Sulla nullità dell’uomo moderno

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Nella sua opera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, pubblicata nel 1984, Milan Kundera sostiene che i tempi moderni sono quel periodo in cui l’importanza ed il peso della vita umana hanno perso di significato, diventando più leggeri. Witold Gombrowicz, scrittore polacco venticinque anni più vecchio di Kundera, ha un’idea allo stesso tempo comica e geniale per definire questa situazione. Secondo Gombrowicz, il peso del nostro Io dipende dalla quantità di popolazione presente sul pianeta: il peso dell’esistenza umana si è diviso e diluito in una tale quantità di parti, di porzioni differenti, da far sì che il peso ed il valore dell’esistenza stessa si sia ridotto, si sia alleggerito fino al punto da diventare insostenibile. Quindi il peso dell’Io diventa sempre più leggero man mano che la popolazione del pianeta aumenta, come se l’energia che dà peso all’Io fosse di quantità limitata e, poiché viene distribuita in un numero elevato di persone, finisce per essere di modesta quantità in ognuno. Volendo esprimere questo concetto con linguaggio matematico, si potrebbe dire che il numero è inversamente proporzionale alla sostanza.

Ciò che Kundera vuole porre sotto i nostri occhi è, probabilmente, la condizione in cui si trova l’uomo nei tempi moderni. L’uomo moderno è entrato in una fase della storia dove le forze individuali sono totalmente sottomesse alla gabbia di acciaio dell’amministrazione planetaria, sottomesse anch’esse dalle forze della storia, forze probabilmente scatenate dall’uomo stesso che, nell’intento di migliorare la propria vita, si “concede” alla tecnica, quella stessa tecnica di cui, però, ha perso il controllo e di cui adesso è inevitabilmente schiavo. L’uomo, per via del suo smanioso desiderio di onnipotenza, è causa del suo delirio e si ritrova anche ad essere effetto di quella causa.

Il romanzo di Kundera si svolge a Praga, nel 1968. Tomasz e Teresa, i due protagonisti del romanzo, cercano in tutti i modi di fuggire da questa leggerezza, una leggerezza che li schiaccia e li attanaglia. I due, dopo numerose peripezie con le forze dell’ordine, riescono a fuggire e ad andare in Svizzera, trovandosi nella condizione di apolidi. Un passaggio da una gabbia di acciaio ad un’altra: un destino crudele! Da qui il dilemma dei due: restare in Svizzera o tornare nel paese dei deboli, quello da cui sono fuggiti, la Cecoslovacchia? Abbandonandosi alla schiavitù, ritornano nel loro paese di origine, facendo una scelta di pesantezza lasciandosi cadere per non continuare a fluttuare nel nulla. Presi dalla vertigine della leggerezza, ritornano, lei prima, lui dopo, nel paese dei deboli.

Ma cos’è questa Vertigine? È l’ottenebrante e irresistibile desiderio di cadere. È l’ebbrezza della debolezza. Ci si rende placidamente conto della propria debolezza e, invece di resisterle, ci si abbandona ad essa, ci si ubriaca della propria debolezza e ci si lascia cadere sempre più giù, sprofondando sempre di più nell’oblio dell’essere. Ma qual è il motivo di questa debolezza? Qual è la sua causa? Cosa ha reso l’uomo debole? Forse il non essere più in contatto con sé stesso? Non essere più in contatto con la vita? Forse aver perduto il contatto che lo teneva legato alla natura ha reso debole l’uomo? Questo suo esser passato da Homo Faber che, però, nutre rispetto per la vita e la natura, a uomo macchina che, invece, la natura usa e sfrutta per i propri bisogni, la distrugge perdendo la ratio che la lega ad essa, «un uomo macchina, con macchine al posto del cervello e del cuore», per citare una scena de Il Grande Dittatore, film del maestoso Charlie Chaplin, in cui lo stesso regista, da attore, interpreta in chiave parodistica una variante satirica di Hitler, pronunciando le suddette parole, mentre esorta l’uomo ad essere migliore nel suo straordinario e conclusivo discorso all’umanità. L’uomo, secondo Chaplin, è diventato un uomo macchina perché «la macchina dell’abbondanza ci ha dato povertà e la scienza ci ha trasformati in cinici».

