiarata nel IV capitolo, che merita di essere riportato per intero:

Io tratterei pur della simulazione, e spiegherei appieno l’arte del fingere in cose che per necessità par che la ricerchino; ma tanto è di mal nome che stimo maggior necessità il farne a meno; e benché molti dicano: Qui nescit fingere nescit vivere, anche da molti altri si afferma che sia meglio morire, che vivere con questa condizione. In breve corsi di giorni o d’ore o di momenti, com’è la vita mortale, non so perché la medesima vita si abbia a più distruggere se stessa, aggiungendo il falso delle operazioni dove l’essere quasi non è: poiché la vera essenzia, come disse Platone, è delle cose che non han corpo, chiamando imaginaria l’essenzia di ciò che’è corporeo. Basterà dunque il discorrer della dissimulazione, in modo che sia appresa nel suo sincero significato, non essendo altro il dissimulare che un velo composto di tenebre oneste e di rispetti violenti: da che non si forma il falso, ma si dà qualche riposo al vero, per dimostrarlo a tempo; e come la natura ha voluto che nell’ordine dell’universo sia il giorno e la notte, così convien che nel giro delle opere umana sia la luce e l’ombra, dico il proceder manifesto e nascosto, conforme al corso della ragione, ch’è regola della vita e degli accidenti che in quella occorrono.

Pare proprio che qui Accetto stia dissimulando: facendo precedere l’omissione dalla ambigua dichiarazione della possibilità («io tratterei…ma…»), giustificandola col giudizio negativo che l’accompagna, proprio di chi rifiuta d’adattarsi alla condotta suggerita dal motto «chi non sa fingere non sa vivere» e perciò preferisce piuttosto morire (come Bruno), egli dichiara di voler tacere, di non trattare appunto dell’arte del fingere, con cui infine la dissimulazione, non ha a che fare, poiché non è falsità bensì «riposo» della verità. Tuttavia è evidente che con questo suo argomentare un po’ tortuoso, in cui addirittura evoca l’antica distinzione tra Aletheia e doxa e par alludere all’inutilità di impegnare la vita per una realtà platonicamente ingannevole, ridotta ad essenze immaginarie, egli rinuncia ad esplorare veramente l’equivocità dello spazio che ha evocato, che appunto è lo spazio della finzione, per il timore di contaminare la sua onesta dissimulazione. Che tanto onesta, forse, non è.

È opportuno qui ricordare quella parresia su cui ha riflettuto Michel Foucault, che è l’espressione di una dimensione etica della verità e della vita: parresiastes è colui che si impegna a dire la verità, poiché ne avverte il dovere. Siccome enunciare la verità comporta l’accettazione del rischio, il pericolo che chi l’ascolta se ne risenta, specialmente se è un uomo o una istituzione potente, la parresia è sempre e comunque l’espressione di una forza morale, la rappresentazione di un impegno etico che contribuisce a formare una personalità nel suo rapporto col mondo.

Accetto invece ha la pretesa di trasformare un’accorta strategia di sopravvivenza atta a salvaguardarsi la vita in una prassi etica, un modo per salvarsi pure l’anima (e infine se s’è fatta l’esperienza della stupidità, dell’insipienza e della prepotenza sociale si potrebbe perfino trovarlo comodo per sfuggirvi). Non può essere così: affiancare al parresiaste, che impegna se stesso per esprimersi con sincerità e disprezzo del pericolo. un dissimulatore è un espediente, un inganno, anzi: un autoinganno, che la psicoanalisi definirebbe come una razionalizzazione, cioè una giustificazione ex post.

Quello che sfugge al giudizio di Accetto (ma forse non gli sfugge affatto perché appunto lo dissimula) è che non affermare la verità non basta a conservarla o a tutelarla, perché verità e falsità sono complementari , per cui se l’una viene velata o taciuta l’altra persiste inconfutata. Prendiamo Bruno e Galilei: si racconta che Galileo, dopo aver abiurato, sollevandosi dalla posizione genuflessa a cui era costretto, abbia battuto il piede per terra sommessamente esclamando: «Eppur si muove»; probabilmente è una leggenda, ma è una leggenda significativa, poiché reca in sé implicitamente l’idea che una negazione non può essere una confutazione. Accanto alla questione etica ce n’è dunque una epistemologica: Galileo può abiurare proprio perché pensa che la sua opportuna ipocrisia non scalfisca le sue teorie, smentibili solo dai fatti (o da teorie alternative), siccome è il metodo – come sosteneva allora Cartesio – che produce la certezza della verità, non la moralità di chi la sostiene, perciò può permettersi di essere amorale; infatti Foucault termina la sua analisi della parresia proprio nel momento in cui, con Cartesio, si rompe il legame parresiatico tra certezza e verità, che diventa problematico. È di questa problematicità che è vittima Bruno: poiché la sua filosofia, che non è scienza, non può dare certezza, è dunque costretto a testimoniare con il sacrificio della vita il valore delle proprie idee. Deve appunto scegliere il rischio e lo scacco della parresia, il martyrium, che appunto, nella teologia paleocristiana, è la testimonianza il cui valore e la cui validità consistono nella scelta del sacrificio della vita.

Scrivi un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.