Un po’ alcolizzato, un po’ folle, un po’ suicida

Tratto da tr. it. di M. de Stefanis, Feltrinelli, Milano 2009, pag. 141.
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Quando Bousquet parla della verità eterna della ferita, è in nome di una ferita personale abominevole, che egli porta nel suo corpo. Quando Fitzgerald o Lowry parlano di questa incrinatura metafisica incorporea, quando vi trovano il luogo e l’ostacolo del loro pensiero, la fonte e il prosciugamento del loro pensiero, il senso e non senso, ciò accade con tutti i litri di alcool che hanno bevuto, che hanno effettuato l’incrinatura del corpo. Quando Artaud parla dell’erosione del pensiero come di qualche cosa di essenziale e di accidentale a un tempo, radicale impotenza e nondimeno alto potere, è già dal fondo della schizofrenia. Ciascuno rischiava qualcosa, quanto più lontano in tale rischio e ne trae un diritto imprescrivibile. Cosa rimane al pensatore astratto quando dà consigli di saggezza e di distinzione? Allora, parlare sempre della ferita di Bousquet, dell’alcolismo di Fitzgerald e di Lowry, della follia di Nietzsche e di Artaud, rimanendo sempre alla riva? Diventare professionista di tali chiacchiere? Augurarsi soltanto che coloro che furono colpiti non sprofondino troppo? Fare delle riviste e numeri speciali? Oppure andare di persona a vedere un po’, essere un po’ alcolizzato, un po’ folle, un po’ suicida, un po’ guerrigliero, abbastanza per allungare l’incrinatura, ma non troppo per non approfondirla in modo irrimediabile? Ovunque ci si volti, tutto sembra triste. In verità, come restare alla superficie senza permanere sulla riva? Come salvarsi salvando la superficie e tutta l’organizzazione di superficie, compreso il linguaggio e la vita? Come giungere a questa politica, alla guerriglia completa?

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