Anarchismo e post-strutturalismo

Elèuthera, 1998
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Il testo proposto, pubblicato nel 1994 negli Stati Uniti ed edito in Italia nel 1998, è a dire il vero un po’ datato, ma quanto mai attuale, specie in riferimento al recente dibattito sui “Beni Comuni”. Il merito di Anarchismo e post-strutturalismo. Da Bakunin a Foucault di Todd May, filosofo statunitense, è certamente quello di disporre e combinare le molteplici teorie che compongono il vasto territorio dell’anarchismo così da far emergere spontaneamente, dal fondo eterogeneo di tale paesaggio, il piano d’immanenza virtuale cui esse potrebbero, ad un tempo, riunirsi e dispiegarsi. L’ipotesi che aleggia sin dalle prime pagine è che tale epistemologia è stata di fatto elaborata dai post-strutturalisti francesi e nello specifico da autori quali Foucault, Deleuze e Lyotard. D’altra parte, May mostra come le teorie che nel tempo sono proliferate in seno al marxismo non hanno cessato di avvicinarsi alle teorie anarchiche; tale slittamento è rintracciabile, da un lato, nella critica al concetto e alle pratiche di rappresentanza, e più in generale al concetto di rappresentazione, dall’altro nella critica alla concezione marxista del potere, secondo cui esso sarebbe proprietà esclusiva di una specifica classe sociale.

May ci offre una triplice ripartizione della filosofia politica moderna: formale, strategica e tattica.1
1) Quale sarebbe la natura di una società giusta? Questa la domanda cui tenta di rispondere la filosofia politica formale, la quale gravita intorno al polo etico. L’oggetto di indagine di tale filosofia non è il mondo reale con le sue concrete problematiche ma il mondo ideale in cui domina un’idea di giustizia che sia tale per tutti (universale). Suo illustre rappresentante è John Rawls con il saggio Una teoria della giustizia in cui elabora alcuni principi universali al fine di indicare la giusta e corretta condotta dei soggetti; i principi vengono ricavati e dedotti, attraverso l’analisi di particolari situazioni, con una sorta di esperimento mentale e costituiscono i lineamenti generali della giusta società. D’altro canto Nozick in Anarchia, stato e utopia afferma che i principi che Rawls concepisce come universali sono in realtà gli stessi principi statuali di giustizia ipostatizzati a modelli naturali: tali principi sono sbagliati in quanto obbligano gli individui alla rinuncia di ciò che tocca loro per diritto in virtù del loro lavoro.

2) La filosofia politica di tipo strategico, invece, tenta di rispondere al Che fare? di Lenin, domanda che attraversa tutta la riflessione del marxismo. Questo filone di pensiero analizza le condizioni concrete d’esistenza poiché riconosce che in esse si sviluppano quelle contraddizioni che porteranno al ribaltamento del sistema capitalistico; esso comprende anche un programma etico ben limitato, il quale si manifesta nel tentativo di fornire un’analisi unitaria del concreto e nel tentativo di elaborare una soluzione definitiva all’unica problematica che popola l’universo marxista: «Nel pensiero strategico la molteplicità di oppressioni e ingiustizie che pervadono una società e la possibilità di giustizia sono poste in un’unica problematica».2

3) È questo un punto molto importante su cui conviene sostare al fine di delineare le differenze tra l’approccio strategico e quello tattico. Infatti, per la filosofia politica di tipo tattico non esiste nessun centro da cui il potere viene esercitato e si diffonde. Esistono invece molti luoghi differenti da cui il potere ha origine e vi è una stretta relazione tra i rapporti che essi intrattengono e l’universo sociale cui appartengono. In un altro punto fondamentale la filosofia tattica si oppone a quella strategica: se esiste infatti un luogo centrale del potere, un luogo da cui questo viene esercitato, allora è molto probabile, se non certo, che esista un’avanguardia di illuminati che, per sua specifica determinazione sociale, è disposta in una posizione privilegiata per condurre analisi attendibili e produrre una resistenza efficace al capitalismo. Ebbene, ciò è proprio quello che rifiuta la filosofia politica di tipo tattico: se il potere è decentrato allora è molto difficile che esso possa essere detenuto legittimamente da una sola classe sociale. In altri termini, «è molto difficile che un qualche segmento di individui si trovi specificatamente in una posizione di funzione avanguardista nel cambiamento politico».3

