L’essenza dell’apparenza

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Le apparenze sono il fondamento di quel che conosciamo degli altri e di ciò che gli altri conoscono di noi. Nessuno ha accesso diretto all’interiorità, nessuno può darsi agli altri senza affidarsi a una mediazione sensibile, a ciò che si manifesta ai sensi. Nel rapportarsi, gli essere umani non possono evitare di considerare le cose come appaiono, di concentrare la loro attenzione su ciò che è visibile e percepibile. Il paradosso per cui la realtà coincide con la sua manifestazione fenomenica è insito nella natura stessa dell’esperienza sociale. È il modo in cui le persone appaiono a costituire la sostanza del mondo condiviso. L’io instaura il legame sociale attraverso la propria esperienza. L’apparenza crea il legame intersoggettivo, lo istituisce e lo rappresenta, rivelando la società come una rete di relazioni sensibili. Questo schermo sensibile condiziona tutti i nostri rapporti sociali e li media. L’apparenza sociale è sempre sospetta, vittima dell’accusa di stravolgere una realtà più profonda e autentica, assume inevitabilmente lo statuto di una maschera.

Il ruolo delle apparenze è sempre mediale. Esse sono il tramite con cui si stabiliscono e si calibrano i rapporti reciproci tra persone, tra la realtà soggettiva, segreta e privata, e la realtà oggettiva, accessibile e pubblica. La maschera è un mediatore diplomatico tra entità distanti che sono potenzialmente incompatibili. L’apparire ha una duplice funzione: espositiva ma anche protettiva, utile a schiudere lo spazio dell’interiorità e a farlo comunicare, ma anche a custodire il suo fragile contenuto.

L’apparenza è un tessuto in tensione tra due impulsi conflittuali e ugualmente potenti: l’esibirsi e il nascondersi. Ciò che ricopre è anche ciò che esibisce. Ciò che si manifesta apertamente è solo la maschera, questa personalità apparente, fittizia e artificiale, che esercita nei confronti dell’interiorità psichica una funzione di rappresentanza.
Poiché tende a essere considerata una realtà inferiore, l’apparenza viene relegata dal senso comune filosofico nella sfera della doxa. L’io ossessionato dalla propria immagine pubblica ha bisogno di trovare continue conferme di sé, riflettendosi nella coscienza-specchio degli altri e giudicandosi sempre in maniera relativa e posizionale rispetto al valore altrui. Ciò che Hobbes definiva vanità è una delle cause scatenanti dello stato di conflittualità in cui vivono gli esseri umani, l’implacabile guerra di tutti contro tutti. Proprio perché ha come oggetto il nulla, la vanità è distruttiva, votata all’annichilimento. Nella prospettiva oggettiva, invece, le vanità sono tutti quei fenomeni di costume che si producono nello strato più superficiale della realtà, mettendo in gioco le apparenze e le immagini che le persone hanno le une delle altre.

Tuttavia, il pregiudizio contro l’apparenza non è condiviso da tutti i filosofi; alcuni hanno tentato una rivalutazione di quell’insieme di fenomeni ed esperienze che, proprio perché effimere, sembrano valorizzare quanto la vita umana possiede: la sua finitezza, il suo legame con il tempo. Nella tradizione filosofica occidentale, la visione prevalente è stata senz’altro quella fondata sulla metafisica dei due mondi, rappresentata dal pensiero platonico, che oppone il regno dell’essere autentico a quello dell’apparenza ingannevole. Alla sfera superficiale e fenomenica che comprende tutto ciò che si corrompe e che di conseguenza corrompe anche l’interiorità di colui che vi si dedica, si oppone il nocciolo sostanziale e durevole del reale.