Tra questi illustri intellettuali, non può non spiccare anche un immenso Franz Kafka che, con i suoi lavori mette in luce l’assurdità dell’esistenza dell’uomo moderno, che vive in uno spazio dove armeggia un’inquietante assenza di senso e di claustrofobica mancanza di libertà. Tutto è diventato macchinoso e si muove senza una ragione viva come un inarrestabile orologio impazzito fatto di implacabili e spietati ingranaggi impossibili da fermare. «Nel mondo kafkiano» – dice Kundera – «il sistema burocratico assomiglia alle idee di Platone. Essa è la vera realtà, mentre l’esistenza fisica dell’uomo è soltanto un’illusione, è un mondo in cui viene deificato il potere, dove si crea una teologia burocratica». Sembra quasi apparire dinanzi agli occhi la storia di quell’ingegnere che si trova a dover fuggire dal proprio paese per evitare le conseguenze di una azione mai commessa e di cui è stato accusato. Il paradosso dei paradossi. Un ingegnere di un paese dell’Europa socialista rientra in patria dopo aver partecipato ad un convegno scientifico a Londra. Al suo ritorno scopre che un quotidiano locale lo condanna come traditore della patria per aver fatto dichiarazioni in cui calunniava la patria socialista, decidendo, allo stesso tempo, di rimanere nell’occidente capitalista. Traditore della patria e del partito. L’articolo parla di lui, ma egli sa benissimo che nulla è vero di ciò che è scritto. A quel punto, è impossibile fermare la macchina messa in moto. La notizia è sì falsa, ma passata al giornale dal Ministero degli Interni ed è arrivata al Ministero da un rapporto dei Servizi Segreti. L’ingranaggio è oramai in moto, impossibile arrestarlo. Una smentita è assolutamente da escludersi. Nonostante gli venga detto di star tranquillo, l’ingegnere si sente osservato e continuamente sorvegliato. Non riuscendo più a dormire e a sopportare la tensione di essere sempre braccato dallo Stato, decide realmente di scappare così da diventare per davvero quell’emigrato che prima non era affatto. Egli si ritrova, paradossalmente, a dover affrontare un tribunale della colpa inesistente, un potere che ha il carattere di un labirinto interminabile e ingannevole, perché è un labirinto, in realtà, senza via d’uscita. Un sistema folle, da cui egli non sa se riuscirà mai ad uscire e da cui, forse, non può realmente fuggire, se non attraverso la morte, chissà, perché fuggire dal proprio paese senza volerlo ed essere costretti a doversi rifare una vita è un po’ come morire e rinascere nuovamente. Si tratta di quella famosa realtà letteraria che viene definita come kafkianità. Se in un romanzo ordinario di genere è la colpa che cerca il castigo, in Kafka, la situazione si capovolge: colui che è punito non conosce la causa della punizione. La cosa è talmente insopportabile che, pur di trovare la pace, l’accusato cerca una giustificazione alla pena che gli viene inflitta, facendo nascere il castigo che cerca la colpa. Quell’interminabile labirinto burocratico da cui non v’è uscita alcuna si trasforma anche in un labirinto mentale da cui sempre non v’è uscita alcuna, se non cedere alla pressione del mondo, del potere esterno che agisce violentemente su quello interno fino a creare le implacabili mostruosità dell’Io.1