Ora, fa notare May, nella tradizione del pensiero politico occidentale esiste un antecedente che fa dell’ambiguità tra polo strategico e polo tattico la sua principale attività: questa tradizione è l’anarchismo. Anzitutto l’anarchismo non accetta l’intervento politico rappresentativo; inoltre quasi tutti gli anarchici condividono un’idea unitaria della natura umana: sostanzialmente, dato che la natura umana è buona, non vi è bisogno di esercitare alcun potere. Tuttavia il filosofo statunitense si affretta a precisare che «il concetto di essenza umana è stato sottoposto a critica da parte dei post-strutturalisti, in quanto altra faccia del pensare strategico, che conduce a proprie pratiche di oppressione».4

Ma prima di tentare la risoluzione della questione, il filosofo statunitense pone l’accento sull’irriducibile ambiguità che attraversa il concetto di potere. L’ambiguità di fondo è riscontrabile già in Kropotkin: per gli anarchici il potere è una negazione (di libertà) che deve essere negata, ciò nondimeno è l’obiettivo a cui essi tendono dato che il potere deve mantenersi nelle mani di coloro che ne sono investiti. Il tentativo, come si vede, è quello di riabilitare il concetto depurandolo da tutte le connotazioni negative che, almeno da questo punto di vista, sono costituite dall’accentramento e dunque dalla rappresentanza. Come separare il potere dai suoi effetti negativi? Come abbiamo già detto, la risposta degli anarchici tradizionali è tanto semplice quanto disarmante: l’essenza della natura umana è buona, viene corrotta dalla nostra società. Se riuscissimo a rimuovere gli ostacoli che tale società frappone tra noi e gli altri, tra noi e noi stessi, allora il sogno anarchico non sarebbe più utopia ma presenza reale. È proprio questo l’oggetto di critica dei post- strutturalisti. Infatti, presupponendo la bontà umana e universalizzando tale concetto, dio o chi per lui (la presunta bontà umana, in questo caso), ritorna ad essere fondamento indiscusso del pensiero, l’assioma da cui può discendere tutto il sistema.

Nella parte centrale del testo, invece, May ingaggia un breve ma serrato confronto con la formidabile metafisica del potere elaborata da Deleuze e Guattari.
Sembra sia proprio questa la parte più significativa del testo, ove l’autore riesce a dar conto dei presupposti logici che sostengono un simile pensiero, il quale è già immediatamente politico: l’etica che lo sostiene aggredisce qualsiasi universale, sia la presupposta bontà umana che il reale dispositivo surcodificatore della forma-Stato, denunciandolo per quello che è, cioè l’estremo tentativo totalizzante del pensiero calcolante, il sostrato su cui può innestarsi il dispositivo repressivo e, allo stesso tempo, produttivo del potere. Deleuze mette in contrapposizione lo Stato alle forze “nomadi” della “macchina da guerra” o, come le chiama nel suo Anti-Edipo, “le macchine desideranti”, ovvero forze creative ma deterritorializzate. Le forze “nomadi” si oppongono ai tradizionali vincoli di identificazione sociale e non sono legate a nessun dispositivo sociale; risultano fondamentali nella misura in cui dispiegano una gamma di nuove possibilità per delle pratiche inedite. Caratteristica fondamentale del pensiero nomade è la sua creatività distruttiva, la sua congenita opposizione allo Stato. Di contro, l’obiettivo della forma-Stato è quello di surcodificare (“la surcodificazione […] è l’operazione che costituisce l’essenza dello Stato”), ovvero regolare la creatività nomade, connetterla a date strutture, affinché essa non superi i confini dati dal sistema e possa essere ricondotta entro il recinto sicuro del medesimo. Infatti la forma-Stato non crea, piuttosto funziona sfruttando la creatività della “macchina desiderante” tentando di incanalare il flusso desiderante in percorsi istituzionali poco pericolosi.

