Jeffrey Lee Pierce: dal pensiero meridiano allo spleen nichilista

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Non c’è niente di irreale come la vita
(Jeffrey Lee Pierce)

 

 

Una rigorosa ermeneutica filosofica deve coerentemente risolvere in nuce una questione preliminare che attiene al significato che intendiamo dare al termine “filosofia”, fenomeno greco ed europeo, che nel corso dei secoli ha avuto diverse attribuzioni ed è stato declinato in modo sempre diverso. Ci piace considerare la filosofia nell’accezione propria che davano i greci, come paidéia, abbracciando cultura, educazione, etica e tutte le espressioni della società. Volendo però assecondare i puristi, diremo con Pascal che “prendersi gioco della filosofia è fare davvero filosofia” o, in altre parole, una vera filosofia non può che essere “antifilosofia”. Qualche tempo fa, Giulio Giorello ne La filosofia di Topolino, ha provato a dimostrare , per un verso, che anche un fumetto può appartenere alla gaia scienza e, per altro verso, che il topo che pensa è il profilo perfetto del filosofo, proprio per la sua capacità di scardinare i processi consolidati e le costellazioni delle certezze stabilite.

Era necessaria questa premessa affinché nessuno tra i lettori potesse storcere il naso nel trovare una monografia di una star del rock’n’roll in una rivista come Sitosophia . Cercherò di dimostrare nelle righe che seguiranno come Jeffrey Lee Pierce sia l’incarnazione del perfetto filosofo nella misura in cui diventa iconoclasta di se stesso distruggendo tutto quello che aveva creato. Occorrerà però partire dall’inizio.