Che il mondo moderno ha perduto i suoi valori ce lo insegna anche un’altra splendida opera, I Sonnambuli, pubblicato nel 1932, di uno scrittore e drammaturgo viennese, di famiglia ebraica benestante, Hermann Broch. In quest’opera, che Musil riterrà essere una sorta di plagio del suo L’uomo senza qualità, Broch delinea perfettamente i tre momenti in cui si assiste alla degenerazione dei valori, alla crisi dei valori che, secondo l’autore, avviene proprio con l’avvento del mondo moderno. Sembra che con l’era moderna l’uomo rimanga intrappolato in una rete, un grande universo amministrato e tecnicizzato, macchinoso e, per certi versi, violento. Broch attraversa cinquant’anni di storia all’insegna della perdita dei valori, proprio qualche anno prima dell’avvento distruttore del nazismo. I tre personaggi che delineano l’incessante e crepuscolare tracciato che porta alla “morte” dell’uomo vivono tre differenti periodi storici, ognuno conseguente all’altro, in cui i valori umani si vanno via via dileguando per sparire ed evaporare e lasciare il posto ad un’umanità senza anima, un’umanità che ha sostituito il suo cuore fatto di carne con uno fatto di sterili ingranaggi ferrosi.

Pasenow, il primo dei tre personaggi, è un romantico, un personaggio sentimentalmente attaccato ai valori più alti, valori come lealtà, onestà, virtù, fedeltà, valori che non trovano più corrispettivo nella realtà. Pasenow è una sorta di sconfitto perché non riconosce più il mondo e non riconosce più sé stesso nel mondo che lo circonda. Esch, il secondo, incarna fedelmente la figura del fanatico. I valori per lui sono spariti, non hanno più significato e hanno perso densità, però, di contro, pretende che tutti nel mondo vivano proprio quei valori in maniera disciplinata. Esch è un personaggio, in fondo, confuso, instabile, è quella che viene ritenuta una testa calda. Si fa licenziare e colpevolizza un suo collega ebreo che vuole denunciare perché ritiene pericoloso, fino a ricredersi del suddetto quando questo lo invita amichevolmente a bere con lui, e così, tutti i suoi propositi svaniscono, evaporano. Forse, in Esch è già tutto privo di senso, anche se apparentemente tutto in lui un senso sembra averlo, ma forse l’unica cosa che ha senso in lui, come direbbe Spinoza, è il continuo fluttuare da un’emozione all’altra a causa di forze esterne, come una altalena impazzita mossa dal vento. Il terzo personaggio è, probabilmente, dei tre, l’incarnazione della vera mostruosità moderna. Hugenau, il cinico. L’unica cosa che per lui ha valore è la carriera. Incarna l’uomo contemporaneo in tutto e per tutto. Nel mondo contemporaneo privo di valori morali si sente completamente a suo agio. Egli è addirittura disposto ad uccidere un suo rivale senza sentire alcun senso di colpa a riguardo. Hugenau incarna, forse, l’effetto del mondo moderno sull’uomo? È forse lo specchio esatto di come è diventata la società moderna? È il riflesso di quello che l’uomo ha fatto alla natura, snaturandola e strumentalizzandola senza controllo, fino al punto da divenire macchina egli stesso e comportarsi come una macchina nei confronti degli altri uomini?