Non è che l’apparato di Stato non abbia senso: possiede anch’esso una funzione molto particolare, in quanto surcodifica tutti i segmenti [cioè determinazione parziali della vita], sia quelli che prende su di sé in quel particolare momento, sia quelli che lascia fuori di sé. O meglio, l’apparato di Stato è un concatenamento concreto che dà effettuazione alla macchina di surcodificazione di una data società.5

Operando in tale maniera, il pensiero moderno è costretto a pensare entro la monotonia del medesimo, avvalorando ancora una volta la singolare vocazione di certa filosofia occidentale che tenta continuamente di liquidare la differenza.

La macchina astratta di surcodificazione assicura l’omogeneità dei diversi segmenti, la loro convertibilità, la loro traducibilità […]. La macchina astratta non dipende dallo Stato, ma è la sua efficacia a dipendere dallo Stato in quanto concatenamento che realizza all’interno di un campo sociale.6

Pur non essendo l’unico surcodificatore, lo Stato è l’operatore che rende stabile l’operazione, configurandosi così come una sorta di Codice dei codici, l’UrSystem, l’Uno totalizzante che tenta di addomesticare la differenza, racchiudere e controllare la molteplicità del sociale: surcodificando, la “macchina molare” statale cerca di tutelare e garantire la persistenza di alcuni codici ed eliminare o emarginarne altri. Possiamo dire quindi che ciò che i due francesi hanno proposto è una genealogia “teorica” o “concettuale” dello Stato, concepito e analizzato non come istituzione ma come “macchina astratta” in grado di tradurre diversi codici sociali per inglobarli, unificarli e infine gestirli. La genealogia è quel metodo che riesce a dar conto della differenza, che cerca di cogliere l’emergenza di un oggetto non da un’unica fonte ma da una molteplicità di sorgenti, “è una spiegazione storica degli oggetti, che ne sottolinea la contingenza, la dispersione, la mobilità senza meta” chiosa ancora Todd May. Tale metodo produce una politica diffusa e attiva una resistenza localizzata che si distribuisce nello spazio, specie nei punti in cui le pratiche si scontrano o si intersecano con sistemi di oppressione. D’altra parte, il pensiero nomade per trovare una via di “fuga” dalla rete di relazioni di potere che lo attraversano, cercherà di costituire un percorso rizomatico che ingarbugli le radici egemoni e, allo stesso tempo, produca pratiche positive che resistano alla tendenza totalizzante. In ultima istanza si tratta di “divenire minoranza”, di resistere tra le minoranze e sperimentare nuove vie di fuga:

Ecco allora cosa bisogna fare: installarsi su uno strato, sperimentare le possibilità che ci offre, cercarvi un luogo favorevole, eventuali movimenti di deterritorializzazione, possibili linee di fuga, provarle, assicurare qui e là delle congiunzioni di flussi, tentare segmento dopo segmento dei continua d’intensità, avere sempre un piccolo pezzo di nuova terra.7

Quello che il filosofo ci offre non è una ricostruzione diacronica, quanto piuttosto una densa cartografia del pensiero politico moderno, cartografia segnata da continua d’intensità, da lotte, contrapposizioni in cui il “molare” si oppone al “molecolare”, la “rappresentazione” alla “produzione”, la “struttura” alla “macchina”. Tramite questo gioco di ambivalenze ed opposizioni, il filosofo statunitense mostra attraverso quali sentieri il pensiero anarchico si attualizzi, modificando i propri assunti e i propri dogmi, per sfuggire alla fredda morsa dell’identico.

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