Le città invisibili di Italo Calvino: la realtà esiste perché la pensiamo?

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KUBLAT: Non so quando hai avuto il tempo di visitare tutti posti che mi descrivi. A me sembra che tu non ti sia mai mosso da questo giardino.
POLO: Ogni cosa che vedo e faccio prende senso in uno spazio della mente dove regna la stessa calma di qui, la stessa penombra, lo stesso silenzio percorso da fruscii di foglie. Nel momento in cui mi concentro a riflettere, mi ritrovo sempre in questo giardino, a quest’ora della sera, al tuo augusto cospetto, pur seguitando senza un attimo di sosta a risalire un fiume verde di coccodrilli o a contare i barili di pesce salato che calano nella stiva.
KUBLAI: Neanch’io sono sicuro d’essere qui, a passeggiare tra le fontane di porfido, ascoltando l’eco degli zampilli, e non a cavalcare incrostato di sudore e di sangue alla testa del mio esercito, conquistando i paesi che tu dovrai descrivere, o a mozzare le dita degli assalitori che scalano le mura d’una fortezza assediata.
POLO: Forse questo giardino esiste solo all’ombra delle nostre palpebre abbassate, e mai abbiamo interrotto, tu di sollevare sul campo di battaglia, io di contrattare sacchi di pepe in lontani mercati, ma ogni volta che socchiudiamo gli occhi in mezzo al frastuono e alla calca ci è concesso di ritirarci qui vestiti di chimoni di seta, a considerare quello che stiamo vedendo o vivendo, a tirare le somme, a contemplare di lontano.

Le città invisibili sono il progetto ambizioso di Italo Calvino, già consacrato autore fondamentale della nostra letteratura, in cui egli esplora un nuovo modo di pensare la scrittura. Sono il risultato delle sue grandi conoscenze delle tecniche della semiotica e dello strutturalismo. Questo sperimentalismo spinge l’autore a concepire il libro come un sistema da smontare e ricostruire a suo piacimento, dilettandosi e facendo in prima persona dilettare il lettore.

Nell’edizione Mondadori Oscar Moderni, il classico è corredato da una eccezionale postfazione di Pier Paolo Pasolini, il che ci consente di conoscere il rapporto tra due intellettuali così importanti per la cultura italiana. Nella sua postfazione, Pasolini ci parla di Calvino come ne parlerebbe un amico e forse anche per questo è un giudice così severo, nel senso di estremamente pignolo. Ci consente di individuare gli elementi fondamentali di un libro che, nel suo insieme, è sia romanzo, sia dialogo, sia saggio di linguistica.

Pasolini spiega come Calvino ha attinto dalle sue conoscenze per rubare da esse elementi tipici di una certa cultura letteraria (che Pasolini definisce una miniera abbandonata). Da questa miniera, Calvino preleva ambiguità, leggerezza e surrealismo.

L’ambiguità è l’elemento fondante de Le città invisibili. Infatti, tutta l’opera si basa sulla sospensione delle certezze. La cornice che è data dal dialogo tra Marco Polo e Kublai Khan è un insieme di domande senza mai una risposta, di pensieri senza un chiarimento, apparentemente senza filo logico. A ciò serve la leggerezza, che fa sentire il lettore spaesato come se stesse compiendo un viaggio senza meta, eppure con una parvenza di coerenza che è data dalla scrittura efficace.

Il surrealismo è infine ciò che più di tutto dipinge il quadro che sono le città invisibili. Se la cornice è il dialogo, la tela è una città che non si sa nemmeno se esiste e come debba esistere. La città reale, dice Pasolini, non si oppone ad una città ideale, bensì diventa ideale essa stessa: non c’è uno scontro, ma quasi una sintesi, che serve a farci comprendere l’incertezza della realtà stessa. Il mondo non è concreto o astratto, ma ha un’immagine variopinta, non è mai come appare a noi, ma allo stesso tempo non è altro se non questo. La domanda che dobbiamo porci è: il mondo esiste se non lo guardiamo, se non lo pensiamo? È il nostro pensiero stesso a plasmare il mondo, sono le nostre stesse parole a dare validità a ciò che conta per noi?

