La vecchia cara lingua italiana

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«Secondo De Mauro […] il 71% della popolazione italiana si troverebbe al di sotto del livello minimo di comprensione nella lettura di un testo di media difficoltà. Deprimente? Aspettate di leggere il seguito.
Il 5% degli Italiani non sa leggere né scrivere. Il 33% è a forte rischio di analfabetismo. Non più del 20% è in grado di orientarsi e risolvere, attraverso l’uso appropriato della lingua italiana, situazioni complesse e problemi della vita sociale quotidiana.
E De Mauro non è l’unico a dirlo: ci sono ben due studi internazionali che confermano le sue parole. Eppure gli Italiani, oltre che ignorantelli, sembrano essere anche un po’ sordi e a riprendere in mano la grammatica non ci pensano proprio» (dal sito Finzioni).

«Solo il 29 per cento degli italiani sa padroneggiare la nostra lingua» dice ancora De Mauro, e pensare che all’università (non importa più quale) un’«ordinaria» ricordava che è molto importante proprio «padronare l’italiano».

8 responses to “La vecchia cara lingua italiana

  1. Io avrei scritto «Solo il 29 per cento degli italiani padroneggia la nostra lingua». Infatti, in “padroneggiare” è implicito il saper fare. In alternativa, “sa scrivere” o “sa parlare”; “sa padroneggiare” non sembra suonare molto bene :-)

  2. Ho letto. Innanzitutto, non sono d’accordo con il prof. Giuseppe Raciti relativamente all’affermazione che i prodotti di Steve Jobs siano altamente personalizzabili :-) In secondo luogo, non c’è dubbio che esiste uno strettissimo rapporto tra la qualità della democrazia di un Paese e il suo grado di alfabetizzazione. Così però non abbiamo detto molto. Possiamo dire di più affermando che la qualità di una democrazia è direttamente proporzionale alla capacità dei cittadini di penetrare nel background argomentativo (in senso lato) delle diverse posizioni (tesi, programmi, partiti) in campo. Ora, l’analfabetismo è solo uno dei modi in cui questa penetrazione può fallire. Un modo alternativo, perfettamente compatibile con l’alfabetismo, consiste nel considerare quel background meramente sovrastrutturale alle posizioni in gioco, ritenendo che queste siano meglio comprensibili risalendo alle loro fonti, cioè agli interessi, per lo più (o esclusivamente) economici, dei soggetti che le sostengono. In quest’ottica, caratterizzata dalla sfiducia nella ragione e nella verità, non si tratterà più di scegliere tra il progetto politico più razionale o più radicato nella verità, ma più semplicemente di scegliere i propri compagni; e per fare questo non è necessario scendere nel sottosuolo delle “argomentazioni” – sarebbe una perdita di tempo.

  3. Spero che questi dati non siano assunti come pretesto per aumentare la spesa pubblica nel settore scuola! Proprio così. Per quanto possa sembrare paradossale, penso che in quel modo si metterebbe il carro davanti ai buoi. Bisogna invece costruire una società diversa da quella attuale, in cui le competenze linguistiche (e cognitive) siano premiate socialmente e soprattutto economicamente. In una società in cui i premi e le sanzioni sociali ed economiche sono informati a tutt’altri criteri, è chiaro che puoi buttare un intero patrimonio nella scuola pubblica, ma la cultura sarà sempre giudicata (giustamente) un cattivo investimento. Se, invece, si incomincia dalla società, allora la domanda di istruzione verrà da sé, soprattutto dalle classi sociali più basse, che in essa vedrebbero uno strumento di riscatto. A quel punto il dibattito se la scuola deve essere pubblica o privata, cattolica o laica, finirebbe alla ortiche: si giudicherà innanzitutto che la scuola deve essere una buona scuola!

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