L’errore non è quello di aspirare all’autenticità, quanto pensare che per raggiungere questo valore si possa cancellare la mediazione estetica dell’apparire nei rapporti sociali. L’individuo non consiste solo nell’idea che ha di sé stesso, ma anche della sua realtà sociale più effimera e apparente. Una delle poche certezze che offre un fondamento alla precarietà delle nostre vite è che gli altri hanno sempre un’opinione su di noi, valutazioni che si basano sulla nostra immagine.

L’apparenza è il modo in cui ci presentiamo in società, elemento insostituibile nelle interazioni sociali. L’immagine sociale è qualcosa che ci appartiene strettamente, ma che non si può controllare, in quanto dipende dall’attestazione degli altri. Il riconoscimento è sempre un problema perché non può essere estorto, il mio valore sociale è quello che gli altri mi riconoscono. L’uomo di oggi è fragile, apparentemente libero di essere sé stesso, ma in realtà influenzato a essere come gli stereotipi indicano. Una serie di circostanze esterne porta l’uomo a mutare il proprio io e ad apparire, al solo fine di adattarsi alla società. Viviamo nella civiltà delle immagini, dove i mass media insinuano modi di vita basati sulla superficialità, dove la tecnologia propone un’altra realtà, quella virtuale, che a volte sostituisce quella reale, che ci fornisce la possibilità di realizzare maschere, destinate a mettere in mostra o modificare la nostra identità; maggiori sono le approvazioni, i consensi, tanto più l’individuo si sentirà gratificato, rischiando di confondere il reale col fittizio, e l’immagine volutamente ostentata molto spesso rappresenta quello che non siamo e che non riusciamo a essere.

Siamo in un contesto sociale regolato da leggi sociali e morali da rispettare, che a volte ci condizionano e ci obbligano a muoverci, secondo schemi ben definiti e che accettiamo anche quando contrastano con la nostra natura e le nostre convinzioni.

Un tratto fondamentale del pensiero di Pirandello è il contrasto tra vita e forma, apparire ed essere. Per lo scrittore la personalità degli uomini non è una, ma molteplice: cambia a seconda delle circostanze e delle convivenze. L’individuo ha per natura il bisogno di confermare la propria esistenza e ciò è dato dall’esser visti. Gli uomini, secondo Pirandello, non sono liberi, sono inseriti in una società regolata da leggi e abitudini, stabilite in precedenze, indipendentemente dalla propria volontà. Si perde il contatto con il sé interiore, essere sé stessi rende vulnerabili. La maschera esprime il desiderio di nascondere quello che si è, di non mostrare quella parte che si fa più fatica a svelare, costretti, così, a identificarci in ruoli, che si acquisiscono per volontà o per costrizione. Questi ruoli sono le maschere che indossiamo, a secondo delle esigenze e delle contingenze. Nascondersi dà la sensazione di essere al sicuro, altre volte adattarsi soffoca, alienandoci da ciò che siamo veramente. Pascal affermava: «Lavoriamo senza posa ad abbellire e a conservare il nostro essere immaginario e trascuriamo quello vero». Nel corso di ogni esistenza, il problema che si pone qualsiasi essere umano è quello di scegliere e di decidere se si vuole essere ciò che si è oppure apparire per ciò che non si è, consapevoli che siamo noi a circoscrivere l’incisività nel nostro essere, del nostro esistere e del nostro agire. Possiamo incidere positivamente sull’ambiente in cui viviamo, proponendo stili di vita e finalità diversi da quelli che critichiamo e che non ci rappresentano.

Avere a disposizione un osservatore esterno pronto a giudicarci può costituire uno stimolo a far apparire il nostro lato migliore, e abituandoci a farlo apparire ci educhiamo a essere realmente migliori, come ribadisce l’antico motto socratico: «Sii quale desideri apparire», compiendo così un atto di scelta deliberata tra le molteplici potenzialità che il mondo offre.