Anche altri illustri pensatori, contemporanei dei finora esposti, delineavano con acuta perizia e con una sorta di preoccupante chiaroveggenza i tempi che l’umanità stava attraversando e gli insidiosi effetti che un certo atteggiamento sconsiderato dell’uomo poteva scatenare sull’uomo stesso e anche nei confronti dell’ambiente circostante. Il teologo e scrittore italiano di nascita, ma tedesco di formazione, Romano Guardini, nella sua opera, Lettere dal lago di Como, composta di nove lettere scritte nella metà degli anni Venti, attraverso lucide riflessioni, rivela i suoi timori circa il rapporto fra uomo e progresso tecnico. La critica che Guardini muove verso il progresso tecnico (o un certo tipo di progresso tecnico) è chiarissima. Ciò che lo ispira è l’osservazione della progressiva invasione della tecnica nella vita sociale attorno al lago di Como, dove l’autore trascorreva periodi di riposo. Egli confessa chiaramente che è colto da tristezza nel vedere come la macchina stia prendendo il sopravvento sull’uomo e di come ci si renda conto che questo processo sia oramai inarrestabile. Fino ad allora, il dominio della cultura sulla natura era stato equilibrato, ma ora il mondo che lo circonda e con esso l’umanità sembrano soccombere al mondo della tecnica ed entrambi sembrano in procinto di tramontare, lasciando il posto ad una dimensione nuova dell’esistenza, una dimensione in cui l’uomo stesso si sentirà soffocare e in cui avrà difficoltà a vivere. La sfera esistenziale in cui viviamo, sostiene Guardini, sta diventando sempre più artificiale, l’uomo non è più in contatto con la natura e perdendo questo contatto perde anche ciò che c’è di umano in lui. La minaccia per l’uomo contemporaneo è l’inumano! Si badi, Guardini non critica affatto la scienza, ma il fatto che la scienza non passi più attraverso la coscienza dell’uomo. Prima esisteva un limite che, fino ad un certo momento, non era stato superato. Quando questo limite è stato superato, le energie sono state tratte fuori dalla natura e si sono scatenate. L’uomo ha cominciato ad agire e pensare meccanicamente, facendo diventare ciò che è umano e naturale, artificiale. Bisogna trovare un nuovo atteggiamento. Forse il mondo della tecnica potrà essere nuovamente dominato assumendo un atteggiamento differente. Bisogna vivere la macchina senza diventare noi stessi macchina, senza che la macchina domini l’uomo ma “umanizzando la tecnica ritornando ad essere uomini noi stessi”, per citare direttamente il teologo tedesco. L’uomo moderno sembra aver acquisito potere sulle cose, ma sembra non avere affatto potere sul proprio potere. L’uomo deve riacquisire questo potere, ma probabilmente l’uomo non è ancora preparato all’uso della potenza di cui è entrato in possesso. Forse l’uomo preparato a ciò deve ancora nascere. Forse l’uomo del futuro avrà la possibilità di questo dominio, ma deve innanzitutto avere dominio su sé stesso, ma se il futuro è un effetto di una causa che si crea adesso, se adesso non ci si attiva per questo, non ci sarà alcun futuro. Cosa può, quindi, venire in soccorso dell’uomo moderno?

Probabilmente, la risposta è in grado di darcela un altro filosofo tedesco di religione ebraica, Hans Jonas. Nella sua opera, Il principio responsabilità, Jonas sostiene che bisogna stabilire un nuovo concetto di responsabilità perché le promesse della tecnica moderna si sono trasformate in minacce, perché l’uomo porta con sé la colpa di aver avviato un’irruzione violenta nell’ordine cosmico, invadendo le sfere più delicate della natura e liberando una potenza verso cui non è preparato affatto. In realtà, sostiene ancora Jonas, quanto maggiore è il potere che abbiamo sulla natura, tanto maggiore deve essere il nostro senso di responsabilità nei suoi confronti. Più sapere tecnico accumuliamo, più la nostra responsabilità aumenta in maniera esponenziale.