Probabilmente la foto che meglio esprime icasticamente la personalità di Jeffrey Lee Pierce, è quella che campeggia nella copertina di uno dei suoi album da solista, Wildween (1985), che raffigura l’artista con un fucile a pompa sulle spalle su una landa desolata che richiama il Texas, con l’immancabile pastrano e cappello nero; i suoi amici dicevano che sembrava un predicatore del sud conciato come un becchino. Jeffrey Lee Pierce, fondatore del gruppo punk-blues dei The Gun Club, (Circolo delle pistole, in linea con il suo pensiero meridiano) songwriter praticamente di tutti i pezzi del gruppo losangeliano, ha raccontato il disagio e l’alienazione, con un linguaggio cupo e diretto, una trasposizione in testi e musica di Bukowski, Kerouac e Carver e di ogni altro che abbia fatto a pezzi il sogno americano raccontando la wrong side: «È una brutta America, sotto il cielo occidentale» (Bad America). E quando alla fine degli anni Ottanta Reagan veniva rieletto per il suo secondo mandato, Jeffrey fece armi e bagagli per trasferirsi in Europa perché il clima bigotto e conservatore che si respirava era divenuto troppo asfissiante per lui. Tra le rockstar è da annoverare tra gli inquieti e le anime nere, o come direbbe Stefano Gilardino , tra “i perdenti di successo”, tra Jim Morrison e Lou Reed passando da Nick Cave e Tom Waits fino ad arrivare a Ian Curtis e Kurt Cobain. Non ci sarà da sorprendersi che Lee Pierce abbia trovato nel blues, musica del sud, l’espressione a lui più congeniale come artista, che anche etimologicamente rimanda al sentirsi triste, all’essere ebbri con stati di tipo allucinatorio. La combinazione con il rock’n’roll che nei primi anni Ottanta del secolo scorso era eminentemente espresso dal punk, trasgressivo ed energetico, è una miscela perfetta, quantunque negli ultimi lavori, la parte rappresentata dalla black music, prenderà il sopravvento rispetto ai pezzi più incendiari dei primi album. Il suono comunque risulta sempre “contaminato”; non è mai facile nei The Gun Club come in Jeffrey Lee Pierce solista, tracciare confini rigidi tra generi musicali se non attraverso termini quanto mai approssimativi come psychobilly, cowpunk o vodoo rock ma nella loro musica, oltre all’onnipresente blues, trova ampio il country, fuso splendidamente con il rock’n’roll (Black train, Ghost on the highway, Bill Bailey, Mother of Earth) ma si trovano anche tracce di soul (Cry to me), funky (Sorrow knows, Up above the world), free jazz (Flamingo), hard rock (Black hole), o malinconiche ballate pop (Idiot waltz, Lucky Jim, Breaking hands) che in From tempation to You sembrano cantate da Lou Reed o Bob Dylan su melodie brucespringsteeniane. Sono però i testi che in Lee Pierce svelano un lessico ferale e malinconico e a tratti lugubre (My man’s gone now), dove ad abbondare sono parole come dark, blood, blue, death, sorrow, fall, shadow, scream, fire, devil, e dove si raccontano storie truci di omicidi, di sesso, di alcol, di droga (l’amore e il sesso si confondono fino a rappresentare un unicum nella citata She’s like heroin to me), di solitudini infinite («Sono sceso giù al fiume della tristezza, sono sceso lungo il fiume del dolore e ho sentito chiamarmi per nome», Mother of Earth) di stoiche rassegnazioni («Doveva essere così, dolore nella notte più buia, nel giorno più buio contro il sole», Sorrow knows), di estraniamento («Stasera sono fuori in strada, senza più un sogno, sono quello degradato, tutta la vita è sbiadita», House is not a home). C’è poi un lato oscuro in Jeffrey Lee Pierce che trova espressione in molte canzoni («Nel silenzio della notte cammino con la bestia», Walkin’ with the beast) dove si evocano riti sciamanici che lo trasformano in lupo (l’ululato di Texas Serenade), in coyote (Devil in the Woods) o in stregone che invoca Shango, divinità del fuoco e del tuono nei riti vodoo e della santerìa (Like Calling Up Thunder) o in Uomo-Cocomero (Watermelon Man) ma che più che altrove si materializza nell’ep Death party (1983), opera dark meravigliosamente claustrofobica dove c’è un alchimia poderosa tra amore e riti di morte,il grido spesso sostituisce il canto e le chitarre richiamano i migliori Stooges e la voce sembra quella di Jim Morrison. Talvolta i testi raccontano sono storie polverose della tradizione folk-country (John Hardy, storia cantata già Johnny Cash e Bob Dylan, di un fuorilegge impiccato nel 1893 e convertitosi prima di morire o la già evocata Black train, storia di fuga in treno dopo un assassinio) e di pellerossa (Bad indian). L’attrazione meridiana di Pierce d’altronde è una passione antica, laddove da giovanissimo compie un viaggio in Giamaica e scopre un mondo arcaico che insieme al suo inveterato amore per il Delta Blues e per Robert Johnson (non a caso genio sregolato) faranno da volano per fargli scoprire la chitarra che esalterà solo verso fine carriera. Sarà poi la volta di New York, Santo Graal della musica, dove fa a cazzotti e viene rinchiuso per un breve periodo in un ospedale psichiatrico. Ed ancora il suo peregrinare lo porterà a Sant’Antonio in Texas e ovviamente a New Orleans, il sud più profondo e patria di jazz e blues. Si farà picchiare anche lì. Quella dei pugni diverrà una sorta di ossessione: per un certo periodo prenderà anche lezioni di boxe. Andrà anche a Miami dove sosterrà di aver appreso il vodoo da alcuni haitiani. Già nel 1979, ventenne, scrive per Slash, una fanzine punk di Los Angeles e i suoi interessi ruotano attorno al blues e al rockabilly; per un certo periodo suona con i Cyclones che fanno proprio rockabilly, genere ibrido di incontro tra white e black music. E, non casualmente, una delle prime cover dei The Gun Club sarà quella Tombstone blues, canzone antimilitarista di Bob Dylan e nel loro primo funambolico primo album, Fire of Love (1981) sono presenti classici del blues come Preacing the blues di Robert Johnson, rivisitata in versione punk’n’roll e Cool drink of water di Tommy Johnson. Un anno più tardi, in Miami (1982), altro capolavoro targato The Gun Club, tra le tracce troverà spazio Run through the jungle dei Creedence Clearwater Revival, tra i primissimi gruppi che alla fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, in piena psichedelia, si orientarono verso suoni che miscelavano country, blues e rock’n’roll e che furono tra gli esponenti di punta del Southern rock che non poteva che affascinare Jeffrey Lee Pierce. Ed ancora in Pastoral hide and seek, album del 1990, ci sarà un tributo anche ai Jefferson Airplane con la bellisima Eskimo blue day.