POLO: Forse questo giardino affaccia le sue terrazze solo sul lago della nostra mente…
KUBLAI: …e per lontano che ci portino le nostre travagliate imprese di condottieri e di mercanti, entrambi custodiamo dentro di noi quest’ombra silenziosa, questa conversazione pausata, questa sera sempre eguale.
POLO: A meno che non si dia l’ipotesi opposta: che quelli che s’arrabattano negli accampamenti e nei porti esistano solo perché li pensiamo noi due, chiusi tra queste siepi di bambù, immobili da sempre.
KUBLAI: Che non esistano la fatica, gli urli, le piaghe, il puzzo, ma solo questa pianta d’azalea.
POLO: Che i portatori, gli spaccapietre, gli spazzini, le cuoche che puliscono le interiora dei polli, le lavandaie chine sulla pietra, le madri di famiglia che rimestano il riso allattando i neonati, esistano solo perché noi li pensiamo.
KUBLAI: A dire il vero, io non li penso mai.
POLO: Allora non esistono.
KUBLAI: – Questa non mi pare una congettura che ci convenga. Senza di loro mai potremmo restare a dondolarci imbozzoliti nelle nostre amache.
POLO: L’ipotesi è da escludere, allora. Dunque sarà vera l’altra: che ci siano loro e non noi.

Così, nell’incertezza stessa dell’esistere, le città non sono mai definite, sono invisibili in quanto ciò che le caratterizza viene esposto sulla base di aneddoti, stati d’animo, segni linguistici e di parola che non dicono nulla, ma dicono anche tutto. Calvino ha costruito un inno al pensiero, ha reso in un’opera letteraria ciò che fin troppi filosofi avevano già capito: non c’è nulla di certo. Tuttavia in questo assume un significato fondamentale il dialogo con l’altro: è attraverso la conversazione, come ben era chiaro anche a Vittorini, che l’uomo trova se stesso. Tanto più che “conversazione” assume in Vittorini nella sua Conversazione in Sicilia un significato diverso. Normalmente significherebbe “trovarsi insieme”, come da etimologia latina, con versari, dimorare con. In Vittorini, tuttavia, la conversazione dimora in un contesto di viaggio, che è pure elemento fondante delle Città invisibili, visto che si descrive questo viaggio per le città ed uno dei protagonisti è il grande viaggiatore Marco Polo. In entrambi i casi permane il dubbio se il viaggio che stiamo intraprendendo sia vero o sia frutto di un sogno, ma sicuramente il valore delle conversazioni è chiaro e limpido. Questo valore è ancora più chiaro per Wilhelm von Humboldt, secondo cui il dialogo è la forma costitutiva dell’essere, grazie al suo valore transitivo di scambio: L’uomo anche per poter semplicemente pensare aspira a un tu che corrisponda al suo io.

Non è un caso, allora, che tra una città e l’altra si dia spazio proprio a un dialogo: è il logos a dare legittimità a ciò che esiste, è il nostro pensiero a far sì che la realtà venga conosciuta? Tutto ciò è esposto qui come una domanda, perché le certezze in quest’opera di Calvino, per fortuna, non esistono. Il lettore si ritrova davanti a un’opera fluida così come lo è la realtà e sta a lui mettere ordine a ciò che legge, comprendere qualcosa in questo caos. Così come deve dare ordine alla vita, con il suo pensiero, con la sua lettura. Da qui l’interesse per Calvino verso la letteratura combinatoria, in quanto il discorso verbale viene smontato e tocca al lettore rimontarlo a suo piacimento. Tocca a lui giudicare, selezionare, riconoscere.

E in questa incertezza in cui ci troviamo tutti, forse ciò che non pensiamo non esiste, ma non importa. Come ci insegna il finale, ciò che importa è cercare e saper riconoscere chi e che cosa in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

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