Contemporaneo di Jonas,2 ma in realtà, in un certo qual modo, contemporaneo anche degli altri intellettuali citati, pur occupando spazi temporali differenti, è Theodor Adorno. Adorno è anch’egli ebreo, più precisamente di padre ebreo e madre profondamente cattolica. Fugge, dapprima in Inghilterra, poi negli Stati Uniti, per poter essere ciò che deve, per poter essere ciò che vuole, perché l’avvento del Nazismo lo costringe ad un momentaneo, ma non tragico esilio, poiché il nuovo mondo gli darà molto in cambio e gli permetterà di uscire da un periodo difficile, un periodo in cui cresce molto filosoficamente. In quanto ebreo, Adorno mette alla sbarra il nazionalsocialismo anche perché muove contro di esso un’accusa giustamente feroce, quella di aver paralizzato la fiorente bellezza che si stava compiendo in Europa, da Vienna fino a Parigi, strozzando l’essere umano in una terribile morsa da cui si sarebbe liberato con difficoltà e da cui sarebbe uscito totalmente cambiato. Il nazismo impedisce all’uomo di attuarsi, alla bellezza di avverarsi, all’anima di essere, lasciando spazio a centinaia e centinaia di stivali insanguinati, a percorrere l’Europa distruggendo la vita con un’azzannante e micidiale spietatezza. Chissà, forse per Adorno è lì, in quel momento, che termina l’età moderna che porta con sé nell’oblio tutti i suoi valori di bellezza, cedendo il passo ad una tecnica che si rivelerà essere impazzita e frenetica. «Dopo Auschwitz e dopo la Seconda Guerra Mondiale, tutto è distrutto senza saperlo, anche la cultura risorta», scrive colto da uno sconfortante orrore.

Tutto è distrutto. Tutto è perduto. Adorno che, con estrema sensibilità, percepisce che forse abbiamo perduto una sorta di age d’or della cultura, di cui, come detto, sia Vienna che Parigi se ne facevano elegante e colto teatro. Due guerre assurde, una dopo l’altra, che non hanno soltanto disintegrato palazzi e carne, ma ideali e valori privando l’uomo di una luce che lo stava portando in alto. «Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie» afferma Adorno facendo risuonare questa frase come un’implacabile sentenza. Hans Enzensberger, poeta e scrittore tedesco, invece, replica che è proprio questo il compito della poesia, è proprio questo ciò che ci si aspetta da essa, così come dall’arte in generale. In effetti, dalla pittura (basti pensare al Guernica di Picasso, che con la sua opera folgorante rivela le atrocità che la guerra stava compiendo in Spagna)3 fino alla musica, l’arte svolge la sua funzione liberatoria, quando manifesta senza filtri gli orrori o le fratture sociali ad essa contemporanee. Essa diventa espressione “sacra” della verità proprio quando si concretizza in una statua, in un dipinto o in una sinfonia. «La musica dice la verità senza illusioni, svela la verità che l’uomo non vuole ascoltare, rivela all’uomo qual è la condizione umana», scrive ancora Adorno. Così come l’arte ci mostra la vita sotto una luce diversa, nella quale essa dispiega la sua essenza, un’essenza che spesso l’individuo non è in grado di cogliere, così anche la musica rivela all’uomo cosa egli sta vivendo, in quale spazio esistenziale si trova e diventa riflesso della società a lei contemporanea, ma purtroppo spesso è essa stessa utilizzata per influenzare le masse. Se da un lato certi compositori, anche eccelsi, hanno avuto la possibilità di esporre la propria musica liberamente, dall’altro sono anche stati strumento di Governi che li utilizzavano per propagandare certi ideali. Non soltanto bellezza, ma anche patria. Bellezza della patria.

Beethoven, cresciuto in un ambiente percorso dalle idee illuministe e vivendo entusiasticamente la sua adesione alla Rivoluzione Francese, compone un glorioso Inno alla Gioia, per rappresentare un appello alla fratellanza umana. Lo stesso compositore non manca, in altre sue opere, di inserire segnali militari, squilli di tromba e potenti rulli di tamburo che vengono spesso usati con fini precisi. Si può solo immaginare l’effetto elettrizzante che tali artifici potevano avere sul pubblico europeo all’inizio dell’Ottocento, nel pieno periodo delle guerre napoleoniche.4 Lo stesso linguaggio, però, si può ritrovare più tardi, con Verdi in Italia e Wagner in Germania, ma anche con il famoso Gruppo dei Cinque in Russia.5 Tutti questi compositori venivano anche invitati ad impiegare il loro genio artistico con l’intenzione di creare nazionalismi, per esaltare i concetti di patria e fedeltà alla nazione. Le arie e i cori delle opere di Verdi, che avevano la magia di penetrare profondamente nelle coscienze di tutti, venivano cantati nelle piazze divenendo la colonna sonora del Risorgimento Italiano. Se non per “Verdi risorgimentale” e “Wagner nazionalista”,6 ruoli che, come sostiene il maestro Riccardo Muti, sono eccessivamente estremizzati, di tutt’altra pasta è il Gruppo dei Cinque che crea un filone musicale tipicamente russo, sganciandosi quanto più possibile dalla tradizione musicale dell’Ottocento europeo, pur di creare una nazione vera e propria e di riconoscersi in essa anche attraverso la musica.