Curioso, tipico delle molte contraddizioni del personaggio, che Jeffrey, così patito per la musica nera, si lasci affascinare, sempre nel periodo in cui era redattore di Slash, dalla biondissima Deborah Harry dei Blondie, mainstream del punk newyorchese, ben presto usciti dai circuiti underground e destinati a scalare le classifiche con pezzi easy-pop come Call me o Heart of glass. Quella con la Harry fu però una delle poche amicizie profonde e proficue di Jeffrey; la ritroviamo tra i cori di Miami e a lei è dedicato l’album The Las Vegas Story (1984). E attraverso Debbie, Jeffrey arriva al compagno, Chris Stein che aveva fondato una casa discografica, la Animal (con la quale Iggy Pop inciderà Zombie Birdhouse) e che sarà il produttore di Miami. Ma in generale, il rapporto che Jeffrey Lee Pierce avrà con le donne sarà tanto folgorante quanto burrascoso. Un’altra figura che irrompe artisticamente nella vita di Jeffrey è la bizzarra Poison Ivy dei Cramps, che passando per Los Angeles entrano nel circuito dei Gun Club con il loro rockabilly dalle tinte horror e molto scenografiche; i Cramps che avevano qualche problema con il loro chitarrista, prenderanno in prestito Kid Congo Powers, al secolo Brian Tristan già presidente del Ramones fan club sempre a Los Angeles, che con Jeffrey Lee Pierce aveva formato i The Creeping Ritual ben presto divenuti The Gun Club. Per Poison Ivy, Jeffrey scriverà l’esplosiva For the love of Ivy, inserita nel loro primo album Fire of love dove dice «Sei Elvis tornato dall’inferno» e qualcuno ha giustamente sottolineato come sembrava parlasse di se stesso. Ancora donne saranno le bassiste che succederanno a Rob Ritter dopo i primi due album; in primis l’affascinante Patricia Morrison (la futura moglie di Dave Vanian, frontman dei Damned) che con il leader dei Gun avrà un ottimo rapporto. Un episodio rivelatore: alla vigilia del tour in Australia (1983) i The Gun Club litigano furiosamente in aeroporto e il batterista e il chitarrista rifiutano di imbarcarsi. La Morrison sarà l’unica a seguire Jeffrey. In Australia il gruppo che doveva fare da spalla ai Gun Club, The Johnny’s, viene arruolato in tutta fretta per sostituire gli ammutinati. A tergo sarà interessante sottolineare che i The Gun Club nella terra dei canguri avranno un successo straordinario, nasceranno diverse band che riprenderanno il loro sound punk/blues (una addirittura, Jack of fire, prende il nome da una loro canzone). Ma a causa delle continue intemperanze di Jeffrey anche Patricia Morrison abbandonerà i The Gun Club. Al basso Jeffrey vorrà ancora una donna, la giapponese Romi Mori, della quale si innamora perdutamente . Anche con lei il rapporto sarà tumultuoso condizionato dalla crescente dipendenza di Lee Pierce riguardo a ogni tipo di droga e alcol che lo accompagneranno per tutta la sua tormentata esistenza. Anche con Romi finirà malissimo, per di più lei sparirà con il batterista inglese dei Gun, Nick Sanderson. Jeffrey perderà ancora la testa per un’altra giapponese, la fotografa Kayo Hosaka ma ormai è un uomo sempre più intrattabile e in preda ai suoi demoni. C’è un’altra donna che probabilmente gli rimarrà fedele tutta la vita, la sorella Jacqui di cui si parlerà.

La disaffezione verso i suoi States, porteranno Jeffrey in Europa. Gli umori altalenanti di Jeffrey si fanno sentire sulla band che dovrà optare per la pubblicazione di almeno due lavori in studio per label europee perché sembra che alle case discografiche americane i The Gun Club non interessino più. La fase meridiana di Jeffrey cede il passo ad una fase introspettiva che lo porta con Cypress Groove e Willy Love a incidere Ramblin (1992), interamente blues, nuova licenza da solista.