Arendt opera un’opportuna distinzione tra l’apparenza e la pura, ingannevole parvenza, intendendo con parvenza l’ente che non-è e che si manifesta proprio in quel “non”. L’apparenza non gode di quel “non” privativo, proprio della parvenza; piuttosto è qualcosa che annuncia il fenomeno, ma non lo mostra (Arendt, 1987). La parvenza è connaturata all’apparenza, come l’errore è connaturato alla verità, il muoversi tra le parvenze non è altro che l’errore, ma l’errore non preclude il movimento verso la verità. Simulazione e inganno intenzionale, errore e illusione, sono inevitabilmente le intrinseche potenzialità, in cui l’uomo incorre nel suo muoversi tra le parvenze. Siamo tutti soggetti alle apparenze, però possiamo scegliere consapevolmente le modalità della nostra esibizione nel mondo. L’autopresentazione si distingue dall’auto-esibizione grazie alla scelta attiva e consapevole dell’immagine mostrata; l’autopresentazione non è possibile senza consapevolezza di sé, capacità connaturata al carattere riflessivo delle attività spirituali, che trascende la semplice coscienza.

In un contesto in cui non è possibile sottrarsi allo sguardo e al giudizio dell’altro, dove essere ed essere percepiti coincidono, siamo chiamati a essere responsabili della nostra immagine. La società della sovraesposizione mediatica non deve annullare lo sguardo dell’uomo su di sé, la capacità di percepirsi; correndo il rischio di trascurare la propria esistenza nell’oblio dell’ignoranza, dove il più grande sconosciuto è proprio il sé stesso reale, costruito su una falsa parvenza, con la paura di non essere, dove quella falsa e costruita parvenza assicura almeno di esistere.

Vivendo di relazioni, l’apparenza diventa una manifestazione necessaria, non si può cancellare la mediazione estetica dell’apparire nei rapporti sociali, ma trovare un equilibrio, dando la giusta importanza alle due componenti. Questo implica una profonda trasformazione interiore, in cui affermiamo la nostra identità, senza perdere il valore prezioso, costituito dalla propria unica e fragile individualità.

 

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Bibliografia

H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987.
M. Heidegger, Essere e tempo, a cura di Franco Volpi, Longanesi, Milano 2015
H. Plessner, I limiti della comunità, Laterza, Roma-Bari, 2003.
L. Strauss, La filosofia politica di Hobbes, Argalia, Urbino 1977.
J. Derrida, L’archeologia del frivolo: saggio su Condillac, Dedalo, Bari 1997.
J.J. Rousseau, Sull’origine dell’ineguaglianze, a cura di V. Gerratana, Editori Riuniti, Roma 1968
E. Liotta, La maschera trasparente, Feltrinelli 2006
L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila, Bemporad, Firenze 1926.
B. Carnevali, Le apparenze sociali, Il Mulino, Bologna 2012
M. Merleau- Ponty, La natura, trad. it., R. Cortina, Milano 1996
B. Pascal, Pensieri, Edizioni Utet, Milano 2014
S. Natoli, L’arte di meditare, Feltrinelli, MIlano 2016.
V. Ursini, Il dilemma verità dell’essere o nichilismo, Book Sprint Edizioni, 2013

One response to “L’essenza dell’apparenza

  1. Ho apprezzato il suo articolo. Qualche riflessione a margine.
    Essere è apparire
    Dicotomia essenza/apparenza? Noumeno/fenomeno? Certamente, c’è una robusta tradizione filosofica e letteraria a confortare questa angolazione interpretativa. Oppure l’apparenza – che è scelta, anche quando è adeguamento allo sguardo dell’altro – “è” l’essenza? Voglio dire: l’apparenza non è solo necessità, medialità, strategia, non è un abito transitorio e cangiante dell’essere. L’appello all’essere (all’interiorità) è forse l’estremo tentativo di rimuovere la consapevolezza del proprio non-essere. L’orrore del “nudo” ci spinge a indossare senza posa la “maschera”. Le nostre maschere siamo noi.
    Essere, in definitiva, è apparire.

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