Ma se la musica del Settecento e dell’Ottocento, piena di idee illuministiche, risorgimentali o nazionalistiche, che faceva della sua sinfonia un grido pregno della sua epoca, la cui struttura melodica era intrisa delle idee a lei contemporanee, che sapeva percepire chiaramente l’atmosfera che circolava in quel periodo, è perfetta espressione del suo tempo, possiamo dire quella lo stesso di quella attuale? Se la musica è davvero espressione del tempo che attraversa, se davvero, come sostiene Adorno, il ruolo della musica è quello «di rivelare l’enigma della realtà che ci circonda», qual è quella che ci circonda adesso? Se Adorno ha una certa stima per la musica colta, anche di stampo avanguardista7 non può dirsi altrimenti per generi come il jazz. Sul jazz esprime la critica più aspra e severa. Sostiene che il jazz sia finto. Sostiene che il jazz indossi una veste democratica e anticonformista, sembra esprimere libertà ed emancipazione, ma, in realtà, è soltanto un altro prodotto delle potenze monopolistiche dell’industria culturale che mira a riconfermare la sottomissione dell’uomo al suo volere. Se Adorno esponeva questo pensiero più di cinquant’anni fa, oggi, come possiamo definire musica un misto di suoni artificiali prodotti da chiassosi sintetizzatori robotici? Se la musica attuale è fatta di questo, di sterili e roboanti suoni metallici, è perché l’uomo attuale si è anch’egli trasformato da persona a macchina?

Nei suoi studi sociologici, forte è la critica che Adorno, assieme al suo collega Horkheimer, muove contro il razionalismo occidentale. Come è possibile, si chiedono i due intellettuali, che invece di entrare in uno stato veramente umano, sembra che stiamo sprofondando in un nuovo periodo di barbarie? Come è possibile che una società che si reputa colta, progredita e razionale stia degenerando nel delirio collettivo? Probabilmente la risposta la abbiamo già data precedentemente. Probabilmente la risposta va ritrovata anche nelle righe scritte da Guardini e Jonas, da Kundera e Broch. Probabilmente, ha ragione Gombrowicz, il peso dell’esistenza umana si è notevolmente ridotto e, chissà, si avvia verso il totale svanimento. Probabilmente, siamo tutti diventati così come ci definisce Adorno: consumatori. Non più uomini, ma consumatori. Non viviamo più, ma consumiamo e basta. Esseri che senza l’oggetto si sentono vuoti, perché è nell’oggetto stesso che l’individuo ritrova sé stesso, è nell’oggetto stesso che l’individuo si identifica credendo, illusoriamente, che possedere quell’oggetto migliori la propria personalità, senza comprendere che è nell’oggetto stesso e in quella stessa identificazione che a poco a poco, oggetto dopo oggetto, la propria anima, la propria coscienza di essere e di esserci, smette di essere Uomo e diventa inesorabilmente Macchina al servizio di altre Macchine… un Uomo inumano «con macchine al posto del cervello e del cuore»… sì, proprio come il Chaplin di Tempi Moderni che, nella frenesia della modernità, è costretto a fondersi con un gigantesco ingranaggio i cui bulloni si sono allentati, per salvare una macchina figlia di un’industria impazzita che finisce assurdamente per essere più importante dell’essere umano che l’ha creata!

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