Da qualche tempo la vita di Jeffrey Lee Pierce si è fatta difficile e lui comincia a essere sempre più in blue, e si incupisce. L’impressione è che non ci sia più Jeffrey Lee Pierce & The Gun Club, ma ci sia The Gun Club attorno a Jeffrey, alle sue paure. Paradossalmente è il periodo in cui Jeffrey si dedica, quasi terapeuticamente, alla chitarra e scrive molto raccontandosi. È stato detto che è il suo periodo migliore come scrittore. Black hole ben esprime il climax nichilista di Jeffrey («Le stelle si dissolvono sopra, buco nero, le dita mi stringono la testa, buco nero, in un vuoto di compiacenza»). Ben presto viene ricoverato in Estremo Oriente per tentare di disintossicarsi dalle droghe ma senza successo. L’ultima reunion dei The Gun Club sarà Lucky Jim (1993) senza il chitarrista/fondatore Kid Congo Powers sostituito da Tony Melik, e con l’arrivo anche dell’organo nel sound. Una sorta di testamento musicale, Lucky Jim è un album malinconico dal suono compassato, pulito e quasi ostentato dove si trova un vero e propria mélange di tutta la produzione jeffreyniana: il blues ormai prevalente ma anche qualche suggestione hendrixiana (Ride) e note autobiografiche del leader sempre più compresso nel suo cupio dissolvi: «Ho comprato il mio biglietto per l’inferno, laggiù sotto il mondo» (Up above the world); «Ho appena attraversato la mia vita, con la mia rabbia blues» (Anger blues); «Guardaci cadere, era sciocco essere vivi, è stato sciocco in un tempo folle» (Idiot waltz). È l’ultimo atto. I The Gun Club sono finiti, Jeffrey è sempre più in preda ad alcol e droga. Come una Cassandra ritornano le parole di The house on higland Ave: «Non c’è più fuoco nei tuoi occhi di vetro, nessuna sensazione quando sei fatto, un giorno ti accorgerai, di che razza di mostro sei diventato». E, quasi fuori tempo massimo, in molti cominciano a interessarsi a lui, tra gli altri Mark Lanegan, voce degli Screaming Trees, ispiratori del grunge e Henry Rollins, già leader dei Black Flag, uno dei più importanti gruppi dell’hardcore punk degli anni Ottanta che fonderà una casa editrice, la 2 13 61, che pubblicherà l’autobiografia postuma di Jeffrey. Ma questi sembra non disposto a fare da icona e sparisce tra Europa e Asia. Sono pochi gli amici che gli stanno vicino tra cui quel Nick Cave a cui Jeffrey aveva dedicato Bill Baley che apriva Mother Juno (1987), negli anni d’oro dei The Gun Club; lo si vede ancora in diverse date del tour dei Black Seeds in Europa. Poi decide di ritornare a Los Angeles (sembrano risuonare le parole di Carry home: «Sono tornato, attraverso così tante autostrade e così tante lacrime») dove incontra il suo vecchio amico Kid Congo e insieme si esibiscono al Viper di Johnny Depp suonando i pezzi dei The Gun Club; qualcuno pare propone loro un tour ma quella sarà l’ultima apparizione di Jeffrey in pubblico intenzionato a ritirarsi da sua madre per scrivere le sue memorie che diventeranno Go tell the mountains; parole piene di risentimento contro tutti di un uomo ormai solo e squattrinato. La salute comincia inesorabilmente a peggiorare, droga e alcol lo hanno devastato, ha il fegato distrutto dall’epatite, è sieropositivo. Mentre si trova in visita a suo padre a Salt Like City, nello Utah, viene colto da una fatale emorragia cerebrale. È il 31 marzo 1996. A soli 37 anni se ne va uno degli artisti più creativi e sottovalutati della storia del rock che avuto il coraggio di parlare di blues, ritenuta roba vecchia ed anacronistica in un’epoca in cui nella West Coast imperavano nuovi generi e tendenze; Jeffrey allora pensò bene di “inventare” il punk/blues. Dopo la sua morte Cypress Grove, con cui Jeffrey aveva collaborato in Ramblin’, trova una cassetta di inediti e decide di chiedere la collaborazione di alcuni artisti dando vita al The Jeffrey Lee Pierce Sessions Project, un progetto in memoria del leader dei Gun Club grazie al quale sono stati realizzati tre album a cui hanno collaborato personaggi del calibro di Deborah Harry/Blondie che più volte ha cantato brani dell’amico scomparso (memorabile la versione acustica di “Mother of Earth” al CBGB nel 2006) e che nel 1999 nell’album No exit, dedica a Jeffrey il brano Under the gun, ed ancora Kid Congo Powers, Mark Lanegan, Nick Cave (che insieme a Iggy Pop e Thurston Moore canta Nobody’s city inserita da The Gun Club in Mother Juno del 1987), Lydia Lunch. I proventi del primo lavoro collettivo We are only riders (2010) sono andati ad Amnesty International. Quelli del secondo, The Journey is long (2012), sono invece stati devoluti alla Jeffrey Lee Pierce Foundation, voluta dalla sorella Jacqui Pierce, che li ha destinati all’acquisto di strumenti musicali a ragazzi indigenti di Los Angeles, assecondando un desiderio del fratello. Quella stessa sorella che nel decennale della morte con il marito ha portato a Kyoto, in Giappone, le ceneri di Jeffrey Lee Pierce, da sempre innamorato del paese nipponico. Il terzo lavoro della Jeffrey Lee Pierce Sessions Project, è Axels & sockets, uscito nel 2014, ha tra le sue pietre miliari una versione di Nobody’s city (inserita da The Gun Club in Mother Juno del 1987), cantata da Nick Cave con Iggy Pop e Thurston Moore.

