Anarchisme et Anthropologie. Pour une politique materialiste de la limite

Asinamali, Parigi 2016
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Se esiste un piacere filosofico, come ogni altro piacere non può che avere origine dal corpo, più precisamente grazie a qualcosa che attraversa il corpo, che vi entra e vi esce, ripetutamente. E se dovessimo trovare una definizione per questo ancoraggio filosofico al corpo, potremmo dire “corporalismo”, che è qualcosa di più di un mero materialismo meccanico. Perché il corpo è anche cultura, la quale agisce su di esso, lo attraversa, vi entra e vi esce, ripetutamente.

È dunque così che possiamo intendere il materialismo a cui invita Biuso in questo libro breve e denso. Proprio sulla base della corporeità imprescindibile degli esseri umani riesce a scardinare alcuni presupposti fallaci di molti modelli politici almeno a partire dalla Rivoluzione Francese, imbevuta di dottrina rousseauiana.

Il tentativo di fondare l’anarchismo sull’antropologia è senza dubbio fecondo; ma risulta fondamentale decidere quale punto di vista antropologico adottare. La visione disincantata di Biuso ha il grande merito di non celare l’aggressività di fondo dell’essere umano, che ne ha bisogno per nutrirsi, difendersi, accoppiarsi; ma se da una parte è vero che vi sono delle caratteristiche innate, non bisogna concluderne che siano insuperabili o immutabili, perché «se un impulso è innato, non significa in nessun caso che non possa essere educato: l’aggressività […] può essere controllata e diretta verso fini non distruttivi» (pag. 29, ogni traduzione è mia). Sgomberare il campo dall’equivoco della vulgata del “buon selvaggio” (nel testo rousseuaiano le cose sono un po’ più complesse), ci può permettere di sostenere un’antropologia libertaria, capace di «comprendere come il comportamento umano si conforma e si struttura, senza che idee preconcette di ogni sorta – dalla fiducia rousseauiana al pessimismo hobbesiano – siano da ostacolo alla scoperta della verità, quale che essa sia» (pagg. 51-52).

Biuso analizza due aspetti in particolare: da una parte, come accennato, le strutture antropologiche dell’essere umano a partire dalla sua corporeità; dall’altra cioè che le dottrine e i regimi politici hanno creduto di poter fare dell’uomo. Riguardo al primo aspetto, Biuso propone una visione strettamente materialista e per certi aspetti “innatista”; guardare con lucidità a quest’ultima caratteristica, significa non cedere alle due tentazioni opposte, ossia da una parte credere che l’uomo sia plasmabile in tutto e per tutto, perché solo prodotto dell’educazione e della cultura, e dall’altra che l’approccio innatista sia contrario alla trasformazione politica. Riconoscere che la violenza faccia parte del corredo genetico dell’essere umano non significa ancora che questi sia innanzi tutto ed essenzialmente violento, perché essa è presente allo stesso modo «dell’arte, della curiosità, del gioco, inscritti nei nostri geni. Ciò che possiamo tentare di fare è diminuire l’importanza e la funzione della violenza gratuita a vantaggio del gioco gratuito della conoscenza» (pag. 27).

Il secondo aspetto è una critica dei regimi politici che prescindendo dalle caratteristiche innate credono di poter fare dell’uomo ciò che vogliono. Da questo punto di vista, nazismo, comunismo e capitalismo consumistico si rivelano molto simili, soprattutto perché accomunati dal trasformare la politica in una fede religiosa, in un culto. A questo si aggiunge l’errore di considerare immutabile ed eterno nell’uomo ciò che invece è solo frutto di una determinata cultura o di un particolare contesto storico e sociale (cfr. pagg. 58-59).

La visione antropologica materialista e disincantata, per contro, propone un modello in cui «la liberazione dell’etnia, della classe o della tribù ha poco valore se non implica quella dell’individuo» (pag. 62). Probabilmente il modello anarchico è tra tutte le visione politiche quello che suscita più interrogativi riguardo alla natura dell’uomo e a una possibile applicazione nei contesti più diversi. Di anarchia si parla ancora e se ne scrive tanto, e non è di certo una caso se però le voci anarchiche, da sempre represse e stroncate, spesso anche in maniera violenta, oggi non trovino nessuna risonanza mediatica, ancor meno che in passato, costrette a circolare in piccoli gruppi e a essere tacciate delle infamie peggiori (ogni volta che vi è un attentato, se non sono stati i terroristi islamici, si batte la pista anarchica). Per le cronache mediatiche o anche per la cultura (dei) media, l’anarchico è brutto, sporco e cattivo, è violento, vuole scardinare il potere probabilmente perché ha sete di potere, vuole togliere tutto ai buoni padri di famiglia probabilmente perché vuole accaparrarsi tutto lui stesso. Chi detiene il potere, chi vuole il potere (politico, familiare, militare, economico, religioso) è convinto che tutti gli altri vogliano il potere e soprattutto che glielo vogliano sottrarre. Ha senso parlare di anarchia in questo stato di cose? Quale proposta anarchica concreta si può opporre al potere mediatico e cultura del capitalismo consumista? Biuso accenna una risposta, pur constatando che forse il potere in quanto tale è ineliminabile; ma quantomeno «bisogna evitare in tutti i modi possibili un potere che nasca e si consolidi come gestione individuale, familiare, dinastica e partitica della struttura sociale collettiva. Il minor potere possibile a ciascuno; una distribuzione più larga, orizzontale e collettiva; l’uguaglianza tra le componenti del corpo sociale nella gestione dell’interesse comune» (pagg. 72-73).

In questo libro si parla molto spesso di superamento, di oltrepassamento di alcuni limiti, anche innati, dell’essere umano. Il punto decisivo è da chi e come debba cominciare questo superamento. Parlare di anarchia, come di ogni dottrina che abbia immediate ricadute pratiche e politiche in senso lato, significa in primo luogo dover vivere da anarchici, pena la falsità di ogni parola scritta. Dunque è da tutti coloro, me compreso, che hanno questa consapevolezza che dovrebbe cominciare il superamento, in un processo che dal singolo investa la società e al singolo faccia inevitabilmente ritorno.

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