Se dovessimo «pesare» il male

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Se dovessimo ‘pesare’ il male quale unità di misura dovremmo pensare di adottare?

Il male, una questione antica ed eterna. Solo a definirlo si rischia di perdersi in estenuanti e fuorvianti concetti. Ma non è questo l’aspetto che si vuole considerare, si vuole tentare di darne un valore, un peso che possa delinearne il range e su questo modello di standardizzazione ragionarci. Considerato che non si può fare ‘piazza pulita’ del male, si rende necessario trovare, tra l’altro, dei sistemi di conforto che possano alleviare il peso di devastazione che esso infligge al corpo e alla mente del ricevente. Pensare a Dio, alla sua benevolenza e alla possibilità di un suo accoglimento delle istanze di sollievo non convince, tant’è che il male resiste dentro il ricevente e genera istinti o di arrendevolezza oppure di vendetta. Il male ha una forza replicante considerevole e intacca ogni aspetto della vita umana. Allora come gestire il male? E questo è un altro aspetto importante da chiarire.

L’intento di misurare il peso del male dovrebbe quanto meno indurci a comprendere la sua potenza di deflagrazione, gli effetti deleteri e le cicatrici che indubbiamente rilascia all’umanità. Si potrebbe intanto provare a quantificarlo in un range da uno a dieci, dove uno è ovviamente il minimo e dieci il massimo. In questo caso, anche in sede giurisdizionale sarebbe più facile per il giudice quantificare la giusta pena al malfattore. Il problema è: di tutti i mali esistenti, di ogni forma e genesi, a quale assunto empirico si dovrebbe affidare il valutatore al fine di attribuire il valore numerico? Un altro problema da non sottovalutare è l’esistenza del male, non in senso ontologico, né in senso teologico, ma più specificatamente nel senso di ravvisarne la sua evidenza e consistenza nel causare demolizioni a colui che lo riceve.

Non sempre il male, o meglio, il suo aspetto è condiviso e accettato da tutti, spesso viene ribaltato in senso contrario con formulazioni pseudomoralistiche tendenti a sminuirne l’entità e la sua effettiva presenza. In altri termini, ciò che per una parte dell’umanità è male, per l’altra potrebbe essere – diciamo così – qualcos’altro. E allora c’è sempre la questione eterna della sua definizione, che qui si vuole trattare al di là della teologia e della mistificazione che di esso anche la Chiesa si adopera a farne. Ovviamente, i simboli dei luoghi della dannazione quale l’inferno a o altro sono aspetti favolistici che non reggono la logica del male. Sì, la logica che ha in sé il male, da intendersi come l’espressa volontà del male stesso di agire per uno scopo predeterminato e causare degli effetti necessari a sé stesso al fine della propria esistenza.

Il male non è un accidente, è sostanza immateriale, ente che si autodetermina da sé, da un Uno indivisibile, che ha in sé tanta energia che trabocca e deve generare una situazione fattuale di degenerazione della sostanza sensibile. Questo porta a non chiedersi la ragione della sua esistenza, ma com’è di fatto la sua esistenza.
Il male in quanto male c’è, esiste di per sé, non replica altre cose derivanti da altri enti, si palesa così come è. La sua logica è allora quella di mostrarsi così com’è, senza alcun presupposto di pensiero né di valutazione preliminare, si espone alla visione immateriale dell’uomo per poter certificare la propria esistenza e agire per proprio conto nella mente dell’essere umano, del quale ha bisogno e necessità di sostegno e di perpetuazione della sua rappresentazione nel tempo e nello spazio dell’umanità, luogo di predilezione e di sacralità. L’essere umano, tramite il corpo e la mente, è dunque l’altare su cui il male officia la portata della propria essenza – stavolta – materiale e decide la sorte di sé stesso e degli altri, nella consapevolezza logica di destabilizzare l’armonia individuale e universale.

A questo punto, non è possibile quantificare il suo peso, il valore è dato dalla sua irriducibilità a non essere ciò che è, vale a dire, la sua consistenza è sempre derivante dalla sua logica di manifestarsi sempre con le stesse modalità, seppure in forme diverse, ma nella propria indivisibilità. E proprio l’indivisibilità della sua potenza non ci permette di semplificarlo in un valore numerico e darne una concettualizzazione in riferimento ad uno standard numerico. È indivisibile e come tale è sempre ciò che è. Tutti i ragionamenti e le spiegazioni che si intendono dare sulla sua esistenza cadono e si infrangono sulla insussistenza di una possibile trattazione in termini matematici del suo valore di deflagrazione. Ogni essere umano lo percepirà in maniera diversa rispetto agli altri, ma la sua consistenza non cambia, poiché esso si propaga sempre con la stessa intensità e forza propulsiva di cui è dotato, inconoscibile agli individui. Il suo peso è indeterminabile per sua stessa necessità di essere sempre e in ogni momento ciò che è, senza mai distinguersi o frantumarsi in numeri primi o infiniti che lo porterebbero a identificarlo e smascherarlo. Questa è la sua peculiarità, non svelarsi mai per ciò che è, ma essere sempre ciò che è.

Rimane da dare una risposta: come gestire il male? Come fronteggiarlo? L’unica arma possibile è la ragione, l’intelligenza umana che deve – innanzitutto – accettare la sua presenza e conseguentemente limitarlo con gli strumenti della forza di volontà e di assidua allerta, mettendo al bando il suo aspetto ammaliante. Ciò che il male rappresenta di sé stesso è l’assoluta necessità della sua esistenza.

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