Il Circolo delle Pistole lascia un’eredità immensa alla musica: a loro devono molto gruppi come Gallon Drunk, Oblivians, Sixteen Horsepower o White Stripes solo per fare qualche nome. I tributi verso The Gun Club, oltre il JPL Sessions Project, non si contano più: Mick Harvey dei Bad Seeds e Rowland S. Howard già The Birthay party hanno riproposto i loro pezzi e persino un gruppo italiano, i Circo Fantasma, una band innamorata del rock ibrido statunitense, ha scritto un intero album intitolato I knew Jeffrey Lee (2006) dove rileggono diversi brani indimenticabili dei The Gun Club (da segnalare in particolare la versione di Bad America cantata con Manuel Agnelli degli Afterhours) tra le quali My dreams, She’s like heroin to me, Sex beat. L’eredità di Jeffrey Lee Pierce, non compensa il vuoto lasciato dalla sua dipartita. Un uomo che ha cercato, come prima di lui Jim Morrison e Janis Joplin, di trovare nella musica e nella scrittura la sublimazione dei suoi tormenti interiori senza riuscirci. Sarebbe stato oltremodo bello se Leopardi avesse scritto i suoi immortali sonetti senza essere nutrito dalla sua infelicità; o forse non sarebbe stata la stessa cosa. Pur con la nostra venerazione verso tutta l’epopea The Gun Club, avremmo preferito Jeffrey Lee Pierce vivo e felice, sebbene artista mediocre, nonostante tutto.

 

***

 

DISCOGRAFIA (con valutazione mia dei lavori in studio)

THE GUN CLUB

Fire Of Love (Slash Records, 1981) ******
Miami (Animal, 1982) *****
Death Party (Ep, Animal, 1983) *****
The Birth, The Death, The Ghost (live, ABC, 1983)
Las Vegas Story (Animal, 1984) ****
Two Sides Of The Beasts (antologia, Dojo, 1985)
Dense Kalinda Boom: Live In Pandora’s Box (live, Megadisc, 1986)
Mother Juno (Solid, 1987) *****
Pastoral Hide And Seek (Solid, 1990) ***
Divinity (Ep, Solid, 1991) **
Ahmed’s Wild Dream: Live In Utrecht (live, Solid, 1992)
In Exile (antologia, Triple X, 1992)
Lucky Jim (What’so Funny About, 1993) *****
Early Warning (Sympathy for the record, 1994)

 

JEFFREY LEE PIERCE

Wildweed (Statik Records, 1985) 9/10 *****
Flamingo (Ep, Statik Records, 1985) 5/10 *
Ramblin’ (con Cypress Groove e Willy Love) (TripleX, 1992) ***

 

THE JEFFREY LEE PIERCE PROJECT (POSTUMO)

We are only rider – AA.VV. (2010)
The journey is long – AA.VV. (2012)
Axel & sockets – AA.VV. (2014)

 

BIBLIOGRAFIA

Go Tell the Mountain: The Stories and Lyrics of Jeffrey Lee Pierce – Editore: 2. 13. 61. Los Angeles (1998) autobiografia in lingua inglese

Il porto delle anime. Cramps, Gun Club, Birthday Party, Sigfrido Mantovani: quattro biografie rock’n’roll – Stefano Alghisi, MalEdizioni (2015)

Storia del Punk – Stefano Gilardino , Hoepli (2017)

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